Leggere Borges è ciclico; leggerlo una volta sola è come tentare di ricordare un sogno. Quando ho ripreso “L’altra morte” (in L’aleph) ho pensato, sconvolto, che questo racconto fosse una sorta di Twin Peaks The Return senza la Loggia Nera – un’ingenuità imperdonabile: non avevo riletto abbastanza.

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Nella foto: Philip Jeffries nel seminterrato di Beatriz Viterbo

Doppelgänger! 

Il tema del doppio è caro a Borges almeno quanto lo è a Lynch. Due tra i racconti tardi dello scrittore argentino, “L’altro” (in Il libro di sabbia) e “25 agosto 1983” (in La memoria di Shakespeare) lo affrontano in modo diretto e autobiografico: l’incontro tra Borges e Borges segue regole precise, la cui natura, lo vedremo, è bene discutere più avanti. Per una volta, invece, diamo ragione alla cronologia – quel post hoc ergo propter hoc che ha fondato il realismo letterario – e cominciamo da due perle nascoste ne L’aleph: “Storia del guerriero e della prigioniera” e “Biografia di Tadeo Isidoro Cruz”. In entrambi i racconti il doppelgänger non è il fondamento della narrazione, ma la sua epifania.

“Storia del guerriero e della prigioniera” si apre con una citazione autentica da La poesia di Benedetto Croce, in cui il filosofo riporta la storia di Droctulft, citata a sua volta da Paolo Diacono. Il guerriero svevo-longobardo, durante l’assedio di Ravenna, abbandonò i suoi per difendere la città. I cittadini di Ravenna gli diedero sepoltura in un tempio e composero un epitaffio in suo onore:

“Terribilis visu facies, sed mente benignus […]” (“Storia del guerriero e della prigioniera”, in J.L. Borges, Todos los cuentos, Penguin Random House, 2016, p. 254)

Nell’esposizione dei fatti, Borges si attiene alle fonti. La datazione tuttavia è incerta:

“Non so neppure quando, di preciso, questi fatti accaddero: se nella metà del VI secolo d.c., quando i longobardi devastarono le pianure italiane; o se invece nell’VIII secolo d.c., prima della resa di Ravenna. Immaginiamo – non è questa un’opera di carattere storico – che sia vera la prima opzione. Immaginiamo Droctulft sub specie aeternitatis, non l’individuo Droctulft, che fu di sicuro unico e insondabile (come tutti gli individui), ma il tipo generico che di lui, e di altri come lui, ha fatto la tradizione, che è opera dell’oblio e della memoria.” (p.254)

Questo dunque il salto: al momento di interpretare il gesto del barbaro, Borges si allontana dalle fonti e dalla verità storiografica in modo programmatico. Immagina il guerriero che vede la città per la prima volta – fino a quel momento ha conosciuto solo la selva inestricabile: non lo sorprende la bellezza dei suoi edifici, ma l’idea che dietro di essi si celi un’intelligenza immortale. Questa idea lo acceca, gli rivela un ordine superiore – infinitamente superiore alle sue divinità e alle sue credenze tribali. Abbandona i suoi e lotta per difendere la città.

“Non fu un traditore (i traditori non ispirano epitaffi pietosi) ma un illuminato, un convertito. Quegli stessi longobardi che lo accusarono di tradimento, poche generazioni dopo agirono esattamente come lui […] Molte sono le congetture che possiamo applicare al gesto di Droctulft; la mia è la più economica; se non è veritiera come fatto, lo sarà almeno come simbolo.” (p.256, il corsivo è mio)

