Prima ancora che romanziera Emily Brontë fu una donna di pensiero. Con la sua vita e la sua opera partecipò pienamente di quella danza spontanea che Virginia Woolf (Una stanza tutta per sé) ha indicato come peculiare delle grandi autrici inglesi e francesi, per le quali «l’impulso originale fu verso la poesia». Poco attratta dalla vita materiale del suo corpo, si pensava come una poetessa in fieri animata da un «Dio dentro il mio petto» che le inviava visioni celestiali da liberare nel cosmo e da cui lei stessa traeva la sua energia vitale. Amava Byron e Shelley al punto tale che non si accontentò di giocare a imitarne lo stile ma giunse a invaghirsi dei loro fantasmi, più cari al suo cuore di qualsiasi creatura vivente. Mise a frutto il latino che il padre le aveva – sovversivamente – insegnato per studiare l’Ars poetica di Orazio, e poi infuriarsi e biasimarsi quando non si reputava in grado di applicare le sue direttive.

Il suo unico romanzo pervenuto fino a noi, Cime tempestose, è una sintesi di opposti che trova il suo perno in un’ambientazione asfissiante, riproduzione su scala ridotta del mondo, e ha al suo centro una frattura da sanare. In esso Emily espresse la sua filosofia naturale.

Di quel romanzo l’8 gennaio 1848 l’Examiner scrisse: «È un libro strano. Non è privo di evidenze di un considerevole potere narrativo, ma nel complesso è primitivo… e i personaggi che danno vita all’azione sono dei selvaggi ben più incivili degli uomini che vissero prima di Omero. Heathcliff può essere considerato l’eroe della vicenda, sempre che un eroe vi sia. È l’incarnazione di ogni attributo del male: l’odio implacabile, l’ingratitudine, la crudeltà, la falsità, l’egoismo e la vendetta.»

Come la figlia di un modesto pastore anglicano abbia potuto concepire un simile coacervo di passioni tumultuose è oggetto di curiosità, malignità e speculazioni da quasi due secoli. Il mito ormai consolidato attorno alla figura di Emily Brontë ci restituisce l’idea di una donna che visse reclusa in una canonica ai margini della brughiera, in compagnia di due sorelle schive, di un padre violento e di un fratello alcolizzato, e che morì vergine a soli trent’anni di età, ignara delle sorti del suo capolavoro. Sulla sua tomba ha dovuto formarsi la polvere degli anni prima che la critica iniziasse a riconoscere che molte delle convinzioni tramandate su di lei erano errate, frutto di esagerazioni perpetrate dai biografi che non la capirono, di distorsioni operate dai critici che la bandirono e, non in ultima istanza, di una deliberata operazione di manomissione e insabbiamento da parte di Charlotte, che per difendere l’immagine della sorella ribelle – e dell’intera famiglia – tracciò il ritratto di una fanciulla assai poco padrona di sé, dotata di scarsa cultura e di nessuna conoscenza del mondo, agente in preda a un fuoco sacro del tutto «inadeguato agli aspetti pratici della vita» (prefazione alla seconda edizione di Wuthering Heights and Agnes Grey by Ellis and Acton Bell, Londra, 1850).

Dal 1857 il principale testo di riferimento della critica brontëana è Vita di Charlotte Brontë a opera della scrittrice inglese Elizabeth Gaskell, una biografia postuma della maggiore e più longeva delle tre sorelle Brontë concepita su richiesta del padre, il quale si augurava così di contenere la diffusione di testi non autorizzati. Al cuore del reverendo Brontë stava l’intento di tutelare Charlotte dallo scandalo che si sarebbe certamente sollevato qualora si fosse scoperto che per mesi aveva intrattenuto una corrispondenza non autorizzata con un professore belga, felicemente sposato, di cui si era innamorata durante un soggiorno di studi a Bruxelles. Vi era inoltre uno scandalo reale, e dolorosamente pubblico, che il reverendo sperava di riuscire a contenere, generato dalla relazione adultera tra il suo unico figlio maschio, Branwell, e una certa signora Robinson di vent’anni più anziana di lui (una vicenda che pare abbia ispirato il celebre film di Mike Nichols Il laureato).

