Mentre raccoglieva dal tavolo i due piatti vuoti della cena, e non erano ancora le sette di sera, a Ettore Lupo parve di sentire un urlo. La giornata si era svolta senza incidenti. La notte precedente aveva dormito un sonno senza incubi, e le piante di basilico in balcone cominciavano a spuntare. La sera Ettore mangiava abbastanza presto, in solitudine, con un libro accanto. La storia con Norina si era rivelata un lungo esaurimento, ma anche questa con Magda non procedeva bene: voleva darci un taglio, ancora. Pensò che l’urlo fosse un rumore in archivio nella sua memoria, un falso allarme da agitazione interiore. Andò giù in strada a buttare il sacchetto di immondizia. Intorno c’era più sudiciume del solito, e accucciato su un cartone, vicino al cassonetto, Nino, il nipote dei Lopez, impegnato in un soliloquio.

«Che fai?»
«Chi sei?»
«Non mi riconosci?»
«Come ti chiami?»
«Ma dai, sono io: Ettore».
«Non hai bisogno di dirmelo, ti ho visto molte volte, lo so chi sei».
«Ma Nino, me lo hai chiesto tu!»
«Poco fa mia sorella ha tentato di uccidersi, però dopo papà ha ucciso il cane».

Ettore aveva sempre pensato che i tre bastardi della famiglia Lopez erano cani maltrattati, denutriti e torturati, e quando Nino cominciò a dondolarsi sulle gambe pensò che non doveva essere affatto facile né per le bestie né per i bambini vivere in quell’inferno di stupidità scurrile che era la famiglia Lopez.

«Ma perché tua sorella si è quasi uccisa?»
«Papà dice che il suo ragazzo è stato uno stronzo e un vigliacco».
«Nino, per favore, rispondi alla mia domanda».
«Dice che è stato un farabutto».

Ettore sollevò il corpo di Nino che continuava a ondeggiare. Presolo in braccio, si avvicinò alla casa dei Lopez, indeciso su come comportarsi. Alla fine spinse la porta con un calcio e salì su per le scale. In casa c’era odore forte di uova sode e di altro. La famiglia Lopez lo guardò in silenzio, non erano sorpresi di vederlo. Lui si avvicinò a Cettina sdraiata sul divano. Sul tavolino di fronte le tracce del suicidio: un banale flacone di bromazepam. Si chinò su di lei e le poggiò la mano sulla fronte. Aveva gli occhi spaventati, i grandi seni sul corpo minuto si alzavano e si abbassavano a ritmo costante come due simpatiche colline. Si spaventò dei sui pensieri.

«Molto bene, credo che dovremmo portarla in ospedale».
«Ettore, ma che dici? Non vogliamo problemi e in ospedale Cettina non ci può andare. Quelli poi fanno le domande, e ci infilano dentro casa gli assistenti sociali. Siediti che ti offriamo qualcosa: lo vuoi il caffè?»

Ettore accese una sigaretta, fregandosene di chiedere il permesso. Nino lo tirava per un braccio.

«Lo vuoi vedere il cane morto?»

Il povero cane bastardo, che si era fottuto il giorno che era arrivato in quella casa, giaceva immoto tra il letto e il comodino in una posa confidente. Escrementi liquidi accanto alla coda. Sperava che non fosse morto tra atroci sofferenze e che l’abilità di cacciatore di Gaetano si fosse rivelata per una volta utile. Il cane aveva un mantello nero marrone, le costole erano in evidenza per quella magrezza che si avvertiva soprattutto nell’addome.

«Dobbiamo seppellire il cane, per tua sorella non c’è niente da fare, a quanto pare sta bene».

Ettore si rivolse a Nino con la sola ambizione di un breve gesto educativo:

«Andiamo in giardino da me, prendiamo la pala e facciamo un fosso profondo».

Sarebbe stato interessante vedere come reagiva, fargli capire che i cani non sono sacchi di immondizia da lasciare per strada. Pensò che era una occasione per riprendere il discorso sui pulcini lanciati contro il muro. Ettore era mosso da intenzioni serie.
Salutò la famiglia Lopez:

«Lasciate la finestra spalancata che c’è una puzza terribile qui dentro. Fate cambiare l’aria e fatene entrare di fresca il più possibile. Mi porto dietro il bambino e il cane morto».
«Questa è l’ora del castigo caro piccolo Nino Lopez. Ecco una piccola pala anche per te».

Finito il lavoro di seppellimento in giardino, Nino fu riconsegnato alla famiglia che continuava a scambiarsi sguardi, dal divano alla poltrona, dalla sedia allo sgabello.

Quando quella sera, piuttosto tardi, Ettore andò a letto, nel primo sonno leggero sognò di toccare il petto del cane per assicurarsi che fosse morto. Poi prendeva il muso tra le mani e gli soffiava sopra, in un ultimo disperato tentativo di ridargli la vita.

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Immagine di copertina: Francis Bacon, Study for a Dog, 1952.