Giuseppe Girimonti Greco: Mi sembra che tu sia approdato alla forma-romanzo in modo molto prudente, con ponderazione, direi… e che tu lo abbia fatto dopo una serie di esperienze di scrittura che hanno – per così dire – lambito e corteggiato in vari modi la forma-romanzo stessa (e il sistema dei generi che la forma-romanzo sovverte, nella contemporaneità). Penso in particolare alla dimensione squisitamente narrativa di molta tua poesia, ma anche al tono narrativo di alcuni tuoi interventi critici e militanti.

Andrea Inglese: Per certi versi hai ragione sull’approccio ponderato e prudente. Ciò deriva dal grande fascino che ha esercitato su di me la “forma” romanzo, soprattutto all’epoca dei miei studi universitari e delle mie ricerche teoriche sul romanzo tra Ottocento e Novecento. Oggi, potremmo dire, un romanzo non lo si nega a nessuno. Ma i romanzi che hanno nutrito la mia passione di lettore e la mia curiosità di studioso sono dei “mostri”, nel duplice senso di eccezioni rispetto a qualsiasi codice di genere e terrificanti in termini di radicalità conoscitiva. Da Proust a Beckett, da Kafka a Musil, da Gombrowicz a Danilo Kiš, ogni grande romanziere ha sempre inventato assieme un mondo e una lingua. E tutto ciò mi incuteva una grandissima soggezione. Ma proprio per questa ragione se alla fine ho affrontato la scrittura romanzesca, ciò è accaduto sventatamente. Sono riuscito a scrivere un romanzo perché ci ho sbattuto contro. Ho capito ad un certo punto che, di tutte le strade che avevo intrapreso, quella che mi permetteva di esplorare in modo più esteso il mio tema era quella romanzesca. Ciò corrisponde, d’altra parte, al mio modo “duplice” di abbordare la questione dei “generi” letterari. Da un lato, per me è importante la storia dei generi letterari e le peculiarità che offrono in termini di esplorazione del reale; dall’altro, è sempre il tema, ossia ciò che m’interessa scrivere – anche se ancora oscuro nella sua formulazione – a determinare il genere che scelgo. Potrei quindi riassumere il tutto dicendo: tengo in grandissima stima i generi letterari e nello stesso tempo non me ne curo granché. Sulla questione della “narratività” nella mia poesia, ho coniato di recente un termine per parlarne. Nei miei due ultimi libri di poesia (Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato e La grande anitra – entrambi usciti nel 2013) io vedo all’opera una iponarratività, ossia una forma debole e disorientata di narratività; nello stesso tempo sono presenti elementi di finzione. D’altra parte, dovrei citare anche quei libri di prosa anomala, anch’essa poco narrativa, e comunque non lirica, che sono Prati (2007 e 2009) e Quando Kubrick inventò la fantascienza (2011). Nessuno di essi, però, sembrerebbe portare in modo troppo lineare verso la forma-romanzo.

Giuseppe Girimonti Greco: Nel tuo volume L’eroe segreto: Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, uscito nel 2003 (una rielaborazione della tua tesi di dottorato, se ricordo bene) utilizzavi il concetto di “auto-espressione”, che all’epoca mi sembrò così utile, preciso ed efficace ai fini dell’analisi di singoli testi-matrice del Novecento e di un’intera (venerabile) tradizione novecentesca. Ebbene, quel concetto e la griglia ermeneutica che ne ricavavi mi sembrano tanto più utili adesso, per orientarsi nel labirinto del non-fictional e dell’autofiction – che per fortuna in Italia è stato esplorato con grande attenzione da studiosi e critici militanti che hanno dato contributi preziosi in vista di una mappatura di questo ‘nuovo’ labirinto, di questo territorio così difficile da delimitare e cartografare, anche e soprattutto per via delle relazioni complesse che lo attraversano (in primis quelle tra Letterario ed extra-letterario; mi limito a tre nomi soltanto: Giglioli, Mazzarella, Palumbo Mosca). Questa categoria (l’auto-espressione) è applicabile a Parigi è un desiderio? Mi sembra che in questo romanzo le suggestioni autobiografiche siano evidenti e ben riconoscibili, ma ho come la sensazione che l’orizzonte di riferimento sia più latamente “auto-espressivo”, per l’appunto – e lo stesso si può dire del piano enunciativo che la voce narrante da te scelta sembra prediligere; del suo statuto enunciativo, arriverei a dire… Forse è il caso che tu ci rammenti brevemente qual era, in quel tuo saggio, la specifica novità teorica contenuta in quella parola-chiave. Ricordo bene che la trovai, tra l’altro, particolarmente indicata per ripensare lo statuto enunciativo (così ambiguo e sfuggente) che caratterizza il Narratore della Recherche. In quegli stessi anni, peraltro, Marie Miguet Ollagnier, in un articolo molto acuto (ma al tempo stesso peregrino) tentò una sorta di ‘annessione’ di Sodoma e Gomorra ai territori dell’auto-fiction propriamente detta; e forse fece bene, perché Proust, in effetti, anticipa molti elementi della più tipica autofiction postmoderna (quella alla Doubrovsky e alla Siti, per intendersi).

