Il mondo che abbiamo vissuto
mischiato a futuro e passato
ipnagogico
ipnopompico
quel mondo lo abbiamo sognato?

 

La storia che sto per raccontarvi risale a una decina di anni fa, o almeno credo. Io e mia moglie Giada decidemmo di fare una vacanza, dopo un anno di lavoro in quegli uffici popolati da borghesucci pregni di rancore per una vita che sta andando a esaurirsi come non volevano, un paio di settimane di relax ci sembravano fondamentali. Inoltre, Giada aveva dato  alla luce da appena due mesi nostro figlio Carlo e intendevo staccare la spina prima che iniziassero a farsi vivi in lei i segni di una eventuale depressione post-partum. Ci mettemmo in macchina tutti e tre all’avventura, senza stress e itinerari prestabiliti.
Durante il viaggio, ricordo, furono necessarie più pause, dovute al piccoletto che necessitava di poppate e cambi di pannolino. L’intenzione era quella di varcare i confini italici entro il tardo pomeriggio e alloggiare nel primo motel straniero, non vedevo l’ora di godermi il cosiddetto meritato riposo del conducente.
Stop obbligatorio e già ampiamente preventivato all’ora di pranzo in una stazione di servizio. Carletto piangeva per la noia del lungo viaggio, ne approfittammo per mangiare un panino e per chiedere qualche informazione sul percorso. Stranamente però, nonostante si presentasse all’esterno come un classico autogrill affollato, il posto era deserto. Giada provò a chiedere a una vecchia signora che gironzolava col carrello all’uscita del minimarket, ma la sua richiesta di aiuto rimase insoddisfatta, forse la vecchia era sorda. Decise quindi di entrare: all’interno c’èra ancora il deserto ad accoglierla. La vecchietta sembrava essersi dileguata tra uno scaffale e l’altro. L’incredulità di Giada, e la sua accesa curiosità verso quella situazione tanto grottesca, la portarono a vagare per qualche minuto all’interno del locale fino al bagno di servizio nel quale, sul lavandino, era poggiata una rivista a fumetti dalla copertina molto colorata e accattivante: una donna seminuda in un lago di sangue con una testa mozzata in mano. Giada prese il fumetto e ne rimase per qualche secondo incantata, intanto le parve che una presenza la scrutasse alle spalle. La sensazione di gelo che la pervase in quel momento fu tangibile nel racconto che mi fornì poco dopo.
Giada aveva percepito la presenza di un uomo a pochi centimetri da lei. Se l’era prefigurato alto e dal volto indecifrabile, come fosse bendato. Il primo gesto di mia moglie non era stato di voltarsi, ma di alzare lo sguardo allo specchio che aveva dinanzi: la presenza era assente nel riflesso, ma la sua essenza continuava a palpitare dietro la schiena. Era quindi uscita di corsa con in mano ancora quel fumetto splatter, l’aveva gettato in macchina e ci eravamo rimessi in marcia.
Al calar del sole, finalmente, trovammo un motel adatto alle nostre esigenze, anche perché la stanchezza aveva ridimensionato di molto le mie pretese. Il luogo sembrava sperduto nel nulla, ma l’ultimo periodo del viaggio era stato segnato da un accentuato senso di stanchezza, non vedevo l’ora di buttarmi sul letto e poco conto diedi al fatto che il posto che ci accingevamo a calcare fosse sinistro, circondato da una nebbia che sembrava danzare intorno ai nostri corpi quasi per irriderci. L’uomo all’entrata ci accolse bene: un lungo sorriso, certamente di circostanza, gli disegnava il distinto volto. Ci diede la camera più grande. Credo fosse l’ora di cena; il tempo di disfare i bagagli e preparare il biberon per Carlo che ci mettemmo a letto. Crollammo di un sonno insaziabile, la notte, però, non fu tramortita tutta d’un fiato. Diverse volte riprendemmo il nostro stato di veglia, sempre con un senso di torpore. Il primo risveglio fu per Carletto, il bimbo strillava e si agitava per le classiche colichette che caratterizzano questa età dei neonati. Non ce ne curammo e tornammo a dormire. La seconda volta mi svegliai invece per il troppo silenzio che regnava nella stanza, era come stare in una camera anecoica, vivevo sensazioni simili a quelle che molti astronauti pare provino quando viaggiano nello spazio. Con un impeto forse estraneo alla mia volontà, mi girai di colpo verso il comodino e vidi ancora quel fumetto. Mi venne naturale sfogliarlo, ma una volta aperto mi accorsi che all’interno tutte le pagine erano state strappate. Una situazione davvero surreale, ai limiti del paranormale; chiuso sembrava intatto, ma una volta aperto rimaneva tra le mani soltanto la copertina. Giada si svegliò anch’essa come di scatto, le passai la rivista bofonchiandole qualcosa, lei la sfogliò meccanicamente, sentivo il fruscio delle pagine, ma ero troppo assopito per ragionare sulla stranezza del fenomeno, e il buio della stanza conciliava il ritorno tra le braccia di Morfeo.