Come simbolo, la storia di Droctulft riporta alla memoria dello scrittore argentino un evento analogo e intimo. È un racconto che il giovane Borges ha ascoltato dalla nonna inglese.
Suo nonno è comandante delle frontiere Nord e Ovest di Buenos Aires e Sud di Santa Fe. A più riprese la moglie si lamenta del suo destino di “inglese esiliata ai confini del mondo” (p. 256). I colleghi del marito le riferiscono che una sua connazionale vive non lontano, e le segnalano una donna dai tratti amerindî che attraversa la piazza. Su richiesta della nonna di Borges, un soldato invita la donna a entrare nell’edificio militare. Il volto della donna è truccato con “colori feroci”, i suoi occhi invece sono “di quell’azzurro insipido che gli inglesi chiamano grigio”. Un’improvvisa intimità pare stabilirsi tra le due donne – eppure l’india-inglese ricorda a stento la lingua natale. Racconta di essere emigrata nella Pampa dallo Yorkshire, con i genitori – morti in seguito a una razzia di un gruppo di indios. Da allora vive con loro: è la donna di un capitano, gli ha dato due figli. Dal suo racconto emergono i tratti di una vita selvaggia: i festini con viscere crude, la poligamia, la guerra, la magia e i saccheggi. Indignata e sconvolta, la nonna di Borges le ordina di non tornare con gli indî: le promette di salvarla e di riscattare i suoi figli. La donna risponde di essere felice nel deserto.
Dopo l’incontro con la nonna di Borges, la ragazza smette di venire in paese – tuttavia le due donne s’incontrano di nuovo, anni dopo. La nonna partecipa a una battuta di caccia; in un ranch, un uomo sgozza una pecora. A quel punto, “come in un sogno”, passa a cavallo la ragazza india: si getta per terra e beve il sangue caldo dell’animale.

“La figura del barbaro che abbraccia la causa di Ravenna, e quella della donna europea che sceglie il deserto, possono sembrare antagonistiche. Entrambi, tuttavia, furono mossi da un impeto segreto, un impeto più profondo della ragione; ed entrambi assecondarono questo impeto che non avrebbero mai saputo giustificare.
È possibile che le due storie che ho riferito siano una sola storia. I due lati di una moneta, dal punto di vista divino, sono uguali.” (p. 258)

Le condizioni simboliche del doppelgänger sono esplicite ora. Il racconto successivo ne L’aleph è la “Biografia di Tadeo Isidoro Cruz (1829-1874)”. È un racconto programmatico, in cui Borges non intende raccontare l’intera storia del personaggio: “dei giorni e delle notti che compongono [la sua storia], mi interessa una notte soltanto.” (p. 259). E in effetti “qualunque destino, per quanto complicato, consiste in realtà di un solo momento: quello in cui un uomo sa per sempre chi è” (p. 261); quella notte Tadeo Isidoro Cruz infine “vede la sua propria faccia.”

Come Droctulft e la donna inglese aindiada, anche Tadeo Isidoro Cruz vive in un mondo di barbarie monotona. Quando arriva alle porte di Buenos Aires, nel 1849, insieme alle truppe di Francisco Xavier Acevedo, si rifiuta di mettere piede in città: nei pressi di una locanda extra muros attende che le truppe ritornino, dorme per terra e beve mate.

Una notte del 1829 il padre di Cruz ebbe un incubo: gridò, svegliando la donna che dormiva con lui, Isidora Cruz. Nessuno seppe cosa l’uomo sognò: il giorno dopo morì in battaglia. Anni dopo il soldato Tadeo Isidoro Cruz riceve l’ordine di arrestare un malvivente nato a Laguna Colorada, come suo padre. È la notte del 12 luglio 1870, il criminale è nascosto in un campo di stoppie, il buio è impenetrabile. Gli uomini di Cruz raggiungono a piedi il suo nascondiglio. Un uccello grida, Cruz ha l’impressione di aver già vissuto quel momento. Il criminale si lancia all’attacco, ferisce e uccide parecchi soldati – Cruz lo intravede nell’oscurità: i capelli e la lunga barba grigia sembrano divorargli il volto. Allora Cruz vede la sua propria faccia: mentre combatte nell’oscurità, capisce che un destino vale l’altro, ma che ogni uomo deve obbedire al proprio; che l’uniforme e la cavalleria non fanno per lui; che il suo destino è quello di un lupo, non di un cane; che il criminale, l’altro, è egli stesso. Abbandona l’uniforme e si mette a combattere contro i soldati.