Andrea Inglese: È gentile da parte tua rievocare quel libro del 2003, L’eroe segreto, uscito grazie all’interesse di Franco Buffoni per la collana “Dimore” del Dipartimento di comparatistica dell’Università di Cassino. Quel saggio, in effetti, riprendeva quasi per intero la mia ricerca di dottorato, realizzata temerariamente alla frontiera tra filosofia e letteratura. Dico è gentile, perché quello è un lavoro che credo abbia ancora oggi qualche merito in termini d’innovazione ermeneutica, oltre che molteplici difetti rispetto a una ricerca accademica standard. Tu fosti una delle quattro o cinque persone che lo lessero, e l’unico che mi aiutò concretamente a promuoverlo. I risultati furono disastrosi, ovviamente per colpa mia, ma anche per una strenua mancanza di curiosità (a volte anche di comprensione) da parte del mondo accademico, a cui si rivolgeva. È come se questo libro non fosse mai esistito. Insomma, non è servito a nessuno, tranne a me. Non mi è assolutamente servito per la carriera accademica, però mi ha dato risorse critiche e teoriche su cui campo ancora adesso. Ma veniamo alla questione che sollevi. La categoria di “autoespressione” non l’ho inventata io; l’ho presa a prestito dall’ambito filosofico, dove è stata usata con particolare efficacia dal filosofo canadese Charles Taylor. Io ne ho fatto un uso più mirato e sistematico, attraverso una lettura ravvicinata di alcuni testi decisivi della modernità letteraria (dalle Confessions di Rousseau fino a Un homme qui dort di Perec, passando per la Recherche, Uno nessuno centomila, L’uomo senza qualità, la Cognizione del dolore, ecc.). Detto questo, ho qualche difficoltà ad applicarla al mio romanzo. Certo, Andy è per certi versi interamente impegnato in un’espressione di sé, ovvero nella ricerca non solo del proprio posto del mondo, ma anche di un linguaggio e di una visuale che possa armonizzarsi con questo posto. Per altri versi, però, Andy non è un seguace del mito individualistico dell’interiorità. Egli vorrebbe portare fuori di sé tesori di sensibilità, ma è costantemente rapito dalla parola altrui, e si ritrova nella posizione passiva di colui che riceve e ritrasmette la parola che altri hanno detto. Quanto alla tua osservazione su Proust, trovo che sia azzeccatissima. Tutte le meraviglie dell’autofiction sono già in Proust (e, aggiungo io, in Céline o Gombrowicz). Mi sembra che tutto quanto si poteva dire di importante su questi autori sia stato detto prima che la categoria suddetta venisse inventata e resa popolare. Dopodiché una categoria in più può sempre essere utile e affinare lo sguardo critico, ma colui che scrive, che sta creando un mondo, ha ben altri problemi a cui stare dietro, che l’applicazione ortodossa o meno di qualche categoria critica.

Parigi è un desiderio

Giuseppe Girimonti Greco: Gli studiosi del Modernismo narrativo europeo hanno da tempo messo l’accento non solo e non tanto sul romanzo “nuovo” come “terza forma” (Barthes), ovvero forma mista di narrazione e saggismo, ma anche sul romanzo come banco di prova per l’etica, sul romanzo come spazio ermeneutico in cui si mettono in scena (e si problematizzano) l’attitudine giudicante dei personaggi, il loro senso della giustizia, il tema della vittima, quello dell’innocente perseguitato, la sofferenza ‘gratuita’ (umana e animale), ecc. Qual è la tua posizione rispetto a queste due possibilità insite nella scrittura narrativa novecentesca: il saggismo e l’indagine ‘morale’?

