ImmagineL’ultima volta che recensii un libro di Vanni Santoni fu nel 2011: Se fossi fuoco, arderei Firenze. Ricordo che ebbi l’ardire – o meglio la tracotanza, l’infantilismo e il cattivo gusto – di valutarlo in decimali, come si fa a scuola; ricordo anche che lo trovai buono ma non abbastanza e lo criticai aspramente, perché venivo da Gli interessi in comune e avevo aspettative altissime. Scrissi tra l’altro che «in Se fossi fuoco compare di rado e appannato quel potere invidiabile e irresistibile (così peculiare di Santoni) di raccontare con spietata (e ironica) lucidità i particolari più infimi, eppure così illuminanti e sconvolgenti, delle vicende, delle esperienze, delle abitudini dei suoi personaggi. L’inquietante realismo spudorato e incontinente s’è annacquato, la parola ha perso spessore e affilatura, le prospettive e le lenti si sono standardizzate».

N’è passata d’acqua sotto i ponti da allora – «di pelli ne hai lasciate per strada», direbbe l’io narrante de La stanza profonda (pag. 6) – e anche se son trascorsi solo sei anni, a ripensarci e a ripensarmi, a me paiono molti di più. Nel frattempo quel potere santoniano a cui mi riferivo s’è irrobustito, affinato, articolato e diversificato (il termine esatto sarebbe «differenziato», come inteso nel lessico junghiano); sono usciti i primi due volumi di Terra ignota (in autunno dovrebbe uscirne un terzo in cui è previsto, per il tramite di Federico Melani, il Mella [i], un collegamento del filone fantasy con la produzione realistica dell’autore [ii]), In territorio nemico, Muro di casse e ora appunto La stanza profonda.

La stanza viene detto gemello del Muro – ma io penso eterozigote: perché, sebbene entrambi siano diramazioni (del tutto autosufficienti, va precisato) de Gli interessi in comune, mappino una subcultura (rispettivamente giochi di ruolo e rave) e abbiano natura ibrida, il primo – nel mio discorso, non in ordine cronologico di pubblicazione – è decisamente meno frammentario, eterogeneo e spigoloso, gl’innesti saggistici son minori e più sfumati, gli «spiegoni» – necessari, eruditi e calibrati – più robustamente incardinati e armonizzati nella struttura; insomma è più fluido e scorrevole. Dal punto di vista intellettuale e speculativo ho preferito il Muro, da quello più spiccatamente narrativo preferisco La stanza, che mi pare presenti una scrittura più matura (esemplari le prime venti pagine) e una composizione più solida.

A molti questo libro farà scattare l’interruttore della nostalgia: per i giochi di ruolo, per la propria giovinezza, per Dungeons & Dragons, per Magic – «vedrai che gioca tutto sulla nostalgia», mi son detto (ammetto di essere un malizioso malpensante) quando ne ho avuto notizia. «Ma a me non me la può far scattare, che queste cose non le conosco, non l’ho mai conosciute, non l’ho mai neppure viste e l’ho appena sentite nominare di sfuggita». Indicativo è il fatto che ho sempre creduto – avendolo orecchiato giusto da lontano come rumore di sottofondo – che il gioco si chiamasse Dangers & Dragons, ignoravo del tutto l’esistenza della parola dungeon (nella mappa di un gioco di ruolo «qualunque quadratino bianco, qualunque dungeon, è sempre pronto a dipanarsi in dedalo, in formicaio di mostri e trappole, cunicoli oscuri e sale mirabolanti» pag. 8) che son dovuto andare a cercare: «labirinto di segrete»; «antro, galleria, cunicolo o grotta»; «luogo, tipicamente sotterraneo, in cui può svolgersi una parte delle azioni» – e io che pensavo che fossero Pericoli e Draghi
Comunque anche in me la nostalgia è partita e precisamente quando per la prima volta («gli unici con cui avevi fatto qualcosa fuori da quella stanza, negli ultimi dieci, quindici anni, erano il Silli e il Paride» pag. 9) viene nominato il Paride [iii]: ho scoperto d’essere emotivamente legato ai personaggi de Gli interessi in comune molto più di quanto credessi e così da terzo e imparziale che ritenevo di poter essere leggendo (che poi ripensandoci: perché dovrebbe essere auspicabile essere terzi e imparziali quando si legge?), il libro m’ha tirato dentro per così dire personalmente, s’è agganciato a un appiglio mio interiore affettivo e mnemonico.
Peraltro sbagliavo: non è affatto il suscitare nostalgia l’ingranaggio portante di questo romanzo e non lo è neppure la mappatura della subcultura di riferimento; è al contrario una certa concezione dell’immaginario («io questo ostinarsi a dare più peso alle cose reali rispetto a quelle immaginarie non lo capisco mica» pag. 111) in primo luogo, ma più ancora una certa concezione della realtà («guarda che il gioco era più reale del fuori. Presente Plotino?» pag. 127) antimaterialistica, antipositivistica e antiriduzionistica.