La versione non ufficiale

«Il passato determina il futuro» dice Dale Cooper (senza la spilla dell’FBI, lo vedremo in seguito) nell’ufficio dello sceriffo di Twin Peaks. Siamo nella penultima puntata della terza stagione, un momento prima che la storia si inverta e trasformi per sempre – prima che la stessa Twin Peaks scompaia, per riprendere il nome ufficiale dei luoghi in cui la serie è stata filmata.

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(Nella foto: siamo nell’episodio 18, l’ultimo della terza stagione. Quando Dale Cooper e Carrie entrano nella città che è stata Twin Peaks, il Double R Diner non si trova più all’intersezione tra Main Street e Falls Avenue, ma su Bendigo Boulevard, nella città “reale” di North Bend)

La storia di Twin Peaks come l’abbiamo conosciuta diventa una variante, una versione non ufficiale che in pochi sono in grado di ricordare (tra questi, secondo Philip Jeffries, anche Gordon Cole). Uno dei luoghi in cui possiamo misurare lo scarto – l’oscillazione – tra una versione e l’altra è il Roadhouse; un altro simile luogo, calderone o coacervo del possibile, è il corpo di Audrey Horne.

Scrive Borges in “L’altra morte”:

“Modificare il passato non vuol dire modificare un solo evento; vuol dire annullare le sue conseguenze, che tendono a essere infinite.” (p. 277)

Pedro Damián muore di congestione polmonare una notte del 1946, isolato dal mondo. Un amico di Borges, Patricio Gannon, gli riferisce un aneddoto: nel delirio della febbre che lo uccide, Pedro Damián rivive la sanguinosa giornata della battaglia di Masoller, nella quale aveva combattuto e si era distinto per coraggio nel 1904. La febbre e l’agonia di Damián suggeriscono a Borges il tema – o forse la struttura – di un racconto fantastico. L’intercessione di un amico gli permette di conversare della sconfitta di Masoller con il colonnello Dionisio Tabares, anch’egli presente nella battaglia. La versione del colonnello imbarazza Borges: Damián non mostrò coraggio né valore durante la battaglia; al contrario, quando i cannoni cominciarono a tirare e un’orda di cinquemila soldati uruguaiani li attaccarono, “il povero Damian vacillò a Masoller”. La vergogna: ecco dunque il motivo dell’isolamento di Damián in seguito alla battaglia.

Mesi dopo Borges fa di nuovo visita al colonnello: lo scrittore argentino avverte di avere bisogno di ulteriori aneddoti per completare il suo racconto fantastico. Quel giorno in casa di Tabares c’è anche il medico Juan Francisco Amaro. Il medico ricorda il coraggio e la morte eroica di Damián a Masoller. Interrogato nuovamente, il colonnello ammette di non ricordare alcun soldato di nome Damián. Stupito, Borges menziona queste distrazioni all’amico Gannon, il quale mesi prima gli ha riferito della morte di Damián. Patricio Gannon non ha idea di chi sia Pedro Damián.

Prima di azzardare un’ipotesi di lettura di queste oscillazioni della realtà, Borges ci fornisce altri tre elementi. Il colonnello Tabares gli scrive poco dopo l’ultimo incontro: ora ricorda perfettamente la morte eroica di Damián; il commerciante Abaroa, uno dei pochi ad aver visto morire Damián nel 1946, è deceduto da poco; il volto che Borges, nella memoria, collegava a quello di Darmian è in realtà quello di un famoso cantante d’opera.