Andrea Inglese: Il saggismo mi sembra una delle componenti fondamentali del romanzo novecentesco, ed è senz’altro una delle componenti che forza il romanzo verso i suoi confini, che lo rende meno riconoscibile, più anomalo. E di questo si è scritto molto rispetto al romanzo modernista, ma è ancora vero oggi. Penso ovviamente a un libro come Austerlitz di Sebald o L’edizione corretta di Harmonia Caelestis di Péter Esterházy, per non parlare dello stesso Houellebecq. Ma anche da noi è qualcosa di sempre presente. L’ultimo libro di Vanni Santoni, La stanza profonda, è una sorta di saggio narrativo autobiografico sui giochi di ruolo. Nel caso di Parigi è un desiderio mi sembra che la propensione saggistica sia stata come parcellizzata e dispersa quasi in ogni frase. Questa attitudine fa sì, da un lato, che venga indebolito lo spirito analitico, dal momento che l’aspetto asistematico del saggio è qui ulteriormente radicalizzato; dall’altro, però, il passo meditativo del saggista è sottoposto ai continui scossoni degli affetti, degli entusiasmi e delle delusioni. Ricordo una giusta osservazione di Daniele Giglioli, durante la presentazione milanese del libro. Per lui le schegge di pensiero critico, di verità sul mondo contemporaneo che sono disseminate nel libro, acquistano senso non in sé, ma in quanto portate da un personaggio, che è poi un tipico – a mio parere – eroe di romanzo, almeno fin dalla tradizione moderna. Mi spiego. Rileggendo Herzog di Saul Bellow mi è sembrato evidente che uno dei soggetti tipici del romanzo sia proprio la battaglia tra intelletto e mondo, ma un intelletto incarnato, che costantemente vorrebbe portare la propria persona, con tutte le sue determinazioni sociali e pulsionali, all’altezza delle proprie idee. Ed è naturalmente un soggetto largamente umoristico, o se vogliamo tragi-comico. Siamo in ogni caso alla vecchia battuta: “Me ne ha date tante (il mondo), ma gliene ho dette tante (l’io)”. Bachtin diceva che il romanzo moderno si situava nello scarto tra le azioni del personaggio e le ragioni che egli dà delle proprie azioni. Ecco, io spero che in Parigi è un desiderio funzioni il dispositivo segnalato da Giglioli: ossia un saggismo che ha però subito un abbassamento comico, sciogliendosi nelle vicende tutte banali di un quarantenne alle prese con i casini della vita: sesso, merce, lavoro, ambizioni.

Giuseppe Girimonti Greco: Vorrei introdurre due elementi ulteriori e apparentemente contrastanti che caratterizzano il tuo eroe: una sorta di ingenuità e di inconcludenza, da un lato, e di frenesia e volontarismo, dall’altro. Andy raccoglie l’eredità che gli viene da una lunga galleria di eroi ingenui, che il mondo punisce proprio per la loro “volontà di capire” (frustrata o rovesciata a ogni piè sospinto). Riprendo qui, ovviamente, una formula alquanto frusta: l’inettitudine del protagonista che contraddistingue decine di grandi romanzi del Novecento; una formula per certi versi ormai inservibile e fuorviante – nel migliore dei casi vaga e bonne à tout faire); ma che, per altri, torna utile per ‘collocare’ il tuo protagonista in una tradizione. L’imbranataggine e l’idiozia di Andy presentano – mi sembra – un nucleo dialettico, ossia non essenzialistico: “inetto” non tanto come “inadatto”, “non adatto”, bensì come “soggetto che-non-vuole-adattarsi-al-mondo”. Vi è qualcosa di anche consapevole e deliberato nell’inetto Andy… che è un personaggio ipercinetico, curioso, divorato dalla volontà di capire, da passioni che lo rendono agguerrito e combattivo…

