di Nicolás Vidal Del Valle
traduzione di Sebastiano Iannizzotto
l
‘originale è qui

 

Cinque anni fa tornò mio padre. Mia madre mi avvisò il giorno prima. Non la presi bene. Lo ricevetti sbronzo e lo lasciai con la mano tesa. Suppongo che nemmeno lui si aspettasse altro. Se ne andò senza avvisare, nell’‘80, quando avevo sette anni, e tornò tredici anni dopo, più magro, e con un sorriso che mi arrivò come un calcio nelle palle.
Vivevo con mia madre in un appartamento minuscolo in calle Portogallo. Lui iniziò a farci visita tutte le settimane. Portava sempre regali e cibo pronto. Veniva con soldi; per me era chiaro che per questo mia madre gli aveva aperto la porta. Non avevamo un centesimo. Di sera, facevo il cameriere in un ristorante a Vitacura per pagarmi l’università. Quando veniva lui, io cenavo veloce e andavo a chiudermi in camera mia. Gli parlavo attraverso dei monosillabi aspri.
Tredici anni di abbandono; nemmeno una cazzo di lettera. Solo a quattordici anni smisi di piangere il giorno del mio compleanno. Fino alla sua riapparizione, mio padre era solo un insieme di ricordi frammentati, come quello del cortile di casa a Ñuñoa: lui era senza occhiali, con la maglia del Colo Colo, che sembrava sul punto di esplodere, acquattato tra i pali (la traversa era immaginaria), con il tamburello alle spalle, aspettando che io calciassi un rigore. Siccome mi aveva parato gli ultimi tre, temporeggiai alcuni istanti per scegliere in quale lato calciare, ma giusto prima di colpire la palla sentii il grido di mia madre che ci chiamava a tavola, anche se in qualche modo riuscii a fare un tiro verso il palo destro che mio padre parò emulando el Gato Osbén.

“Torneremo a essere una famiglia”, disse mia madre, quando m’informò che avremmo vissuto tutti e tre insieme in una casa a Los Domínicos, ai piedi della cordigliera. “C’è una terrazza da cui si può vedere la vergine del Cerro San Cristóbal”. Non le risposi, ma il giorno del trasloco me ne andai da casa, dal Cabezón Fuentes. Erano ferite vecchie, ma continuavano a fare male. Mia madre mi cercò per due giorni, fino a quando apparve nell’appartamento del Cabezón Fuentes. Si sedette accanto a me, sul materasso su cui dormivo. E mi raccontò la sua verità. Mai l’avevo vista piangere, nemmeno quando mio padre la lasciò. È sempre stata magra, ma quel pomeriggio la sua magrezza mi sembrò quasi segno di una malattia. “Sono stata io”, mi disse, giochicchiando nervosamente con un anello nuovo. “Tradii tuo padre, per questo se ne andò”. Non era stata solo un’avventura; lei aveva avuto un amante e mio padre se ne andò molto lontano perché non poté sopportarlo. Mia madre non lo amava, questo per me fu sempre chiaro, ma lo ammirava profondamente. Se ne era andato, tradito, senza un centesimo in tasca, ed era tornato tredici anni dopo, a riscattarla.
Le fondamenta dei miei rancori e delle mie certezze cominciarono ad andare in frantumi. Restai tre giorni in più dal Cabezón Fuentes, fino a quando mi decisi a tornare. Iniziò un avvicinamento morbido, graduale, piuttosto quotidiano. Per due settimane non parlai con mia madre, ma a poco a poco la rabbia stava passando. Mio padre mi mancava così tanto, che dopo pochi mesi gli avevo perdonato la sua assenza. Un giorno lo interrogai direttamente a proposito del tradimento di mia madre. E me lo confermò, abbassando lo sguardo, con un atteggiamento che mescolava vergogna e redenzione. “E perché cazzo non mi hai scritto nemmeno una lettera in tredici anni?”. Temporeggiò a rispondermi, fino a quando lo fece con una voce stridula: “Non mi sentivo capace, Héctor. Ti giuro che ero così marcio che non mi sentivo capace. Per favore, perdonami”.
