[Racconto di Barbara Berlendis* e Domenico Caringella, pubblicato su CrapulaClub in occasione dell’anniversario di Moby Dick (edito da Richard Bentley a Londra il 18 ottobre 1851) di Herman Melville.]

Colonna sonora: The ocean – Tom Waits 

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«Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga
il giorno grande e terribile del Signore»
(Malachia, 4,5)

“Shan’t see ye again very soon, I guess;
unless it’s before the Grand Jury”
(Moby Dick, chap. XXI)

Vedete. Se volete, vedete.
Sono la faccia nascosta della medaglia rovesciata. Il lato che sopravvive all’ossessione che divora e conquista, quella che ha mascherato la ragione da eresia.
Questa sarà la seconda volta, e l’ultima, che esco da una prigione di carne, di rancore e di osso.
Lui non dorme mai, tranne che per brevi, asimmetrici segmenti temporali, mai annunciati. È in uno di quegli spazi incerti adesso. Così vengo alla luce mezza morta della lanterna che è sul tavolo, vicino alla carta nautica. Nasco ombra, un accenno proiettato dalla fiammella sulla parete, e scivolo dal giaciglio, fluido e inconsistente, sul pavimento. Scivolo sotto l’uscio della cabina. Il legno delle scale scandisce il mio mutare e la nuova consistenza piega la mia testa alla griglia. All’esterno, nell’ultimo buio che precede il nuovo giorno, divento altro ancora, e le assi del ponte rispondono sofferenti ai miei passi. Ora, i piedi che erano ombre informi calzano stivali logorati dall’uso e dal sale. Il gelo nel tramonto della notte non mi fa tremare. È il fuoco dopotutto che mi ha partorito. Barcollo, ma è solo un istante; mi metto dritto in tempo per scansare Bulkington, che dorme sul ponte in un angolo, con la testa incassata tra le sue stesse braccia. Gli altri sono svegli e anche se scorro loro davanti e accanto non hanno occhi per distinguermi e decifrare le mappe che il vaiolo ha intarsiato sul mio viso. Sono il messaggero di un vecchio pazzo; e di Dio, della Balena e del Mare. Sono a servizio, per loro cerco due persone.
Sulla banchina opalescente di squame e di vapori incrocio uomini dagli odori uguali. Le curve delle schiene sono di chi è abituato a usarsi come scudo. Vanno alla nave, la stessa che sopporta il mio peso. Mi sfiorano, passano dentro di me senza vedermi o forse è l’opposto e sono io che li attraverso perché sono loro il mio incubo.
Li vedo avvezzi ai loro doveri: chi tira, chi lascia, chi mira. Non hanno pensiero sono solo funzioni. Per me è diverso, io sono pura contaminazione.
Verso il mio farmaco in orecchie sorde; io sono solo il compito, mai il compimento.
Non faccio beneficenza, non impartisco benedizioni. Non mi è cara la salvezza di un ragazzo che non ha ancora le mani sporche del sangue nero dei leviatani e che non conosce la caccia; devo soltanto impedirgli di salire a bordo, di sopravvivere al disastro e raccontarlo.
Eccoli. Lui e il cannibale ammazza-balene. La mia faccia l’hanno già vista l’altra mattina. Conoscono la mia voce. Sanno che mi chiamo Elia.
Mi sorprendo a guardarli alle spalle e vorrei lasciar perdere, vorrei arrivare fino alla locanda, far finta di bere e tornare a essere il rivolo d’aria infuocata che ero.
Invece da sempre devo esaudire desideri, fossero anche i miei.
Si fermano da soli e si girano, non hanno udito bene ciò che gli ho detto. Il più banale dei miei espedienti. So già vano il tentativo di spaventarli con i miei anatemi, usare il terrore e la minaccia con esseri che hanno fatto della libertà una vocazione.
Ma questa è la mia finta, distraggo la pretesa di chi non vuole sia posato il mattone della storia. E invece il compito è nell’altro lato della medaglia.
Li lascio andare con il mio personale addio, che è il riassunto di tutte le biforcazioni.
«Non vi rivedrò molto presto, penso, a meno che vi veda prima del Giudizio Universale».
Dunque esisterà una cronaca. E giudici e interpreti di ciò che sarà scritto. Nessuno saprà mai di questo tradimento, nessuno capirà. Vedranno solo l’oceano tornare piatto e lui precipitare nell’abisso del suo fallimento. Io sarò lontano e già mi sento accanto e dentro a chi muoverà la mano che per prima riempirà pagine e pagine di pensieri circolari, separando e dipanando matasse per produrre altre futili trappole. Il freddo ora sta corrodendo questa finzione di carne. Guardo quell’Ismaele e il suo primitivo compagno imbarcarsi sulla nave della disdetta.
Presto sarai tu a tenermi in grembo. A metà del ponte le assi mangiano il rumore dei miei passi. Lungo le scale le gambe si disfano come alghe disseccate. Davanti alla porta della cabina sono già di materia liquida e informe, poi non resta che quel vapore denso. Passo sotto l’uscio, striscio fino al letto. La lanterna sul tavolo proietta per un istante la mia ombra contro la parete mentre scivolo dentro quel me stesso che dorme, appena un attimo prima che sia lui, Achab, a continuare il sogno.

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* Barbara Berlendis.

Sono una milanese reclusa. Vivo con un mestiere che faccio da troppo tempo: la creativa in un’agenzia di comunicazione. Da brava prigioniera ho trovato il modo di vivere molte altre vite, sono tutte quelle dei libri che divoro in modalità immersiva, di giorno, e sono quelle in cui mi avventuro poi di notte, nel grandioso altrove dei sogni. Persa in questa narrazione continua non potevo evitare di lasciare dei segni, potevano essere tracce di pennelli, ma la parola, le parole con i loro inesauribili sensi, ha avuto la meglio. Perciò scrivo, senza nessuna meta, solo come una preziosa conseguenza

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Immagine: Barry Moser, The Sea Stopped Raging (Jonah and the Whale), Pennyroyal-Caxton Bible, 1970.