Andrea Inglese: Hai ragione a tirare fuori il tema dell’eroe ingenuo, e a chiederti come possa essere imparentato con la figura novecentesca dell’inetto. Qui non mi azzardo in acque critiche, però sono domande che, seppure implicitamente, anch’io mi sono posto, nel momento in cui accompagnavo l’evolversi delle vicende di Andy e dei suoi amici. Partiamo da alcune osservazioni abbastanza incontestabili: da un lato, Andy è alle prese con una serie importante di fallimenti (amorosi e professionali prima di tutto); dall’altro, egli incarna un personaggio ambizioso, pieno di sogni e desideri, ma anche di energia per realizzarli o per tentare di farlo. Diciamo che non si rifugia nella condizione in qualche modo remissiva e compiuta dell’incapace, dell’imbranato cronico. È uno che si dà da fare, che prende dei rischi, che va spesso allo sbaraglio, non manca di appetiti. Ma vive quella che credo sia l’esperienza banale di molti di noi, ossia l’oscillazione costante tra entusiasmi e disincanti, tra momenti euforici e depressivi. E qui entra in gioco la dimensione dell’ingenuità, che riguarda per me innanzitutto il “tono” della voce. L’ingenuità emerge nel modo in cui la voce narrante abbraccia senza ritegno, prudenza, distanza critica, questi picchi e strapiombi umorali. Essa fa tutt’uno con loro. Questo è stato per me uno degli obiettivi “letterari” del libro: mostrare la fragilità e l’instabilità di una figura maschile, malgrado le sue pretese di conquista erotiche o professionali. C’è poi da osservare che Andy, come tu dici, patisce tutte le difficoltà dell’adattamento sociale. E, anche in questo caso, Andy è un disadattato ambiguo. Egli constata a volte come una fatalità, un limite, una deficienza questa sua incapacità d’inserirsi come si deve in un ruolo: quello del partner affidabile e protettivo, quello del carrierista accademico, quello del turista colto che sa come godersi i propri viaggi all’estero, ecc. Detto questo, in molti casi Andy rivendica come una scelta consapevole questo rifiuto di adattarsi, e combatte contro il proprio conformismo. Ma lo fa senza mai accedere a una piena posizione di superiorità morale nei confronti dell’ambiente che lo circonda. È un tipo che sogna la rivoluzione, ma nello stesso tempo non riuscirebbe a vivere soddisfatto in una comunità alternativa. Ancora una volta è questa fragilità, ma vista dall’interno, che m’interessava mettere in scena, questo andirivieni di slanci e ripensamenti, di ribellioni e stanchezze. Mi sembra che l’universo romanzesco, in genere, abbia bisogno di presentare personaggi facilmente decifrabili, come dei portavoce di gruppi sociali o di profili psico-sociologici ben definiti. Una volta che il romanzo è popolato da questi personaggi, è come se l’autore avesse la garanzia di aver fatto presa sulla realtà, e di essere un vero narratore contemporaneo. A me sembra, invece, in questo modo, che egli porti i suoi personaggi in una zona franca, dove tutto ciò che fanno diventa subito leggibile, facilmente decifrabile, ognuno se ne va in giro con un bel significato attaccato sulla schiena. Questo me li rende, quando mi trovo nella posizione del lettore, poco credibili. Non ci credo. Non assomiglia per nulla a ciò che viviamo, a come percepiamo noi stessi nel tempo, ma anche le persone che ci stanno vicine. Per me, le nozioni di ambiguità e indecifrabilità sono estremamente importanti nella visione del mondo che un romanzo riesce a costruire.

Giuseppe Girimonti Greco: Gli “appetiti” di cui parli, quelli che attribuisci ad Andy, sono – anche – di carattere squisitamente conoscitivo; non parlo solo di velleità accademiche, intellettuali, e simili. Anzi, non è affatto questo ciò che ho in mente. Penso più in generale a una dimensione di ricerca prettamente conoscitiva, a un’ambizione di decifrazione del caos contemporaneo. E la postura dell’ingenuità (o almeno così mi pare) serve – al personaggio – a prendere il coraggio a quattro mani; anzi, dirò di più, e forse meglio: è la condizione senza la quale l’eroe del romanzo così come lo concepisci tu non può affrontare – più o meno soavemente, più o meno spavaldamente, in modo più o meno sconsiderato o maldestro, ecc. – la sua traversata. Nel tuo libro, in definitiva, c’è qualcosa di picaresco (una sorta di avventura pedagogica che procede per successive approssimazioni, per errori e ripensamenti, e aggiustamenti del tiro, fallimenti e ravvedimenti.) Sei d’accordo con questa lettura?