La sua compagnia mi rese felice. Mi bastava il fatto di averlo vicino per lasciare indietro il dolore dell’abbandono. E, perché negarlo, c’entravano anche i soldi. Un giorno mi arrischiai a chiedergli che ne fosse stato di lui in quei tredici anni. Aveva vissuto al nord. Siccome era avvocato, non ebbe difficoltà a trovare lavoro come funzionario pubblico. Lo fece per alcuni anni, fino a quando ebbe la fortuna che molti cercano e pochi trovano. Ricevette una buona dritta, si comprò una piccola miniera di rame e iniziò a arrivare il denaro. Esattamente la stessa cosa che mi aveva raccontato mia madre, che riceveva sue notizie spalmate nel tempo. Ma avevo bisogno di ascoltarlo dalle sue stesse labbra. C’eravamo già bevuti quasi tutta una bottiglia di pisco[1] quando mio padre si mise a parlare della miniera. L’aveva ribattezzata Verónica, come mia madre. Stette a raccontarmi della miniera per ore, di come scendeva giù con i minatori e restava a lungo là sotto, piccone in mano, come uno di loro. Forse era per l’alcool, ma poche volte lo avevo visto con questa voglia di parlare. Eravamo seduti in terrazza, sotto il pergolato, e sopra le nostre teste molti degli acini d’uva già si erano rinsecchiti; alcuni erano già scuri e rugosi resti secchi di quello che erano stati, e altri iniziavano proprio allora il processo di disidratazione. Bevemmo un altro pisco e cola e mi raccontò di una volta in cui aveva sfruttato i suoi contatti nel Governo per rimettere in libertà il cugino di un suo amico, detenuto dal CNI[2]; e che un’altra volta aveva fatto la stessa cosa per il fratello di una donna con cui stava uscendo da un paio di mesi. Me lo raccontò in modo semplice, senza pavoneggiarsi, aveva solo avuto l’opportunità di aiutare quei ragazzi e l’aveva fatto. “Bisognava avere due palle così per farlo”, gli dissi. Lui si strinse nelle spalle. Non tornò a parlare della questione.

Cinque anni dopo il giorno in cui lo lasciai con la mano tesa, mi mandarono a Antofagasta per un reportage su un presunto caso di corruzione nell’amministrazione comunale. Lavoravo per una rivista che si chiamava “El Informante”. Viaggiai un venerdì, di notte. Andai a parlare con una segretaria del comune. Mi diede appuntamento a un caffè che odorava di pane bruciato, nel centro. Io pensavo a mio padre. Avevo voglia di vedere la miniera, che era a un’ottantina di chilometri, in mezzo al deserto, ma il mio viaggiò saltò fuori all’improvviso e mio padre era in Argentina. Mentre la aspettavo, pensai alla storia dei miei genitori. In fin dei conti, entrambi mi avevano ingannato. Arrivò la segretaria e, in un attimo, mi resi conto che il supposto caso di corruzione era solo un pettegolezzo di vecchie malelingue senza nessun fondamento.
Mi restavano undici ore prima di tornare a Santiago. Chiamai Claudio. Avevamo studiato insieme Giornalismo, ma lui poi passò a Lettere. Teneva lezioni all’Università di Antofagasta. Claudio era lo stesso: una di quelle persone che ti guarda molto serie all’inizio, ma poi i suoi occhi si rilassano e finisce per sorridere. M’invitò a passare la giornata con lui. Casa sua era piccola. Ero lì da pochi minuti quando arrivarono alcuni amici suoi. Erano tre. Cominciammo a bere prima di pranzo. Prima birra e poi pisco e cola. La mia attenzione era rivolta all’orologio: mancava sempre meno all’ultima partita del campionato. La U[3] giocava contro l’Audax Italiano; era seconda, un punto indietro rispetto al Colo Colo, che giocava l’indomani con l’Iquique. Eravamo seduti su delle sedie di plastica, nel patio di polvere e cemento. Una piccola tenda ci proteggeva a stento dal sole insopportabile. Da buon invitato, portai qualcosa: un po’ di marijuana. Fumammo tutti tranne uno che era molto magro e aveva un aspetto così disgraziato che sembrava un tisico; i suoi denti erano appuntiti, così separati che sembrava che gliene mancassero alcuni. La sua barba rada era come quella di un adolescente. Era troppo ubriaco per fumare.
