Utopia comunitaria.
Un lungo travaglio ha preceduto – ai posteri si demanda la realizzazione di ogni teleologia, agli aruspici e agli oracoli la profezia, ai lettori politici la manipolazione plastica dei fatti – una presa di coscienza improvvisa come un colpo di scena, un sollievo o una guarigione insperata: ci sono tensioni irriducibili; c’è un solo modo per accogliere questa irriducibilità: un certo tipo di abbandono.

Un certo tipo di abbandono: le idee sono più importanti degli individui che le veicolano; uno sdoppiamento: il mio corpo come campo di battaglia e come arbiter elegantiae della battaglia stessa; quale battaglia, poi? L’irriducibilità di una certa tensione; la rinuncia a sciogliere – limitare, definire, chiudere – il conflitto; una fune tesa tra i due poli del conflitto: l’equilibrio (non la misura) come un accidente fortuito, una botta di culo («oggi ci è andata bene!»), una presa d’aria.
Un certo tipo di abbandono: un’attitudine dunque: tentare il contrario e il contraddittorio, viverci dentro, fare di esso il partner con cui si va a letto. Intorno a quest’attitudine, forse a causa di essa, di colpo un assembramento di individui. Esiste dunque un richiamo verso questo peculiare abbandono? Esistono ancora gli spiriti liberi? Voglio dire, esiste ancora lo spirito?

Lo spirito dell’assenza. Tutto ciò che una comunità può condividere è l’abbandono: l’esercizio disperante di fare dell’assenza la res publica, il bene comune. Ma è davvero un’assenza quello che mettiamo costantemente in gioco e in comune – intanto l’assembramento di individui si è costituito in nucleo – e non invece una dinamica, un movimento a sparire? Sulla prima delle tavole comunitarie abbiamo scritto:

“Le parole che usiamo rimandano a simboli che poggiano sul vuoto, sono vecchie e quasi inservibili; le parole che usiamo ci sono state trasmesse e noi non le usiamo proprio: in verità noi non facciamo altro che tacere e picchiare”.

Lo sclero della presenza: richiamiamo nostro malgrado con queste parole un movimento circolare e potenzialmente infinito (l’infinito è, ma non esiste) in cui la presenza di ciò che sfugge ha lo statuto di una promessa non mantenuta, che noi sappiamo inesaudibile, a cui siamo tenuti tuttavia a credere per via dell’intensità con cui è stata pronunciata.
Credo quia absurdum: è un atto di fede, ogni gesto, ogni pensiero come un atto di fede – in un certo senso, nell’orizzonte di un certo tipo di abbandono. Tanto vale allora distribuire a ogni membro della comunità un palliativo: un veleno ad azione immediata; così abbiamo deciso di fare (parte integrante del rito d’ingresso: accogliere dalle mani dell’officiante, coi palmi aperti e gli occhi chiusi, un’ampolla di vetro ripiena di polvere grigiastra; versare sull’indice della destra una quantità di veleno inferiore alla superficie del polpastrello; ingerirla; vomitare; sputare sangue; dormire, se possibile, quanto più possibile). Una quantità così infima di quel veleno finisce per uccidere solo quelli, tra i membri, che sarebbero morti di lì a poco in ogni caso.

La scelta della rinuncia.
Un tempo, se ben ricordo: abbandonare la letteratura (la scrittura!) come un dovere; abbandonare la letteratura e sputarci sopra. Guardavamo dietro di noi l’albero genealogico dei poeti-martiri e ripetevamo il mantra:

«Noi non vogliamo essere come voi; non vogliamo più giudicare le cose senza averle prima esperite; non vogliamo più aprire bocca; vogliamo diventare muti».

L’avventura per sopperire alla letteratura: volontà di esperienza. Il mantra:

«Noi vogliamo sporcarci le mani, vogliamo sospendere il giudizio, vogliamo adeguarci al ritmo del caso».

Guardare indietro tuttavia era lacerante. Il delirio della mancanza prese a scavarci dentro. Un lungo travaglio precedette la formulazione corretta della domanda: non cos’era la letteratura per noi, ma cosa sarà. Volontà di futuro.

Illustrazione di Andrea Moriello per “L’inevitabile”.

Une envie de politique.
La perfezione della fuga è il ritorno. Tornare in incognito – dissimulare sempre: la letteratura (la scrittura!) come esercizio segreto.
Trasferire il dominio della lotta nel luogo più essenziale: il calderone, il laboratorio centrale; entrarci nudi, uscirne vestiti.
Un dominio inter-soggettivo: comunità di individui soli. Un certo tipo di abbandono: abolire le opposizioni fondate sul vuoto (natura/cultura; uomo/macchina; forma/contenuto; essere/nulla e compagnia cantando); togliere l’uomo dal piedistallo (senza-io, senza testa, acéphale); accogliere ogni ostacolo, ogni ripiegamento come una festa – volonté de chance – per accedere alla dimensione più essenziale del vivente: ogni pensiero emette un colpo di dadi; sfidare il senso ad apparire: transfert totale della cosa politica nella cosa letteraria.

Torna dunque l’immagine della scrittura – come una membrana, circoscrive ora l’intera traiettoria: l’abbandono e il ritorno. La scrittura come vivisezione performativa del pensiero; il mantra:

«Schiudendosi, il segno mostra il suo limite; mostrandolo produce uno scarto, una deviazione o differenza. Questo scarto è un luogo politico – il buco in cui si modella l’informe. È il luogo che devo infine abitare – è il luogo che sto abitando ora».

Due casi di sclero della presenza.
Un uomo si diede alla macchia prima ancora di conoscere il mondo, come una vergine al Minotauro. A due passi dal mostro, si accorse che il labirinto è prima di tutto un rifugio: come nel grembo di una madre irreprensibile, le sue forze, al permanere dentro, si facevano via via più esuberanti.  Fin dai primi istanti all’aria aperta – venirne fuori fu molto più semplice che entrarvi – calcolò che le variabili, all’esterno, erano infinitamente più insidiose che all’interno. Era davvero pronto a sfidare il senso ad apparire? Si sentiva pronto.

Un uomo, all’apice del successo mondano, si tolse la vita. Prigioniero dello sclero – questo volere a ogni costo una cosa, la cosa, e non poterla possedere; questo assistere impotente all’allargarsi a dismisura dell’orizzonte del desiderio, fino a rendere la cosa stessa, l’oggetto del desiderio, sempre più inafferrabile e irriconoscibile, sempre più niente – a un passo dalla soluzione si tolse la vita. O forse la soluzione era semplicemente la morte, e quell’uomo fraintese l’intero processo.

Volontà di futuro.
La dimensione della comunità non è lo spazio ma il tempo. La scrittura (la letteratura!) come pratica di abbandono (abitare lo scarto, il luogo in cui si modella l’informe), come pratica esplorativa: nel continuo tentativo di riposizionamento rispetto all’ignoto; la dimensione del lascito. Il lascito a quelli che verranno dopo – i figli di cui non conoscerai mai il volto; gli uccelli che voleranno oltre. Allo stesso modo, in questa dimensione diacronica: vivente e morto come gradazioni quasi irrilevanti: i padri morti sono più presenti ora, attraverso i loro lasciti, di ogni altro animale vivo. Il vivente ha ragione del morto, per ovvie ragioni – valga lo stesso all’inverso.