Nel tentativo di comprendere gli eventi, Borges scarta fin da subito le due congetture più semplici (1: c’erano due Pedro Damián. 2: Damián, dopo la morte in battaglia, supplicò Dio di farlo tornare in vita, nella sua terra natale; e Dio, che non può cambiare il passato ma può invece modificare le immagini del passato, trasformò l’immagine della morte in quella di uno svenimento: così l’ombra di Damián fece ritorno a casa).
La terza invece è la buona: in maniera incidentale, è anche la struttura del racconto fantastico che Borges intende scrivere. Riflettendo sulla seconda ipotesi, “in modo quasi magico”, lo scrittore argentino s’imbatte nel trattato De Omnipotentia di Pier Damiani, citato nel Paradiso di Dante. Damiani sostiene, contro l’opinione di Aristotele e di Fredegario di Tours, che Dio può fare in modo che non abbia più luogo ciò che una volta è accaduto. Questa è la chiave, si dice Borges; aggiunge: fra qualche anno “sarò convinto di aver scritto un racconto fantastico e invece avrò riportato fedelmente un evento reale.”

La terza opzione: Damián si macchia di vigliaccheria in battaglia nel 1904. Torna a casa, conduce una vita dura e solitaria; si dice: se il destino mi concederà l’opportunità di un’altra battaglia, io saprò meritarla. Attende quarant’anni, il destino infine lo accontenta: nel delirio della febbre Damián rivive la battaglia di Masoller – non viene meno stavolta, combatte con coraggio, muore valorosamente trafitto da una proiettile.
La trasformazione di un solo evento crea due storie universali. La prima (ora non più ufficiale: la morte di Damián nel 1946) è scomparsa, la seconda “è quella che stiamo vivendo ora”. La soppressione della prima non è però immediata e produce tutte le incoerenze che il narratore riferisce. Nel colonnello Tabares il passaggio da una versione all’altra si compie per tappe: prima ricorda il Damián codardo e vigliacco; poi lo dimentica del tutto; infine ricorda la sua morte valorosa. Abaroa, il commerciante che lo vede morire nel 1946, muore poco dopo: conserva troppi ricordi della versione non ufficiale. Quanto al narratore: è possibile che abbia mentito in qualche punto, ma io sono pronto a giurare di aver visto Tabares e Abaroa ballare sulle note di Wild Wild West tra la folla del Big Bang Bar (Twin Peaks The Return, ep14).

What year is this?

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In Twin Peaks The Return un elemento ci guida tra le fasi di Dale Copper: la spilla dell’FBI. Quando Cooper, nella seconda puntata, si materializza a Las Vegas attraverso una presa elettrica, perde le scarpe e la spilla (non perde invece la chiave della stanza del Great Northern). Sembra un dettaglio infimo, invece è l’elemento che ci permette di distinguere tra il Cooper nella Loggia Nera e quello fuori, nel mondo: così il Cooper fuori dalla Loggia, dalla seconda alla prima metà della diciassettesima puntata, non ha la spilla[1]; il Cooper che abita la Loggia ha la spilla; il Cooper che viene di nuovo fuori dalla Loggia nella diciottesima e ultima puntata, dopo la soppressione di un evento fondamentale della storia di Twin Peaks, ha la spilla. Quest’ultimo elemento segnala, come nel racconto “L’altra morte”, che l’inversione è ormai avvenuta: Pedro Damián non è morto nel 1946, Laura Palmer non è morta nella notte tra il 23 e il 24 febbraio 1989; gli stessi eventi cui abbiamo assistito, dalla prima alla terza stagione, sono soppressi (anche, dunque, la materializzazione di Cooper a Las Vegas attraverso la presa elettrica, momento in cui perde la spilla).

Una spilla segnala le fasi di Cooper, una banconota quelle di Borges. Nel racconto che apre Il libro di sabbia, “L’altro”, Borges (nel 1969 a Cambridge, narratore della vicenda) incontra Borges giovane (nel 1918 a Ginevra).