Claudio si mise a parlarci di un racconto che stava scrivendo, a suo dire molto borgesiano. Mi alzai a metà del racconto, abbastanza insulso e metaletterario, e me ne andai a vedere la partita. Il tisico mi accompagnò, disse che anche lui era della U. Diede una gran testata contro il vetro che separava la sala dal patio, ma non si fece male. Ci eravamo appena seduti su un divano a tre posti, con la televisione di fronte, quando Leo Rodríguez segnò il primo gol. Lo festeggiai abbracciando il tisico. Dopo pochi minuti, mi ero pentito. Fu quando iniziò a parlare. Principalmente cose incoerenti, alcune frutto della sbronza e altre della sua mentalità singolare. Che lavorava nell’unica libreria della città, che l’unico che sapeva leggere letteratura era Claudio e il resto erano imbecilli, analfabeti; che solo loro sapevano apprezzare Onetti e Roberto Arlt; che alcuni leggevano, ma nessuno capiva, nessuno capiva niente; che lo guardavano come se fosse una bestia strana, una specie di creatura informe, solo perché era magro e vedeva le cose da un altro punto di vista; non era un mostro, non era colpa sua se aveva un metabolismo così efficiente; che lo avrebbe visto subito, tra poco sarebbe dovuto andare al bagno a cacare il pranzo. La partita proseguiva tranquilla e la voce raschiata del tisico era come una fastidiosa musica di fondo. Negli ultimi minuti del primo tempo, l’Audax fece due gol e ce ne andammo all’intervallo sotto di uno. Il campionato, l’eccitazione dell’ultima partita, la pressione sulla capolista che lo obbligava a vincere la partita di domenica, tutto se ne andava a fanculo per due disattenzioni nei minuti finali. E c’era il tisico. Come un moscone. Avevo voglia di dargli una manata, colpirlo con uno scacciamosche, ma non ero a casa mia, non ero nella mia città, né era mio amico. E nemmeno mantenne la promessa di andare a cacare il pranzo.
Seguii molto concentrato i primi quindici minuti del secondo tempo, cercando di non ascoltarlo. Un’incornata di Flavio Maestri pareggiò. Saltai dal divano e abbracciai il tisico. Lui mi abbracciò. Per un momento, mi dimenticai della sua voce, fino a quando mostrarono una foto enorme di Pinochet, con un vestito a righe, che era stata portata da un tifoso allo stadio. Il tisico, furioso, tornò alla carica. Che da due mesi il vecchio di merda era stato catturato a Londra, che magari lo incarcerassero per sempre nelle segrete di un castello; o meglio che lo impicchino una cazzo di volta per tutte. Che non era più Presidente da nove anni, ma c’erano ancora molte cose da sapere. Tanti morti, tanti torturati, ma non erano le uniche vittime, per esempio a suo padre gli aveva rotto i coglioni un fascista che gli estorceva denaro perché aveva nascosto alcuni clandestini. E pare non fosse l’unico. Non si seppe mai, si mormorava che lavorasse nel Ministero dell’Attività mineraria o delle Opere Pubbliche e che un tipo che si chiamava Norberto Moyano, che ora viveva nel sud, lo aveva visto una volta in faccia e aveva detto che somigliava al señor Barriga[4], solo un po’ più magro e alto. Ma i morti e i torturati erano molto più urgenti di quelle vecchie voci. Dovetti chiedergli di stare zitto. Glielo dissi con un tono aspro, indicandogli lo schermo. Era passata mezz’ora e se non avessimo fatto gol, avremmo detto addio al campionato.
