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Se poggi male il piede, l’equilibrio ne risente. Stai in bilico e chi ti guarda vede uno di quegli uccelli su una zampa sola. Hai presente quando s’incastra un pezzo d’insalata fra i denti e non te lo dicono? O quando una macchia sul di dietro dei pantaloni fa fare smorfie a quelli che stanno sull’autobus? Se rifiuti il soccorso diventi insolente, se ti fai aiutare, be’, a quel punto sei stupido.

Ho scelto, dopo avere preso in considerazione più possibilità, di trasferirmi in una città deliziosa. Tram e piccoli bar si affacciano sul corso e c’è un eccellente reparto di ortopedia. Qualche volta il piede si gonfia, è colpa del sangue: non drena. Aggiungi a questo la terapia per il bipolarismo. Ti stai sentendo in salvo? Tu non hai di questi problemi, né mai li avrai.

Fino a quando sono stato in cura al centro d’igiene mentale, per almeno quattro mesi su dodici era un pasticcio. Il dosaggio del Litio era troppo alto o troppo basso. A ogni cambio di stagione passavo un mese a letto e uno nella buca del coniglio. Guardavo il soffitto, fino a quando le disuguaglianze nella tempera cominciavano ad animarsi come nelle ombre cinesi e scendevano verso terra, buie e minacciose. Però lo sapevo che si trattava della mia testa. Seguiva la fase euforica, se dimenticavo l’eutimizzante.

Nell’altra casa ho un migliaio di penne biro nascoste dentro la credenza di mia madre. Una volta sono uscito in pigiama con lo stereo sulla spalla e mi sono seduto a fumare nel bar del centro, nell’altra città. Il proprietario chiama mio fratello che arriva con gli occhi bassi, mi strattona e mi porta dritto a casa. La radio la tengo fissa sullo stesso canale, a volume alto, anche di sera. I vicini protestano. Non è che sono maleducato, mi gira così. Ho cambiato psichiatra da un anno. È una donna che riceve nel suo studio, nella nuova città. Per essere brava è brava, però se non parlo raddoppia le dosi. L’ultima volta mi ha chiesto: «Ti andrebbe per caso di vivere in comunità?». Le ho raccontato che insieme a mio padre e mia sorella siamo andati a fare un giro in una casa di cura. Ho aggiunto che sto bene nella città piccola e graziosa dove mi sono trasferito e non mi va di spostarmi di nuovo. Lì, nella casa di cura, ci sono troppi gradini e il piede ha preso a farmi male. Colpa dell’ulcera sotto la pianta. Col caldo si riapre. Prima si rimargina e poi sanguina di nuovo. Le infermiere sono così carine che sembrano uscite da un vecchio film. Profumano di gardenia. Coni gelato. Vorresti leccare le loro dita per conoscerne il sapore e annusare le cuffiette rigide che sanno di bucato. Mi hanno chiesto se volevo essere aiutato. Sono timido e ho preferito rifiutare. Lo desideravo ma ho deciso così. Sai, per quel discorso della compassione. Loro sono infermiere e compatire è il loro lavoro, così non mi è sembrato il caso di approfittarne; la gentilezza non deve essere un lavoro.

Padre e sorella mi hanno chiesto cosa me ne pareva. «Bello», ho detto. Però non era vero. Con il giardino quel posto sembrava lo zoo e noi gli animali, più arrabbiati però, come succede a quelli in gabbia che o ingrassano o aggrediscono.

Una volta mi sono buttato giù dalla terrazza. Casa di mia madre è al primo piano e guarda, si è trattato solo del femore della gamba destra, non quella del piede malato per fortuna. Ero troppo su di giri e dovevo calmarmi. Capisci?

Mentre studiavo fisica all’Università è successo qualcosa del genere dopo una settimana d’insonnia, ma ora non voglio parlarne. Mia sorella sta discutendo di questo con il professore. Mi guardano seri. Lei fa il gesto della caduta, con la mano in aria. Il piede mi fa malissimo. Sono rimasto dritto con le braccia dietro la schiena per mezz’ora, come in collegio durante l’ispezione. Per qualche tempo, da ragazzino, mi hanno messo dai carmelitani. A primavera cominciavo a togliermi i vestiti e correre, correre, correre nel cortile, così il direttore mi rimandava a casa. Da quell’anno che mia madre è andata via, papà mi ha spedito d’inverno in convitto e d’estate in colonia. Ero bravo con le poesie «Sempre caro mi fu quest’ermo colle che dell’ultimo orizzonte il guardo esclude», mi pare. Il direttore me le faceva recitare intanto che gli lucidavo le scarpe. Inginocchiato, recitavo e strofinavo. Strofinavo e lucidavo. Diceva, con una voce strana, che rafforzava lo spirito e curava gli scalmanati.

Io prendo la pensione, per il piede e il bipolarismo, anche se di notte, grazie a un contratto in nero, faccio l’ingegnere minerario. Sorella è a dieci passi da me e io mi sto liberando. Nei pantaloni. La puzza di merda fa voltare il professore. Si saranno arrabbiati. «Ce l’hai una sigaretta?», dico.

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Immagine in copertina: M. Kardinal, o. T. #3, digital collage, 2015, www.segmentederwirklichkeit.de