Se da un lato la Gaskell ebbe il merito di eseguire un affresco genealogico che sarebbe servito da base per quasi tutte le indagini future, dall’altro, con la sua biografia “annacquata” innescò quel processo di inesattezza storica e filologica che avrebbe portato alla diffusione del mito della famiglia Brontë in generale e di Emily in particolare. Nell’abbandonarsi al piacere della sua elegante prosa evocativa occorre tenere presente che la Gaskell non la conobbe mai personalmente, dato che al tempo del suo primo incontro con Charlotte, nel 1850, Emily era già morta. Si limitò a trarne le proprie impressioni dai racconti dell’unica sorella ancora in vita – Charlotte per l’appunto – che per Emily nutriva quel tipo di attaccamento speciale che si ha spesso verso un familiare ritenuto particolarmente dotato e di cui si è del tutto incapaci di comprendere il carattere e le motivazioni. Quello che la Gaskell ci restituisce di Emily è dunque un ritratto di seconda mano, parziale e contaminato dalla scarsa simpatia che istintivamente l’autrice nutriva per quella bizzarra sorella mediana, descritta senza mezzi termini come una ribelle egoista e furiosa.

È probabile che, al pari di tutti gli individui capaci di bastare a sé stessi, a un esame superficiale Emily apparisse algida, scontrosa, recalcitrante, fanatica e piena di sé. La Gaskell, che scrisse in un contesto puritano e carico di ipocrisia, non fu certo la prima a cadere nel tranello, e ne drammatizzò il carattere al fine di esaltare per contrasto la generosità morale e lo spirito di abnegazione della sorella maggiore.

Solo all’inizio del Novecento si fa risalire la prima biografia delle sorelle Brontë in italiano, Tre Anime Luminose tra le nebbie nordiche, le sorelle Brontë dell’aristocratica Giorgina Sonnino. Il testo, che in molti aspetti sembra ricalcare quello della Gaskell – di cui insiste a reiterare infondatezze e imprecisioni – ha il pregio di fornire una nuova interpretazione di Emily sotto una luce filosofico-religiosa. Lo stesso aspetto è ulteriormente sviluppato nel saggio Il pensiero religioso di una poetessa inglese del secolo XIX: Emilia Giovanna Brontë, sempre a opera della Sonnino e oggi riproposto dalla casa editrice indipendente flower-ed. Al centro dell’opera è la convinzione che Emily si fosse progressivamente sottratta all’influenza evangelica del padre per sviluppare e perfezionare una sua personale religione naturale.

Oggi disponiamo di moltissime evidenze riguardo alle originali vedute di Emily Brontë sulle dinamiche e i fenomeni che muovono la vita (si vedano in particolar modo I componimenti di Bruxelles, scritti in francese e tradotti in italiano da Maddalena De Leo). Sappiamo che a causa del suo gnosticismo e di un naturalismo mutuato da Shelley fu sospettata di paganesimo, e fu proprio da un’accusa formale che Charlotte cercò di tutelarla quando scelse di separare la sua volontà dall’ispirazione che la “possedeva”. Durante le sue lunghe passeggiate attraverso la brughiera, da sola o in compagnia del suo cane, Emily era entrata in sintonia col processo di declino e di rinnovamento che caratterizza il ciclo stagionale. Aveva imparato a prevedere i rovesci atmosferici e a riconoscere i sentieri anche sotto la neve. La sua conoscenza di Dio e dei misteri della vita non era mediata da culti e rituali, a lei tanto invisi, ma si svolgeva in maniera diretta, osservando la flora e la fauna che arricchiscono la terra.

Benché l’arrivo dell’inverno la intristisse e la crudeltà degli esseri viventi non mancasse di angosciarla, Emily Brontë capiva che l’estate non poteva mai essere troppo lontana, e che l’orribile bruco divoratore di rose si sarebbe ben presto trasformato in una splendida farfalla. La sua era una visione positiva del mondo e della vita, entrambi destinati a ricrearsi e a rigenerarsi a prescindere dal male che gli esseri viventi hanno perpetrato.

Secondo la scozzese Muriel Spark, che attorno alla metà del Novecento tentò di depurare la storia della famiglia Brontë dall’aneddotica speculativa ricostruendone le vicende unicamente sulla base del materiale prodotto dai quattro fratelli, di tutta la famiglia Emily fu la più felice, almeno fino al momento in cui la tubercolosi non giunse a squilibrare la sua mente. In lei la Spark riconobbe uno spirito libero, talmente consapevole del proprio ruolo naturale di poeta da non necessitare di conferme o approvazioni di tipo sociale e da evitare a tutti i costi le relazioni interpersonali pur di ritagliarsi il tempo necessario a dedicarsi al suo lavoro letterario.