“Se questo incontro è un sogno, ognuno di noi deve pensare di essere il sognatore. È possibile che smettiamo di sognare, così come è possibile che continuiamo a farlo. Il nostro obbligo evidente, ora, è accettare il sogno, come abbiamo accettato l’universo e il fatto di venire al mondo e di guardare con gli occhi e di respirare.” (p. 429)

Chi è dunque il sognatore? Se tu sei me, chiede il giovane Borges, come hai fatto a dimenticare di aver incontrato un signore anziano che nel 1918 ti ha detto di essere Borges? La domanda sorprende il vecchio, che ribatte con un verso di Hugo:

L’hydre-univers tordant son corps écaillé d’astres

Il giovane Borges è sconvolto: non ha mai sentito quel verso, non è possibile che sia semplicemente lui a sognare l’altro.
La conversazione tuttavia diventa presto imbarazzante (“eravamo troppo diversi e troppo simili, non potevamo ingannarci, cosa che rende difficile il dialogo”). Di colpo il vecchio Borges ricorda una fantasia di Coleridge: un uomo sogna di visitare il paradiso e come prova gli viene dato un fiore; al risveglio ha il fiore tra le mani. Con un artificio analogo intende dirimere la questione. Chiede al giovane di dargli una delle monete che ha in tasca. Il vecchio gli porge una banconota americana.

“«Non è possibile,» gridò [il giovane Borges]. «È datata 1974.»
(Mi è stato poi detto che le banconote non sono datate.)
[…] Ho riflettuto a lungo su questo incontro […] Credo di aver trovato la chiave. L’incontro è stato reale, però l’altro [il giovane Borges] ha chiacchierato con me in un sogno, per questo è riuscito a dimenticarmi; io invece l’ho incontrato da sveglio e ancora mi tormenta il ricordo.
L’altro mi ha sognato, ma non rigorosamente. Ha sognato, ora capisco, la data impossibile sulla banconota.” (p. 434)

Come in Twin Peaks, il nodo che unisce le due dimensioni non riguarda l’identità del sognatore ma la figura del loop in cui i personaggi sono intrappolati.
“Che anno è questo?” chiede Cooper a Carrie, pochi secondi prima della chiusa di Twin Peaks The Return.
“In che anno ti trovi?” chiede il Borges del 1983 al Borges del 1960 (“25 agosto 1983”, in La memoria di Shakespeare)
Entrambi tentano di districarsi nel labirinto della ripetizione attraverso un’indicazione temporale. Ma il tempo, nella Loggia, è un elemento come gli altri: reversibile, illusorio, manipolabile. Di più: è proprio il tempo a fungere da artificio fantastico, da portale tra le dimensioni.

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Qualunque destino, per quanto complicato, consiste in realtà di un solo momento: erano le 2:53 del 2 ottobre quando Tadeo Isidoro Cruz vide infine la sua propria faccia, quando comprese che il criminale cui dava la caccia nell’oscurità era egli stesso.

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EXTRA – The Waiting Room: Borges canta Los Sicomoros


[1] Allo stesso modo, quando il “clone” o tulpa di Cooper, prodotto da Mike a partire dal seme e dal ciuffo di capelli di Cooper, appare nella Loggia all’inizio della diciottesima puntata, non ha la spilla: è stato prodotto a partire dal Cooper fuori dalla Loggia. Ma il segno più importante è un altro ancora: il Cooper che riceve il messaggio dal Fireman nella Loggia Bianca, in apertura della prima puntata della terza stagione, non ha la spilla. Siamo in prossimità della soppressione della storia che conoscevamo e abbiamo visto; dice il Fireman: «You are far away», sei distante. Poi Cooper è cancellato dalla scena, come solo il corpo di Laura Palmer a fine puntata 17 una volta avvenuta l’inversione della storia (nota nella nota: Andy appare e scompare nella Loggia Bianca, non è cancellato dalla storia).

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