Il tisico restò in silenzio fino a quando il grande Leo Rodríguez segnò il gol del tre a due. Dovetti abbracciarlo. E ricominciò. Gli ubriachi tendono a divagare sullo stesso argomento. Che da lì era passata la Carovana della Morte[5], che il miglior amico di suo padre, Gustavo Venegas, fu una delle vittime; che lo avevano bendato, nel deserto, e lo avevano fatto confessare con un prete che gli aveva dato l’estrema unzione. Dicevano pure che il prete era falso, che era un avvocato che conosceva a memoria le formule rituali. Io non sapevo che cazzo gli passasse per la testa a questo tipo. Volevo solo che mi lasciasse vedere la partita ma quello che mi stava raccontando m’impediva di chiedergli di chiudere il becco. E che Gustavo Venegas lo avevano messo contro una parete di mattoni, un giorno di dicembre, forse simile a questo, in mezzo al deserto, con il sole sui suoi occhi bendati, e aveva ascoltato l’ordine di far fuoco e i gran figli di troia avevano sparato. Erano colpi a salve. “Una fucilazione simulata”, gli dissi. Il tisico fece sì con la testa e smise di parlare perché la partita era terminata. Una vittoria difficile, sofferta, di quelle che tanto piacciono a noi tifosi della U.
La logorrea del tisico mi aveva lasciato inquieto e con un po’ di mal di testa. Uscii nel patio e dedicai le ore successive, con impegno, a ubriacarmi.

Mi si chiusero gli occhi non appena mi sedetti sul bus. Mi svegliai a un’ora indeterminata della notte, con dei postumi enormi. Le tempie mi pulsavano come se fossero vive. Le parole del tisico mi giravano in testa come un prolungamento del guazzabuglio che avevo nello stomaco. Rimasi a pensare per un po’ alla fucilazione simulata. La fuga di mio padre fu come una fucilazione simulata, o meglio, una fucilazione con un boia simulato. Avevo un libro con i racconti di calcio di Soriano, che mio padre mi aveva portato dall’Argentina. Cominciai dal mio preferito: “Il rigore più lungo del mondo”, ma quando lo terminai sentii così tanta voglia di vomitare che non potei continuare a leggere.
Restavano circa trecentocinquanta chilometri per Santiago quando mi sorprese il cartello che indicava la deviazione per il Parco Nazionale Fray Jorge. I ricordi erano così poderosi che trapassarono l’alone di sgradevolezza della sbronza. Tornavo con i miei genitori da Tongoy a Santiago e decidemmo di fermarci al Parco. Alla fine della strada in terra, in mezzo al deserto (davvero un deserto: sabbia punteggiata di cactus), emergeva una collina coronata da una bruma misteriosa. E quando arrivammo, avvenne il miracolo. Sulla collina, circondata da un’aridità desolante, c’era un bosco. Alberi immensi, fiori, arbusti, piante rampicanti e, soprattutto, umidità. Quando scendemmo dall’auto mio padre mi obbligò a mettere il parka; poi gliene fui grato, perché faceva molto freddo lassù nel bosco. Riuscii a sentire di nuovo, guardando il cartello dal bus, quella felicità immensa, la voce di mio padre, le sue braccia ossute, la sua pancia enorme e protettrice. Il muschio si arrampicava sui tronchi degli alberi. La mia felicità, come quella di tutti i bambini, era euforica: correvo per i sentieri di legno che fluttuavano in mezzo al bosco, stringendo la mano di mio padre, mentre mia madre ci guardava da dietro, silenziosa. Il giorno dopo mi abbandonò.
Arrivai a casa giusto in tempo per la partita. La vidi chiuso nella mia stanza. Un gol di Francisco Rojas al minuto quaranta del secondo tempo aveva dato il titolo al Colo Colo. Mio padre era felice e io non volevo guardarlo in faccia. Dormii fino al lunedì.
