sussulti, smorfie e confini di una figura che più non comprende se medesima

[il giurista – figura del nichilismo]

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 [JUS  Aldo Schiavone]

[COMPENDIO DI STUPIDOLOGIA – Ferrando Mantovani]

[RIDUZIONISMO E OLTRE – Luigi Lombardi Vallauri

[L’ORDINE GIURIDICO MEDIOVALE   Paolo Grossi]

tutti

Ancora oggi di rado

si trova che a grandi

cose giungano coloro

che prima non fossero

sviati.

 Meister Eckhart

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 «Invecchiando, – scrive Aldo Schiavone nella sua capitale opera Jus. L’invenzione del diritto in Occidente [1] – amo sempre di meno i manifesti metodologici: ciascuno, inoltrandosi nella lettura, potrà rendersi conto dei criteri che mi hanno guidato. La storiografia giuridica è esercizio difficile, e richiede, insieme a una continua sorveglianza teorica, di integrare apparati interpretativi che non siamo abituati a tener uniti». Chiosando queste sagge parole – che faccio mie – aggiungo che anzitutto dalla riflessione sulle stesse scaturisce un interrogativo: perché «la storiografia giuridica richiede di integrare apparati interpretativi che non siamo abituati a tener uniti»? La mia risposta è: perché (come del resto la scienza giuridica tutta, diritto positivo incluso – anzi diritto positivo prima di tutto: il logos come dispositivo del potere coercitivo, tanto incarnato da essere armato e avere il monopolio legittimo esclusivo dell’uso della forza e dell’esercizio della violenza) è scienza umana e umanistica

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E ogni scienza umana e umanistica necessita – per coglierne il cuore pulsante, cioè per coglierne la realtà piena e vitale – di un’ermeneutica e di un’epistemologia dinamiche e multifattoriali ovvero di un afflato pluridisciplinare ovvero di un virtuoso ricettacolo di molteplici approcci, sguardi e ascolti anche tra loro eterogenei – ma mai incommensurabili: nulla di umano è incommensurabile nel profondo, essendo «l’uomo misura di tutte le cose» come insegna l’ingiustamente vituperato Protagora – che devono tenersi insieme tutti, pena il naufragio nella terra della non comprensione, simul stabunt, simul cadent [2]; pena il marcire nella viziosa sentina dell’asfissia culturale, cioè l’approccio unilaterale sclerotizzante e come tale cadaverico e putrescente: la vita della conoscenza sacrificata sull’altare dell’arido e claustrofobico – e quindi necroforo – sapere specialistico, tecnicistico, semplicistico e riduzionistico. Il più rigoroso, sorvegliato eppur brillante accademico e avvocato penalista del ‘900 italiano, Ferrando Mantovani, non argomenta forse in ultima analisi contro la pena di morte servendosi – e citandolo direttamente – di Thomas Mann? Non perviene forse nella sua maturità a un diritto che autotrascendendosi diventa antropologia delle disfunzioni logiche antropiche in Stupidi si nasce o si diventa? Compendio di Stupidologia [3]? Il TAR Veneto – tanto per fare un esempio tra mille – non ha forse decretato sull’illegittimità di un provvedimento amministrativo partendo da una dissertazione sull’ortoprassia sapienziale indiana così come da Schopenhauer vista, fruita e restituita nella civiltà occidentale che ne ha orecchiato e introiettato – magari ingenuamente – trame, ordititi e frammenti? 

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Certo – è indubbio! – la via del riduzionismo è via seducente perché potente e apparentemente – quantomeno in prima battuta – efficientissima, economicissima ed efficacissima – mensuro ergo possum [4] scrive Luigi Lombardi Vallauri in Riduzionismo ed oltre [5], e io aggiungo: ecco il paradigma della potenza moderna e postmoderna – ma è via fatale: è malia vorticosa di un’incantevole sirena abissale, è imbuto vertiginoso che convoglia, coartandoli subdolamente e proditoriamente, l’agire scientifico e operativo/processuale in un vicolo cieco a senso unico tra le fauci di un destino crudele ed esiziale; è corsa sfrenata e miope teleologicamente orientata verso un solo esito possibile – connaturato ab origine al riduzionismo – cioè il nulla, id est la morte: mensuror ergo non sum [6] (ibidem, e io aggiungo: ecco il paradigma del tentacolare pannichilimento moderno e postmoderno). La tentazione del riduzionismo è l’incubo allucinatorio, il patto con il diavolo per eccellenza, dello Zeitgeist contemporaneo.