Particolarmente accurate e dettagliate le ricostruzioni della storia, dell’archeologia e della morfologia dei giochi di ruolo; inscenata brillantemente la loro sociologia: modalità di diffusione e reclutamento (tra gli sfigati vessati, i «peiores», troviamo nominato Morana: la vittima de Il tempo materiale, il primo – ce ne son due – omaggio a Vasta), paura di discriminazione (bullismo e fuga delle femmine ovvero preclusione dell’esperienza sessuale) alle medie e al liceo, identificazione e costruzione delle varie incarnazioni del disadattato, del nerd. Proprio in relazione a quest’ultima figura troviamo una significativa indicazione della specifica natura dei giocatori di ruolo e un forte rimando connettivo a Muro di casse: «Avresti capito tutto qualche anno dopo, trovandoti per la prima volta a un free party – a un rave, insomma: da fuori, zombie che si aggirano tra tuoni infernali e rena impestata; da dentro, pionieri del sublime e tecnologie dell’estasi. Idem lì: da fuori, una coorte di disadattati; da dentro […], eroi dell’immaginario e universi di grandi avventure» (pag. 45).
Il mondo dei giochi di ruolo viene trattato come controcultura («in una società che premia solo la competitività mostra che ci si può divertire, anzi avere un’esperienza esaltante, attraverso la cooperazione, senza pagare nessuno e senza sottoporsi a nessuna autorità se non a quella di regole scelte assieme» pag. 110) ed ecco subito un altro legame genetico – eterozigoti dicevo sopra, ma pur sempre gemelli! – con la cultura dei free party: «sembra che stai a descrivere le feste. I rave? Di punti in comune ce ne sono» (pag. 110). Viene visto anche come avanguardia ed eccone – di legame – un altro: «in verità, da fuori, entrambi i gruppi erano avanguardie che pativano uno stigma sociale. Gli uni si beccavano di vandali e tossici; gli altri si beccavano di sfigati, autistici» (pag. 111).

Interessante ai fini del discorso che intendo proporre è la classificazione del giocare di ruolo come rito («secondo Lévi-Strauss […] i giochi, e su tutti gli sport, hanno un effetto simulativo, sì, ma anche disgiuntivo. Quando finiscono, stabiliscono una differenza prima inesistente tra giocatori e squadre: quella che passa tra vincitori e sconfitti. […] Dato che, a differenza dei giochi, non solo non presenta vincitori ma neanche una “fine”, ed è congiuntivo, dato che mette assieme persone che inizialmente erano separate unendole in un’esperienza comune, regolata da norme condivise… … È un rito!» pag. 109) che a ben vedere è suggerita fin dal principio nell’esergo: «se smettessi di compiere le azioni prescritte, questi mondi perirebbero. (Kṛṣṇa)». Perché perirebbero? Perché son visioni interiori che emergono nel soggetto – ma non esistono solipsisticamente in lui, esistono «nel cloud, nello spazio mentale condiviso» (pag. 73) – in virtù dell’ortoprassia, del corretto comportamento, del rito appunto. E non bisogna aver paura – come Santoni non ha – di avvalersi del lessico e della fraseologia del sacro, che non è affatto dimensione religiosa, ma più radicalmente antropologica. Le manifestazioni del sacro – da intendersi come realtà più reale, più vera, più autentica; come quella realtà che è (proprio in senso ontologico) più di quanto non sia la realtà profana e mondana – si articolano classicamente nella tripartizione delle ierofanie: riti, miti, simboli. Questi tre elementi – costellati nella stessa identica maniera, seppur nelle più varie configurazioni – li troviamo nell’antropologia (non è una semplice cultura diversificata rispetto a quella condivisa di appartenenza, perché a essere esperiti differentemente son addirittura i fondamenti della realtà) dei giochi di ruolo (ad esempio rispetto ai simboli particolarmente pregnante è un passaggio a pag. 36: «si torna al dungeon perché è il luogo del subconscio. Di più: perché è il subconscio, dove il dettaglio si scioglie in archetipo e il tempo si riorganizza a sistema di scelte») e dei rave così come analizzati da Santoni nei suoi due romanzi ibridi, nelle tecniche arcaiche dell’estasi, nell’homo religiosus in generale, nello yoga, nella mistica et coetera.

Tutto questo pare un po’ azzardato, ma sopra ho già riportato le citazioni dirette di Plotino e di Kṛṣṇa, l’ortoprassia, il ritualismo e ho anche accennato alla concezione del reale e alla visione interiore (sulle quali varrà la pena tornare a breve). Ora un altro tassello, l’ineffabilità: «furono anni, soprattutto, di grandi avventure, grandi personaggi e grandiosi nemici, di mondi sterminati e lussureggianti e gravidi di misteri: ma a cosa varrebbe descriverli, raccontarli? […] Si poteva solo esperire» (pagg. 72-73). È proprio la mistica – e il riscontro lo si può trovare ovunque, da Eckhart a Lao-Tse – la cosa che per eccellenza può essere solo esperita, mai raccontata. A ben vedere esattamente lo stesso accade con l’esperienza psicotropa: in Muro di casse viene ad esempio spesso usata la parola «entactogeno», ma non si può però comunicare ciò che sta dietro all’etichetta/parola: il vissuto.