Spiegai al mio capo quanto mi fosse andata male a Antofagasta e tornai a casa mia presto. Il gran bastardo m’incaricò di scrivere un articolo sul campionato del Colo Colo. Sarebbe stato pubblicato a firma di Héctor Sánchez, ma non me la sentivo di scriverlo. Lo appioppai a un amico. Volevo leggere Fontanarrosa. Avevo tutto pronto: il libro e una tazza di caffè; ma i miei occhi, ostinati schiavi del subconscio, si concentrarono sulle foto del collage appeso in corridoio. Mi rammaricai di non aver conosciuto Verónica, la miniera. L’ingresso del tunnel compariva nella foto. Accanto, mio padre, con casco e piccone, con i suoi baffi folti, sorridente, come se fosse pronto per scendere a frantumare il minerale. Quella foto doveva essere dell’‘85. Avrei voluto zittire la voce del tisico, ma non ci riuscivo; quel pazzo continuava a martellarmi la testa. Mi ripetevo che tutto era una coincidenza, ma il nome di Normerto Moyano non mi lasciava tranquillo. Provai a leggere. Tentavo di concentrarmi, ma una voce insistente dentro di me mi obbligava a chiamarlo. Come cazzo mi ricordavo di quel nome? Ero sbronzo, un po’ fatto e con l’attenzione rivolta alla partita.

Uscii a farmi un giro. Pensai di chiamare un amico, ma finii a dare calcioni a Tekken, solo, nella sala giochi Diana del Paseo Ahumada. Tornai a casa mia verso le cinque. Chiuso in camera, contemplando il poster di Sergio Vargas che era ancora attaccato al soffitto, mi decisi a cercare Moyano. Non fu facile trovare il suo numero. Dovetti chiamare la sede centrale della Telefónica e, dopo faticosi tentativi con tutti i tipi di proposte incluse, convinsi l’operatrice a darmi l’informazione. Per fortuna c’erano solo due tizi che si chiamavano Norberto Moyano: uno a Valparaíso e l’altro a Puerto Montt. Le mie dita intorpidite si sbagliarono tre volte mentre componevo il numero.
Rispose Moyano; una voce che pronunciava male le z e le c. Gli dissi che mi chiamavo Ricardo e che volevo parlare di una cosa che era successa a Antofagasta molto tempo prima. Mi chiese se ero un giornalista, e titubai. Riagganciò il telefono. Sentii un malessere enorme per essermi sbagliato con qualcosa di così stupido e perché il sospetto, all’inizio irragionevole, che il monologo del tisico avesse un senso, si andava trasformando in una possibilità sempre più perturbante. Avevo le mani bagnate e i battiti del mio cuore mi risuonavano nelle orecchie. Mi resi conto che non avrei vissuto tranquillo fino a quando non avessi visto la faccia di Moyano.

Inviai il mio articolo tarocco sul campionato del Colo Colo e mi inventai la morte di uno zio che mi obbligava ad andare quel giorno a Puerto Montt. Sul bus, iniziai a sudare; sembravo un maiale bagnato e appiccicoso. Lessi Il pozzo, di Onetti, sforzandomi di non pensare che la mia vita stesse per trasformarsi in una bugia. Come aveva potuto un funzionario pubblico di punto in bianco comprare e sfruttare una miniera? Poi, mi dedicai a attraversare nei miei ricordi la confusa nebbia dell’alcool e della marijuana per ricordarmi il nome del tisico: Jaime Soto.
Bussai alla porta di una casa di legno pitturata di un azzurro scolorito, o meglio scortecciato per l’umidità. Era un viaggio rischioso il cui destino dipendeva da una bottiglia di pisco Horcón Quemado che avevo nello zaino. Mi aprì la porta un tizio di una sessantina d’anni con i capelli grigi e il sorriso segnato dall’assenza quasi totale dei suoi denti anteriori. Seppi che era lui prima di parlargli.
– Alberto Moyano?
– Chi lo cerca? – riconobbi il difetto di pronuncia, conseguenza della mancanza dei denti.
– Mi chiamo Mauricio. Sono amico di Jaime Soto. Mi ha detto che lei conosce suo papà.