Andrea Inglese: Mi ritrovo (e trovo Andy) perfettamente nella tua lettura. Il libro narra di una ricerca di carattere conoscitivo, “un’ambizione – come tu scrivi – di decifrazione del caos contemporaneo”. Ma ancora una volta, in che senso un’ambizione conoscitiva (filosofica, scientifica) diventa soggetto romanzesco? Anche qui, senza volerlo, ci aiuta nuovamente Proust e uno dei libri più belli della Recherche, ossia La Prisonnière. Il romanzo ha questa capacità di situare in un contesto concreto, fatto di relazioni e di determinazioni specifiche, una pulsione conoscitiva che filosofia e scienza tentano di esprimere su un piano universale. Nella Prigioniera la furia interpretativa nasce da un dilemma di geloso: con chi e quando Albertine mi ha tradito? In termini più precisi: Andy ha un problema molto concreto, che è quello di “sentirsi a casa” in una città che non è la sua e da cui è stato a lungo affascinato. Ma che cosa garantisce che questo “radicamento” sia avvenuto? Un’esperienza turistica, un legame sentimentale con una parigina, soggiorni sufficientemente lunghi in qualità di studente, una residenza definitiva, connessa con un lavoro retribuito e un appartamento in affitto? Per cercare di rispondere a questo problema concreto, l’eroe è costretto ad assumere, suo malgrado, una postura intellettuale, e si chiede, appunto, cosa sia alla fine quella Parigi dentro cui tenta di radicarsi. Siamo, in fondo, alla concezione nicciana della conoscenza. L’uomo è spinto alla conoscenza dallo spavento del mondo. Il romanzo ritrova questa dimensione affettiva, originaria, dello slancio conoscitivo: si vuole conoscere qualcosa o qualcuno per fuoriuscire da un disagio, da un affetto negativo, da un dolore. Ed è qui, forse, che s’inserisce la dimensione picaresca. Non vorrei sbagliarmi, ma chi è il picaro, se non colui che fa di necessità virtù, ossia qualcuno che non possiede uno status definito all’interno di una società gerarchica, e si muove da un punto all’altro della scala sociale, utilizzando la sua intelligenza, una delle sue doti “naturali”? Il tratto picaresco di Andy sta nella sua vitalità, ma nello stesso tempo nella sua incapacità di assumere non uno status, visto che siamo in una società democratica, me neppure un ruolo. E il suo desiderio di radicamento parigino andrà incontro a un fallimento. Finirà per vivere in periferia.

Giuseppe Girimonti Greco: Molto stimolante la contrapposizione che tratteggi fra Tipo e Individuo. Rimproveri ai romanzi che non ti piacciono la tendenza al tipologico, ovvero, mi pare di capire, a un certo sociologismo generalizzante, che classifica per categorie schematiche, e che mette in scena “modelli” che rischiano la più sterile “stereotipia”; è il rischio insito in certi affreschi anche recenti, laddove (difetto ancor più grave) l’appiattimento sul tipo sociologico, sullo stereotipo ecc., investe direttamente soprattutto il protagonista, l’autore-osservatore stesso dell’affresco. A difesa di alcuni romanzi che possono presentare questa caratteristica (che non è “di per sé” un vero e proprio “difetto”… tutto dipende sempre dall’architettura dell’insieme), dirò soltanto che “tipizzare”, tuttavia, significa anche ottenere dei personaggi comici: la componente comica si fonda su questa operazione. Sull’altro versante, invece, abbiamo il trionfo dell’individuo e della sua rappresentazione / auto-rappresentazione (la “Science du sujet” di Barthes). Un’utopia, comunque. Una sfida ambiziosa, un punto di fuga, una prospettiva. Molto utili le tue osservazioni sull’importanza dell’ambiguità e della nozione di opacità. Certo, c’è il rischio di perdere la sfida stessa della rappresentazione e dell’autoespressione… Sono due istanze quasi inconciliabili. Da un lato la formazione di compromesso: la tipizzazione, un processo che implica un certo grado di semplificazione, ai fini della rappresentabilità e della “comunicabilità” della psicologia del personaggio; dall’altro, la restituzione della sua opacità, della sua indecifrabilità, del suo mistero (tendenza che contagia anche la critica migliore: basti pensare alla Sontag di Contro l’interpretazione). Come si fa a tenere insieme queste due spinte?