Ci svegliammo all’alba, Carlo ci aveva dato il buongiorno con la sua immancabile puzza. La cacca mattutina era il nostro habitué, pulimmo il piccolo a quattro mani perché Giada sembrava troppo stanca per farlo da sola; concluse le operazioni, tornammo a dormire. Ancora un brusco risveglio qualche ora più tardi, o forse erano solo pochi minuti dopo, non saprei dirlo. Da quel giorno infatti il tempo è stato sempre un enigma. Ancora oggi una veloce azione come fare pipì mi sembra che duri delle ore. A ogni modo, mi risvegliai, e stavolta a portarmi alla veglia era stata un’incontenibile fame, non solo di cibo, ma anche di sesso. Di colpo i miei istinti più primitivi sembravano acuiti. Anche Giada si svegliò di colpo, dovevamo mangiare, ma nella camera non c’era assolutamente nulla di commestibile. La prima idea fu quella di divorare latte e biscotti di nostro figlio, ma servì solo a risvegliare maggiormente il nostro stomaco intorpidito. Io e mia moglie ci scambiammo uno sguardo di complicità, la toccai tra le gambe con forza e depravazione, una scintilla era nata nei nostri occhi, un’intuizione, poi la nostra intesa fu distratta da un piccolo sibilo proveniente forse da sotto il tavolo. Ci accovacciammo per terra alla ricerca di quella strana creatura, e con grande stupore ci trovammo di fronte a una sorta di prodigio kafkiano: un grosso scarafaggio di dimensioni simili a quelle di un pollo bello grasso e saporito. Un nuovo sguardo veloce con mia moglie prima di azionare il piano: la strategia era semplice, dividerci ai due lati del tavolo per accerchiarlo. Lo scarafaggio scelse, come prevedibile, il centro per scappare, così ci fiondammo avidamente su di lui e ne facemmo scempio. Una grossa forchettata alla testa, un’altra alla zampetta più piccola, poi a quella più grande. La bestiola urlava dal dolore, sembrava quasi che piangesse, ma la nostra fame era indescrivibile. Mangiammo quella schifosa bestiolina con una voracità e velocità tali da non darle nemmeno il tempo di morire, quando ne ingoiammo l’ultimo boccone si lamentava ancora.