– Conoscevo.
– Certo, conosceva.
– E cosa vuole?
– Sono di passaggio dalla città e ho bisogno di ammazzare il tempo. Non conosco nessuno di qui. Mi piacerebbe parlare un minuto con lei – dissi, tirando fuori dallo zaino la bottiglia di Horcón Quemado – e magari berci un bicchierino. Non mi piace bere da solo.
– Va bene, ma solo un momento perché ho molto da fare – disse Moyano, senza staccare gli occhi dalla bottiglia.
La casa era messa peggio dentro che fuori. Ci sedemmo su delle sedie di vimini. Avevo già preparato gli argomenti. La mia scommessa era che il vecchio fosse noioso. Cominciai con la crisi che colpiva la pesca di salmoni e iniziava a lasciare molta gente a casa; poi il meteo e un po’ di Chiloé[6], fino a quando arrivammo al calcio. Quando si lamentò, a proposito della partita, del gol di Rojas che aveva dato il titolo al Colo Colo, approfittai dell’opportunità e mi lasciai andare. Terminammo la bottiglia ricordando il doppio campionato del ‘94 e del ‘95. L’idea era che lui bevesse più pisco di me, ma comunque mi sentivo un po’ ubriaco. Moyano andò a prendere una bottiglia di Pisco Capel; decisi che era ora di parlare.
– Jaime mi ha raccontato quello che era successo a suo papà – gli dissi al volo, mentre versava un po’ di pisco nei piccoli bicchieri, verdi, con rilievi quadrettati.
– Che cosa?
– Quella storia del tizio che gli estorse denaro – approfittai di bere un sorso per spegnere il tremore della mia voce – A uno zio successe la stessa cosa.
– Come si chiama tuo zio?
– Enrique Espejo, be’, in realtà si chiamava perché lo uccisero i soldati nell’‘84 – gli dissi, abbassando lo sguardo.
– Non lo conoscevo. Mi dispiace molto – disse Moyano, veramente addolorato.
– Non si preoccupi – gli risposi, alzando gli occhi all’altezza dei suoi, che erano diventati malinconici – è che quando Jaime mi ha raccontato di suo papà, mi ha detto che lei aveva visto l’estorsore.
– Sì, la verità è che l’ho visto una volta, ma da lontano. Il tipo era bello grasso, gli calcolai un centoventi chili, ma era alto, circa uno e ottantacinque.
– E non conosce il suo nome? – gli domandai. Sentivo che il mio stomaco si rivoltava.
– Sfortunatamente no.
– Ah – feci una pausa per prendere un po’ d’aria che cominciava a scarseggiare – e sa di qualcun altro a cui sia successa una cosa simile?
– Oltre a Soto, ho saputo di altri due, e ora che so di tuo zio, sarebbero quattro. Quello che ha fatto questo figlio di puttana non ha nome.
– Senza dubbio, ma dovrebbe essere arrestato.
– Dovrebbe essere ucciso.
– Lei ci parlò? Com’è che lo vide?
– Come le ho detto, lo vidi solo una volta. Mi ricordo che Eugenio González, un’altra delle sue vittime, era sicuro che fosse lui, ma il poveraccio si cacava addosso così tanto che me lo indicò da lontano. Se ne andò in esilio due settimane dopo. Mi disse che lavorava al Ministero dell’Attività mineraria. Ah, e ora che mi ricordo, mi disse anche il suo soprannome.
– Soprannome?
– Questi stronzi… si vede che eri un bambino quando i soldati ammazzavano la gente. Tutti avevano un soprannome, un nome falso. Pure i fasci.
– E qual era il suo?
– Si faceva chiamare Héctor.
Mi alzai e corsi al bagno. Chiusi la porta sbattendola e vomitai due volte.

