Presento un cuento di un collaboratore, un incursore nuovo – tale Signor Stubb – giuntoci tramite la sagrada visione di Alonso Quijano, talent scout.

raccoglitrice di fiori

raccoglitrice di fiori

I segni di Persefone
di Signor Stubb

Persefone cammina sulle rive dello Stige. Un cielo rosso infiamma il suo cammino, lento e deciso. Sa dove deve andare.

Lontano dall’approdo di Caronte vi è un’ansa che scorre profonda, una curva che tutto nasconde: pareti a piombo – color del piombo – si chiudono in alto, scavate millenni fa dalle forze del fiume. Pochi sentieri vi sono qui per i morti – o le ombre dei vivi – e pochi li conoscono o possono percorrerli.
Il cielo è sempre rosso, infiammato da fuochi lontani, da luce non riflessa. Persefone cammina sempre, calma e decisa, seguendo strade invisibili ai più. Piccole scale, tagliate nelle pareti nere, le scendono ora davanti – “Fu forse questo il passaggio da dove mi condusse fin qui, in questo Regno, il ratto d’Ade? Non lo ricordo più. Il tempo, che non ha senso per noi e ha cancellato questo ricordo…” – e la portano ad una piccola apertura dove, Persefone leggiadra, vestita di lini diafani, entra non vista. Non c’è luce, ma muove sicura la Regina d’Erebo, non toccando la Terra, con in testa i suoi pensieri.

Persefone ha un cassetto. Nella stanza buia, che riserva soltanto per sé, la Dea ha un armadio.
Luci di fiaccole sospese a una volta alta e lontana – che il buio ne perde le tracce, ne cancella l’esistenza – illuminano intorno ombre fuggenti. Il grigio della roccia, i rivoli d’acqua, un luogo remoto e nascosto, ignoto ai pensieri del mondo e inaccessibile alle sue gioie. La grotta è un vuoto nel corpo roccioso che resiste alla massa attorno. Cupa fermezza d’intenti dentro come fuori, fuori come dentro.
L’armadio ha più porte: meccanismi d’ingegno scattano secondo il volere di Persefone, che con chiavistelli divini apre. Nell’oscura stanza regnano dolore e silenzio, e il rumore delle acque lontane non scaccia i desideri, le angosce e le speranze. Non c’è nulla che possa distrarre dalla lucida follia dell’abbandono, dalla sua vacuità, dalla sua tempestosa quiete.

Kore raccoglitrice di fiori ha tutti i nomi sigillati nel cassetto. Guarda, d’inverno, i suoi bigliettini, sistemandoli secondo le loro verità. Poiché le sue non contano. Lei sola osserva, legge e ripone, segnando con note e simboli le sue carte sottili.
Prepara. Dispone. Il tempo che verrà – il sonno e il desiderio. Le destinazioni finali, gli abbracci, le lusinghe e i castighi. Tutto finisce nel suo cassetto del tempo senza patria e – senza tempo.
Riposti gli animi, riposte le speranze, Persefone canta. Canta nomi e luoghi, gli istanti e i modi di andare e di venire. E solo di questi temi canta, poiché dai quei luoghi non si torna, ma vi si giunge cadendo, affogando o bruciando d’amore.
E il cassetto non si apre mai inutilmente. I suoi simboli sono nodi per le lane delle Moire, il loro ordito è valore, il taglio – morte.
Infine, la sposa di Ade sorteggia: l’ordine, le priorità, i mezzi.

Altrove  nevica. Silenziosi cadono i fiocchi tra le cime spoglie dei faggi. Fuori tutto è calmo e freddo: sulle alture delle montagne, sui pascoli delle colline e sui campi a riposo degli uomini l’acqua  ghiaccia,  i rifugi sono pieni e la vanga è riposta. Inverno come fosse l’Infero in terra, come se tutte le cose fossero ombre di ciò che è stato. Il tempo aspetta di nuovo la Primavera  per ridestarle dal loro torpore: sotto la coltre di neve tutto è fermo e attende d’esser pronto a schiudere nuove gemme.
Ma intanto la terra – riposa.

Stanca, infine, di pensieri rattrappiti, Persefone s’abbandona, dorme.
Il sonno sarà pregevole conforto al freddo delle ombre, alla tirannia della vita, “perché dormire è partire e partire è andare, e sognare è il mezzo che ti porta via” – pensa lei, dolce Persefone, mentre si stende –  “dormire è un sogno che allontana, è il pensiero del Sole e della Neve, la freschezza di strade lontane.”
Così pensando Persefone sta abbandonata, dimentica delle sue sottili carte e della crudeltà di Hipnos, che a volte impietosamente lega alla veglia i più profondi sonni.