L’eclettismo culturale de quo – l’«integrare apparati interpretativi che non siamo abituati a tener uniti» – nell’approssimarsi a quel sapere umano e umanistico che è il diritto è tanto essenziale quanto pericoloso; si corre infatti il rischio di smarrire la propria identità, di perdersi nel labirinto della rovinosa polimatia, di disconoscere la propria prospettiva specifica a favore di instabili, amorfi e chimerici orizzonti più vasti, di dispersive e disarticolanti visuali più aperte: di liquefarsi nella caotica e quindi infertile e quindi inutile e quindi dannosa miscellanea-marmellata gnoseologica senza capo né coda.

La volontà di un agire scientifico problematico, complesso, di ampio respiro deve innestarsi sul monolitico e saldo tronco di un’identità culturale consapevole di se stessa, autocosciente, severa: mai il giurista può o deve dimenticare chi è e perché è, mai deve dimenticare la peculiare pietra angolare e l’ottica specifica del proprio sapere e della propria ricerca. Mai deve rinunciare al rigore della scienza giuridica. In senso molto simile, benché con parole diverse, si espresse anche Jacques Le Goff elogiando Paolo Grossi – e in particolar modo il suo monumentale L’Ordine giuridico medioevale [7] – che, indagando gli scivolosi terreni delle costellazioni mentali medievali e delle mitologie della modernità, non si è fatto filosofo della storia, storico della filosofia e nemmeno storico puro: è rimasto fedele a se stesso e alla sua disciplina, è rimasto storico del diritto, è rimasto giurista; prova provata della non metamorfosi schizofrenica della natura della sua speculazione scientifica è la nomina a Giudice della Corte Costituzionale, istituzione che attualmente presiede.

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Ritengo anzi che la crisi di identità, il dissolversi inconcludente nella più effimera tuttologia sradicata, sia uno dei maggiori pericoli propri del giurista contemporaneo più antropologicamente avveduto, più culturalmente sensibile e più intellettualmente dotato; del curioso giurista dall’ingegno versatile e multiforme che ama vagare nell’alterità: polytropos e polymetis – novello Odisseo che nelle sue avventure in terra straniera deve confrontarsi con l’oblio di sé, con il potenziale non ritorno a Itaca. Le sue incursioni interdisciplinari, le sue scorribande dottrinali, sono sane e possibili senza nocumenti solo qualora domini la propria materia e solo qualora abbia una bussola poderosa: bisogna sapere da dove si parte, dove si va, perché si va, per quali vie, in cerca di cosa. Bisogna discernere e filtrare i materiali compositi in cui ci si imbatte. Bisogna sapere come si torna a casa, altrimenti meglio sarebbe non intraprendere il viaggio. Il giurista solo rimanendo giurista può raccogliere gli ubertosi frutti dell’arricchimento culturale, può nutrirsi dei saperi altri: il giurista è sì animale onnivoro, ma pascendosi di saperi altri deve anche essere in grado di saperli digerire e metabolizzare, non solo di divorarli. I saperi altri debbono divenire il coronamento della panoplia del giurista, non il suo cilicio. Memorandum: il viaggio ha due volti – sì, certo, quello di Odisseo; ma anche quello di Icaro.

Disegni di Jung (2)

[1] Torino, Einaudi, 2005

[2] “Insieme staranno oppure insieme cadranno”

[3] Pisa, ETS, 2015

[4] “Misuro – nel senso di riduco – quindi posso”

[5] Cedam, Padova, 2002

[6] “Sono ridotto quindi non sono”

[7] Bari, Laterza, 1995

*Imago: fotografie e composizioni dello scrivente; C. G. Jung, Libro rosso; Egon Schiele, Fanciulla in ginocchio [1917]; Zeda/Ibid., Malinconia, Eugenio Borgna [1992]