Tornai quella stessa notte, con il bus delle undici, ancora ubriaco e con lo stomaco distrutto. Avevo la fronte coperta da un sottile strato di sudore gelato. Mi stringevano la testa con delle forbici enormi. E non era l’alcool, erano le immagini di mio padre. Lo vidi nel soggiorno di casa sua. Viveva solo. Indossava boxer e una camicia. Una sigaretta fumata a metà emergeva dai suoi baffi folti. Teneva una mano sulla pancia enorme e con l’altra teneva la cornetta. Vicino al telefono, un posacenere stracolmo. Pareva nervoso mio padre. La finestra era chiusa e il fumo era così denso che ogni movimento generava onde attorno a lui. Il suo interlocutore ascoltava una voce distorta, ma era la voce di mio padre. “So che i comunisti si incontrano a casa tua. So che hai nascosto José Araya, Miguel Ramos, Oscar Ramírez e molti altri. Basta che io parli affinché quelli del CNI vengano a cercare a casa tua. Lo sai quello che succede quando il CNI viene a perquisirti casa. E so anche altre cose. So che tua moglie pranza tutti i giovedì nello stesso ristorante e che tuo figlio Jaime va al Colegio San Luis. Ho voglia di raccontarlo a qualcuno, ma se ricevessi una valigetta con un milioncino, la voglia si spegnerebbe e mi dimenticherei per sempre di tutto quello che so”. E la conversazione continuava con altri nomi che non so da dove cazzo mi venivano in testa. Ma la cosa peggiore erano le voci di quelli che parlavano con lui. Voci della paura, interrotte, balbuzienti, tremolanti, disperate.
Ero sicuro che mia madre non avesse la minima idea del modo in cui mio padre aveva fatto i soldi. Certo, aveva assorbito la cosa senza fare domande, ma mai immaginò che la risposta sarebbe stata così macabra. Un altro inganno. Gli ultimi cinque anni erano stati una menzogna. Forse non mi scrisse mai perché era cosciente di essere un disgraziato. E tornò sorridendo: il salvatore. Per di più aveva usato il mio nome, il gran figlio di troia. Dormii un paio d’ore, sfinito da tante elucubrazioni. Mi svegliai un po’ più tranquillo. Ero un cattivo giornalista. Non avevo prove schiaccianti, solo supposizioni, alcune molto credibili, ma gira e rigira supposizioni. Avevo bisogno di un faccia a faccia. Poi, lo avrei raccontato a mia madre e avrei scritto un articolo per “El Informante”. L’avrei chiamato “Il señor Barriga”.

Ci sedemmo in terrazza. Mia madre dormiva già. Sul tavolo c’erano quattro lattine di birra e una bottiglia di vino rosso, tutte vuote. Anche una bottiglia di Johnny Walker, a metà. Nei bicchieri, whisky con ghiaccio. Mio padre prese il suo bicchiere e si appoggiò allo schienale. Sembrava rilassato. La notte era tiepida e l’aria pareva pulita. Non c’era luna. Contemplavamo, in silenzio, le luci di Santiago.
– Ho saputo delle estorsioni al nord.
– Di cosa stai parlando? – in un primo momento fece per guardarmi, ma se ne pentì e i suoi occhi restarono puntati all’orizzonte.
– Sai perfettamente di cosa sto parlando. Della gente a cui estorcesti denaro a Antofagasta, che minacciasti di consegnare al CNI – mentre parlavo, mi girai e lo guardai fisso.
Non poteva più continuare a evitare i miei occhi. Chiuse i suoi per un secondo e subito bevette il whisky in un sorso. Guardò i cubetti di ghiaccio e mosse il bicchiere. Il suono del ghiaccio che batteva contro il vetro allungò un po’ di più la durata di quei secondi. Sospirò.
– Erano altri tempi. Il Cile era un altro paese – mi rispose senza smettere di guardare i cubetti di ghiaccio – Héctor, non voglio più, non posso più continuare a mentire.
– Quindi è vero?
– Sì, è vero – mi disse, alzando gli occhi arrossati e brillanti. Non dissi niente.
– Furono anni di merda. Io ero pessimo. Ricordati di quello che successe con Verónica.
– Quello non c’entra niente!