Dopo la furia, la sazia quiete. Ci accorgemmo solo allora dell’eccessiva quantità di sangue che l’invertebrato aveva lasciato sul pavimento, tanto che noi stessi ne eravamo completamente imbrattati. Non ce ne curammo, una nuova fame ci stava invadendo, presi la mia donna e la scaraventai sul letto. La cavalcai per ore, o forse minuti (è l’eterno problema), poi esausti tornammo a riposarci. Tempo dopo, un nuovo risveglio. Stavolta fu una ribellione, stavo passando l’intera vacanza a dormire. “Relax va bene”, pensai, “ma qui si esagera”. Mi alzai dal letto come in trance e provai a uscire fuori dalla stanza. Il sonno era ancora forte, le gambe pesanti e incerte, ma la mia volontà si stava ribellando con tutte le sue forze a quella dittatura del corpo disteso. Uscii finalmente fuori, una boccata d’aria nella fredda notte di “chissàddove”. La nebbia era ancora lugubre e inquietante, il silenzio accentuava una sorta di rumore di fondo che da tempo sembrava presenziare nella mia testa, ma che solo adesso stavo notando. Era come il rumore di un fòn, un suono che pare sia molto simile a quello che i bambini ascoltano nel grembo materno e che dà un senso di pace e di eterna quiete. Per alcuni mesi dopo la nascita, infatti, i piccoli associano ancora questo suono alla fase prenatale e spesso un aspirapolvere o un asciugacapelli sono l’unico modo per acquietarli e farli tornare a dormire. Me ne stavo lì fuori a cercare di capire da dove provenisse questo rumore tanto accogliente, gli andai letteralmente incontro, quasi come ipnotizzato. Poco dopo mi ritrovai di nuovo disteso sul letto della mia camera. Ero dentro la vagina di mia madre.
Quando l’albergatore venne a bussarci, eravamo ancora travolti dalla stanchezza. L’uomo si dimostrò comprensivo e paziente nonostante lo avessimo fatto attendere dietro la porta per chissà quanto. Non fece alcun problema per il sangue su pavimento e lenzuola, ricordo di una focosa notte di sesso. «Questi scarafaggi sono l’unico inconveniente del posto» disse, poi aggiunse: «diciamo che sono il piccolo prezzo da pagare per una vita tranquilla». Lo lasciammo che si accingeva a preparare l’occorrente per pulire la camera. Mentre uscivamo dal motel, nuovi vacanzieri facevano il loro ingresso, due coppie di signori già in là con gli anni, tra loro mi sembrò di riconoscere la vecchietta dell’autogrill, ma ero troppo poco lucido per affermarlo con certezza. Ci rimettemmo in macchina con l’intenzione di tornarcene a casa, quella vacanza era stata rilassante, ma allo stesso tempo angosciante. Sia io che mia moglie avevamo la sensazione di aver fatto qualcosa di profondamente sbagliato, leggevo nei suoi occhi la preoccupazione di un senso di colpa ancora, e per sempre, ignoto. Accesi il motore, pronto per il nuovo viaggio, ma di colpo l’uomo del Motel mi si parò davanti. «Avete dimenticato questo» disse porgendoci il fumetto splatter. «Fa nulla, lo tenga lei» rispose mia moglie, e voltandosi verso di me mi accarezzò il cuore con un dolce sorriso.
Il viaggio di ritorno fu sorprendentemente leggero, fummo addirittura stupiti del silenzio che regnava in macchina, una pace stavolta energica e rassicurante, non più permeata da quell’oblio soporifero che aveva caratterizzato tutta la nostra vacanza.
È passato del tempo da questa strana storia, ma ancora, seppur confuso, ne conservo il ricordo. A volte, di notte, vado in bagno e accendo il fòn. Il suono mi accompagna nel buio, lontano dallo spazio asfissiante di questa vita sprecata, ma un ricordo indecifrabile e perenne mi attraversa lasciandomi un vuoto, una sensazione sinistra, una mancanza straziante come un’insuperabile lutto. So che anche Giada ha questa terribile sensazione, sento la sua voce flettersi tristemente quando il ricordo ritorna, vedo i suoi occhi spegnersi quando qualcosa le fa sovvenire la colpa che abbiamo sepolto. Un mistero conserviamo dentro, inconfessabile per entrambi, eppure entrambi siamo complici dello stesso segreto. Di cosa parlo non lo so, quel che è certo è che a volte vividamente mi si para davanti l’immagine di me nel ventre materno, sicuro e difeso dal calore del sangue vitale. L’itinerario preciso di questa terribile storia rimarrà per sempre sepolto nel limbo della nostra coscienza. La notte ritorna serena, l’oblio cela i  nostri impronunciabili peccati e ci assolve.