Andrea Inglese: Partiamo dalla questione del “tipo” e dell’“individuo”, o meglio dal lavoro, da un lato, di “tipizzazione” – che tu dici implicare “un certo grado di semplificazione, ai fini della rappresentabilità e della comunicabilità della psicologia del personaggio” – e , dall’altro, al lavoro che va in senso contrario, ossia verso “la restituzione della sua opacità, della sua indecifrabilità, del suo mistero”. Allora, essendo passato attraverso la trilogia di Beckett o i romanzi di Nathalie Sarraute, il mio partito preso è quello dell’incompiutezza, e quindi dell’impossibilità di un tipo (portavoce sociale e psicologico) pienamente credibile. Con questo non sto costruendo una (ennesima) poetica dell’innominabilità. Sto solo dicendo che il romanzo non è fatalmente destinato a far esistere i personaggi nella forma del “tipo”, senza che ciò implichi una rinuncia completa a qualsiasi forma di tipizzazione. Esistono romanzi più scettici su questo fronte, quindi anche più scettici sulla questione di ciò che si può o meno rappresentare, e altri invece no. Ma questo non ci dice nulla, come al solito, sulla riuscita estetica di una o dell’altra delle strategie romanzesche citate. Prendiamo il caso di un autore finalmente diventato (un po’) di moda in Italia. Cosa fa Volodine in Angeli minori? Recupera in una forma propriamente romanzesca la scandalosa questione dell’innominabilità del personaggio, che valse a Beckett una specie di capolinea della scrittura (dopo L’innomable vennero i Textes pour rien). Volodine fa funzionare un’impossibilità mimetica (l’impossibilità di fissare i contorni di un personaggio) come una possibilità dei suoi romanzi a cavallo tra fantascienza distopica e genere fantastico. In conclusione, per quanto mi riguarda preferisco i termini d’incompiutezza e ambiguità, piuttosto che quelli di mistero e indecifrabilità. Propendo per un’indecifrabilità relativa: qualcosa sfugge dal conto dei significati, ma non tutto.

Giuseppe Girimonti Greco: C’è poi la presenza del femminile, incarnato dalla figura di Andromeda, figura che coincide con l’oggetto del desiderio. Andromeda è un proustianissimo “essere di fuga”,  non solo in senso erotico, ovviamente, ma anche in senso simbolico, gnoseologico, e – quel che per me più conta – in senso sociologico e culturale; e qui la ricerca si sposta dall’introspezione alla pura alterità: la donna amata e desiderata come ipostasi dell’Altro, nella sua irriducibilità; la donna amata che “sta per” il Mondo (riprendo la tua dicotomia iniziale Io / Mondo), e che, soprattutto, “sta per” il suo Mistero; il mistero del femminile rimanda a quello che serpeggia ovunque, nell’universo romanzesco in cui si muove la sonda dell’eroe. Di qui il tuo ricorso sistematico all’ecfrasis, dove il Femminile finisce per coincidere con i Luoghi (quello della donna-paesaggio, inutile dirlo, è un altro topos che ancora si presta a meravigliose declinazioni e figurazioni). In questo la tua è una narrazione molto “maschile” e al maschile – a prescindere da certi straordinari tentennamenti libidici di alcuni episodi, che io ho letto come in chiave di pura sperimentazione (sperimentazione sempre in materia di eros: volontà di conoscenza dei suoi limiti, dei suoi confini, dei suoi contorni, della sua giurisdizione e dei suoi meandri).

