Su Mangialibri c’è una breve intervista di David Frati a Philip Ó Ceallaigh in cui il primo non può esimersi dal porre al secondo la domanda classica circa il rapporto tra opera e biografia.
Quanto c’è della tua vita nelle storie di Appunti da un bordello turco? Chiede David Frati.
Tutta. Tutta quella di cui sono capace. Non mi sono tirato indietro. Ma per renderla credibile, ho dovuto raccontare un sacco di balle. Risponde Philip Ó Ceallaigh.
È la risposta che ci aspettiamo: secca, sincera, perfettamente aderente allo stile dei diciannove racconti del libro. In uno di questi, Una performance, c’è un artista che si sfila la camicia, prende un bisturi, si apre un varco nella carne per affondare la mano, afferra il cuore e lo estrae per mostrarlo, pulsante, al pubblico, in teatro. Si sentono dei pianti. Poi all’uscita tutti si chiedono quanto e perché sia arte ciò che hanno visto. L’artista, nel retro, è provato:

«Finirai per ammazzarti» disse il dottore.
«Non ne hanno mai abbastanza» disse il Vestito.
(p. 237)

O Ceallaigh Appunti da un bordello turcoLa verità brutale, il denudamento, l’esposizione estrema al pubblico: questo racconto sembra un manifesto di poetica dell’autore. Ó Ceallaigh sembra voler dire “io vi do tutto, guardate, non m’importa se rischio di rimanerci”, e anche “lo so che poi non mi capite, che state lì a farvi domande che con la nuda verità non c’entrano nulla, ma devo provarci lo stesso”, e infine “ormai è fatta, non posso fermarmi, ma per quanto faccia non vi accontenterete mai”. Uno scrittore senza un minimo di frustrazione non sarebbe uno scrittore. E poi ci sono la paura di rappresentarsi, la difficoltà di instaurare un rapporto solido e sincero con i lettori, la disillusione pronta a vanificare tutto. Lo scrittore deve credere in ciò che fa, illudersi per illudere, altrimenti è finito: insincero con se stesso, non farebbe che barare.
Philip Ó Ceallaigh è uno scrittore irlandese che si è trasferito in Romania e che ha girato tanti posti e ha intrapreso diversi lavori. C’è un po’ di Bukowski in questa esistenza precaria che si fa materia palpitante di narrazione.
Appunti da un bordello turco (2006), opera d’esordio, è stata finalista del Frank O’Connor International Short Story Award. Al centro di tutto c’è la periferia: qui sono ammucchiate in quotidiano affanno le persone che sopravvivono, e cioè, a pensarci, quasi tutti. Qui l’autore può aggirarsi indisturbato, mimetizzarsi, e tratteggiare, in maniera impietosa senza però dover essere cinico e crudele, l’uomo dei margini che, a pensarci, è l’Uomo. Questi non guadagna abbastanza per evitare i disagi della povertà tanto diffusi nei luoghi raccontati da Ó Ceallaigh, e ciò ha ricadute terribili nella vita emotiva, nel rapporto tra i sessi, nelle dinamiche familiari o anche condominiali. Eppure non subentra mai la disperazione: c’è sempre la speranza di rovesciare le proprie sorti, né potrebbe essere altrimenti in territori, come quelli balcanici (Romania inclusa) che sono scenario di quasi tutti i racconti, in cui la stessa storia politica è costellata di rovesciamenti.

Philip Ó Ceallaigh
Appunti da un bordello turco
(2006)
trad. it. di Stefano Friani
Roma, Racconti, 2016
pp. 346