In tempi più recenti Ginevra Bompiani ha fatto notare come Emily non visse mai realmente tra gli esseri umani. Paga della sua ispirazione, e da essa dipendente, questa interprete misteriosa della vita degli altipiani costruì il suo rifugio in un luogo immaginario, da lei chiamato Gondal, non molto diverso dal paesaggio che ogni giorno la attendeva al suo risveglio, e a esso giustapposto. In quel luogo invisibile agli occhi Emily trascorse la sua esistenza terrena, sospesa tra due dimensioni non comunicanti tra loro e con al suo interno una frattura similare: una volontà indistruttibile racchiusa in un corpo deperibile, che lei percepì sempre come il suo limite più grande, la sua prigione sulla terra.

Ma un corpo è la casa naturale dello spirito, e alla luce di queste premesse non è più così difficile intuire come Emily Brontë approdasse all’invenzione di Cime Tempestose, quel luogo inospitale animato e falcidiato dal susseguirsi di personaggi che sembrano ripetersi nei nomi e nei caratteri somatici, e destinato a ritornare nelle mani, al termine di un ciclo di declino e di rinnovo, di colui che lo ha creato.

Il romanzo ha una struttura ciclica: quello che segue non è soltanto il ciclo naturale, deliberatamente ricreato da Emily, ma anche, in maniera indipendente dagli intenti dell’autrice, il ciclo della storia della modernità occidentale. È un romanzo del disagio sociale, generato da un conflitto di tipo economico, che vede al suo centro lo scontro generazionale tra i giovani e gli adulti. Anziché continuare a concentrarsi sulla tragica vicenda della passione amorosa tra Heathcliff e Catherine, infatti, critici e insegnanti non dovrebbero scordare che a essi si oppongono altri due protagonisti, Hareton e Cathy. A suggerire che il loro ruolo è tutt’altro che marginale viene in nostro soccorso l’evidenza che il romanzo non inizia con l’infanzia dei genitori, bensì con l’adolescenza dei figli, per poi fare un balzo indietro attraverso i racconti dell’anziana governante. Forse i veri protagonisti di Cime tempestose sono proprio quei figli, vittime di un destino imposto loro dagli adulti, e dagli adulti plasmato, e davanti a cui incombe un futuro oscuro e indesiderabile, privo di gioia e di speranze.

Oggi viviamo in un tempo di crisi in cui il futuro è percepito proprio come una minaccia – l’epoca delle passioni tristi, secondo la definizione di Miguel Benasayag e Gérard Schmit. Chi è chiamato a educare insegna ai giovani a reagire allo stato di emergenza adottando la legge della giungla, la logica del più forte, così da uscire indenni dai pericoli incombenti. Nell’ottica attuale Heathcliff potrebbe incarnare la crisi, o tutti gli attributi del male, per riprendere la vetusta definizione dell’Examiner: nel sottrarre la piccola Cathy alla casa paterna attua quell’inversione di segno del futuro che dal futuro-promessa conduce al futuro-minaccia. Sotto l’egida di Heathcliff, Cathy abbandona la dimensione dell’ordine e del desiderio e scopre un mondo in cui la trasgressione è ormai divenuta la regola, un mondo in cui non esiste più nulla di sacro, e dove il vecchio Joseph, predicatore del Vangelo, è destinato a morire inascoltato, perché i giovani a cui si rivolge sono stati educati a ritenere inutile il sacrificio dell’oggi per un domani che non ha nulla da offrire, se non la tristezza.

Poiché nella tristezza si è sempre soli, Benasayag e Schmit suggeriscono una possibile via d’uscita dalla crisi nell’instaurazione e nello sviluppo dei legami affettivi. Ed è proprio questa la strada che Hareton e Cathy, in conclusione della storia, trovano spontaneamente, affezionandosi l’uno all’altra e svelando così l’intuizione geniale di Emily Brontë –  nonché il fortissimo valore pedagogico che potrebbe avere oggi una rilettura critica di Cime tempestose, non come un romanzo d’amore e di morte, bensì come un esempio del modo in cui, anche in mezzo alla crisi dei valori parentali, la gioventù riesce comunque a trovare la forza di incamminarsi con fiducia in direzione del futuro.