Per capire l’essenza dei giochi di ruolo converrà partire dalla loro marcata differenziazione rispetto ai giochi di ruolo dal vivo e dall’utilizzo della metafora platonico-gnostica del demiurgo: «non avete mai creduto nei LARP, i giochi di ruolo dal vivo. Che razza di produzione, che costumisti e scenografi e registi ci sarebbero voluti per competere con gli scenari che si dipanavano nel teatro infinito della mente? Quelle pagliacciate in costume, quei fendenti tirati al rallentatore con spade di gommapiuma, potevano essere un passatempo divertente ma non avevano niente, niente in comune con l’attività demiurgica che si svolgeva là sotto» (pag. 74). E diventa lecito domandarsi: «ma siamo certi che sia un gioco?» (pag 108); e inoltre: «e il gioco dov’è? Nell’immaginazione dei partecipanti» (pag. 100). Si tratta quindi di una fuga dal reale nell’immaginario? No, si tratta della creazione, della percezione e dell’esperienza di una realtà altra: «chi fu, la conduttrice di ViviMattina, a parlare di escapismo? Era il suo opposto» (pag. 130).
Ma si va oltre il semplice Demiurgo e il master addirittura – dopo aver approntato tutto per l’ultima partita che celebra la triste dipartita di Dungeons & Dragons – cita Genesi e si paragona a YHWH: «rimirando quanto fatto, e vedi che è cosa buona» (pag. 132).

In una tale concezione del reale – un reale che non è dato, è emergenziale: emerge ed esiste in base all’attività mentale del soggetto; esse est percepi, per dirlo alla Berkeley – del tutto scollegata dal materico e dall’oggettivo in senso scientistico e positivistico, che ne è della realtà concreta condivisa per come è comunemente intesa?
Proprio nella trattazione di questo punto il romanzo si fa apocalittico (il finale se ne sbatte altamente dei canoni del realismo ed è proprio spiccatamente apocalittico, ma non sta a me raccontarlo) e post-apocalittico e forse non è un caso che questo avvenga proprio dopo una citazione di Volodine («l’annata stile… Come lo chiamava Leia? Post-esotico?» pag. 126).

«Fuori, una terra divenuta davvero desolata, un paese ormai del tutto astratto e avulso dalle reti di relazioni che vivevate, che eravate, si piegava su di voi: aggrediva voi, i figli di chi lo aveva, per tutta la propria esistenza, abitato» (pag. 135). Fuori il mondo ha perso il significato («chiudersi e produrre senso proprio perché fuori ce n’era sempre meno» pag. 130) e si disintegra putrescente («i colonnini di cemento dei cancelli, nella strada che porta verso casa, perdono intonaco e granuli, anche adesso, passando, li senti sfaldarsi, senti gli strati del tempo sfogliarsi via, tutto il cartiglio di scene irredimibili che è il tempo» pag. 129). Fuori il paese e la provincia sono morti; agonizzante è ormai anche l’uomo: «il Nulla è arrivato, se li prende» (pag. 137). L’unica entità vitale è Prada, che ogni volta che lo leggi pare una coltellata al petto e che come un dio si manifesta nei luoghi più impensati, finanche nel deserto (l’altro omaggio a Vasta). E tutto va in rovina e tutte le botteghe e tutti i negozi son chiusi e gli edifici son disabitati e i bimbi non son più bimbi figli di quella terra, perché quella terra è ormai infertile e nulla più produce e nutre; nessuna radice può attecchire e quei bimbi son apolidi post-apocalittici che giocano a giochi medievali con una ruota e uno spago. Disumanizzanti e disumanizzati i poliziotti che i bimbi voglio multare. E se negli anni ottanta c’era l’eroina e c’erano le rapine, c’erano pur sempre vita e relazione e persone: ora non ci son più persone, ci son questi bimbi sradicati coperti di cenci e ci son le forze dell’ordine che non si sa cosa possano o vogliano ordinare perché non c’è rimasto niente e quindi son semplici e impersonali forze del nulla, forze di Prada. E così non c’è possibilità di tornare indietro, di tornare in patria, di tornare a casa, di vivere fuori, nel vecchio mondo, perché tornando non trovi Itaca, trovi Mordor («se ti capita di dover tornare, hai bisogno di un’Itaca, non di una Mordor» pag. 106).

Vanni Santoni
La stanza profonda
Bari, Editori Laterza, collana Solaris, 2017
pp. 151

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[i] Personaggio de Gli interessi in comune. Compare anche ne La stanza profonda, ad esempio pag. 10: «il Mella che entra tutto arruffato e chiede se qualcuno ha portato da fumare».

[ii] A colloquio con Vanni Santoni sulla letteratura – un’intervista massimalistico-rizomatica 

[iii] Il personaggio de Gli interessi in comune più presente nel testo in esame. Nel caso di Muro di casse a giocare questo ruolo connettivo è invece Iacopo Gori. Come accennato supra per Terra ignota 3 sarà il Mella.

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