Andrea Inglese: L’uso dell’ecfrasis, ossia della descrizione in parole di un’immagine, ha qualcosa, in Parigi è un desiderio, di probabilmente strategico, ossia costituisce una modalità generale, attraverso cui il protagonista si rapporta alla realtà. Nella descrizione di un dipinto, oltre la superficie c’è ancora la superficie e colui che guarda e descrive è preso in una paradossale inesauribilità del compito. Se l’incompiutezza corrisponde alla dimensione interna del personaggio, l’inesauribilità corrisponde alla dimensione esterna del mondo. Naturalmente, ciò che mette in moto il rilancio interpretativo è la dimensione temporale: io guardo il mio quadro, ossia guardo una cosa compiuta nel tempo, un evento, ad esempio una storia d’amore giunta alla fine, e appena ne ho fissato un insieme di significati, io che guardo sono già cambiato, e quei significati sono per me elementi estranei, da riconsiderare. In tutto ciò, come tu dici, funziona il connubio donna-paesaggio. Nel romanzo, il paesaggio città è quindi inesauribile come la donna, e quest’ultima funziona, per me, come l’altro in senso antropologico. Preciso in senso antropologico, perché sia chiaro che non sto pensando a qualche fantomatica identificazione donna/natura. Insomma, è il tema del “genere” come lo ha trattato, ad esempio, Ivan Illich. La totalità umana implica una dualità costitutiva tra generi. Ma non la vorrei mettere giù troppo dura. È in fondo l’esperienza banale che ho fatto nella vita di coppia: il mio partner mi viene incontro con tutta la sua profonda umanità, ma non è la mia, non è identica alla mia, e quindi il mio essere uomo deve apprendere a integrare l’umanità della donna, che è una faccenda assai difficile. In tutto questo, poi, la mia stessa umanità di uomo, è tutt’altro che certa e scontata. Questo è un punto per me importante del romanzo: Andy è anche “un uomo che non sa cosa vuol dire essere uomo”, un maschio incerto sulla sua maschilità, un padre ignaro di cosa possa essere la paternità, e via dicendo. Ma tutto ciò non gli impedisce di assumere in maniera sghemba quei ruoli che tanto gli sembrano esotici.

Giuseppe Girimonti Greco: Il tuo romanzo è finalista al premio Napoli e ha vinto il premio Bridge, che consiste nel finanziamento della traduzione in inglese. Avevi qualche aspettativa sul fronte dei premi letterari?

Andrea Inglese: Ero curioso e in fondo anche po’ speranzoso, ma con quella speranza vaga che hanno tutti i giocatori di lotterie. Quindi sono stato in realtà sorpreso, sia di essere in finale al Napoli sia per la vittoria del Bridge. Quest’ultimo ha una duplice giuria: quella italiana che sceglie per la narrativa e saggistica statunitense, e quella anglosassone, che sceglie per la narrativa e saggistica italiana. Credo che l’esteriorità (almeno relativa) della giuria anglosassone rispetto all’ambiente letterario italiano possa riservare delle sorprese. Mi sono reso conto, poi, incontrando giurati e organizzatori di entrambi i premi, e in diverse occasioni anche il pubblico, che un romanzo come il Parigi anche quando vince o arriva in finale rimane un oggetto letterario non di dico “non identificato”, ma “poco identificato”. Insomma, non è certo il libro che fa l’unanimità, né nelle giurie tecniche né tra i lettori. Ma è probabilmente una delle ragioni, per cui alcuni hanno voluto sostenerlo, malgrado la sua anomalia.

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Andrea Inglese (1967). Vive e lavora tra Milano e Parigi. Suoi interventi saggistici sono apparsi in rivista – «Baldus», «Derive/Approdi», «L’Atelier du roman», «Nuovi Argomenti», «il Verri», «Sud», «Qui», «Nuova prosa», ecc. – e in volume – Akusma. Forme della poesia contemporanea (Metauro, 2000), Scrivere sul fronte occidentale (Feltrinelli, 2002), La traduzione del testo poetico (Marcos y Marcos, 2004), Dieci inverni senza Fortini 1994-2004 (Quodlibet, 2006), ecc. Ha pubblicato un saggio di teoria del romanzo dal titolo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e ), i libri di poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano (Marcos y Marcos, 1998), Inventari (Zona 2001), Colonne d’aveugles (Le Clou Dans Le Fer, 2007), La distrazione (Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009), le raccolte di prose Prati (La Camera Verde, 2007) nel volume collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009), Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001 (La Camera Verde, 2010) e il prosimetro Commiato da Andromeda (Valigie Rosse, premio Ciampi 2011). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). Scrive per “il Manifesto” ed è redattore del mensile “Alfabeta2” e del sito alfabeta2. Cura Per una critica futura, trimestrale di critica in rete ed è redattore del sito di ricerca GAMMMEnglish profile