– Quando arrivai al nord pensai al suicidio più di una volta – continuò a parlare come se non lo avessi interrotto. – Mai mi ero sentito così. Non m’importava di niente, tutte le cose buone che avevo dentro erano marcite. In quegli anni, un’anima nera come la mia aveva molte opportunità di restituire un po’ di merda alla vita. Non importava a chi – fece una piccola pausa e si versò del whisky. – Mi accorsi che quei tipi collaboravano con gli estremisti e la vidi come un’opportunità. La vita mi aveva trattato come un cane; mi sentivo legittimato a ricavare un po’ di profitto – il bicchiere tremava tra le sue mani. – Non c’è giorno in cui non mi penta di quello che feci, Héctor. Sento le loro voci disperate di notte e torno a sentire la mia, implacabile, che esige soldi una volta per tutte – cominciò a piangere, portò la mano sinistra sugli occhi, senza lasciare il bicchiere, ma io  continuavo a guardarlo senza muovermi. – Credevo davvero che loro avessero sbagliato, che la relazione con gli estremisti mi giustificava. E poi erano tipi con i soldi, non li lasciai per strada. Io lavoravo per il Governo, si parlava di resistenza, di armi dappertutto. Se li avessi denunciati, nessuno mi avrebbe detto niente, almeno a quei tempi. Poi mi resi conto che quei presunti estremisti erano solo perseguitati, poveri diavoli rifugiati in clandestinità.
– Non voglio continuare a ascoltarti – gli dissi, alzandomi in piedi.
Sentivo il rumore della sua voce, come un gemito agonizzante, che mi chiamava, quando ero già in strada. Mi misi a camminare sempre più veloce. Camminai per un’ora e mezza per Apoquindo verso ponente, scrivendo “Il señor Barriga” nella mia testa. Ero sicuro che “El Informante” l’avrebbe pubblicato. Per prima cosa, però, dovevo raccontarlo a mia madre. L’avrei fatto il giorno dopo. Arrivai fino a Tobalaba e entrai in un bar con una luce porpora. Ordinai due vodka tonic. Bevvi il primo in cinque minuti. Il mormorio della conversazione altrui e la vodka riuscirono a tranquillizzarmi. Di fronte, tre donne parlavano attorno a una pizza, ognuna con un cocktail diverso. La seconda vodka era già quasi a metà. Tornai a vederlo, acquattato tra i due pali (la traversa era immaginaria), con la sua pancia enorme che occupava metà della porta. Era difficile fare un gol a mio padre, dovevo tirare molto forte, rasoterra, attaccato a uno dei due pali, dove il suo peso gli impediva di arrivare rapidamente. Bevvi un po’ di vodka. Se avessi parlato, l’avrei perso. E questa volta sarebbe stato per sempre. Non potevo perderlo di nuovo. Bevvi il resto del bicchiere e uscii in strada. Non volevo tornare a casa mia, così camminai mezz’ora in più, fino a Manuel Montt. Mi sedetti al bancone di un bar con sedie di plastica e ordinai un whisky.

 


[1] Acquavite ricavata dalla distillazione di vino bianco e rosato, aromatico e non; è bevanda nazionale sia in Cile che in Perù (i due Paesi se ne contendono l’origine).
[2] Acronimo di Central Nacional de Informaciones, organismo di intelligence creato dopo la dissoluzione della DINA (Dirección de Inteligencia Nacional). Fu attiva tra il 1977 e il 1990. Come la DINA, anche il CNI si occupò di reprimere il dissenso, ricorrendo a sequestri, torture e assassinii.
[3] Universidad de Chile, uno dei club più titolati del Paese, insieme al Colo Colo e all’Universidad Católica.
[4] Personaggio della serie tv messicana El Chavo del Ocho, molto famosa in America Latina.
[5] Spedizione militare itinerante che subito dopo il golpe dell’11 settembre 1973 giustiziò decine di oppositori in tutto il Paese.
[6] Isola che si trova nel sud del Cile; è la più grande dell’arcipelago omonimo.