La storia del pensiero e della parola occidentali inizia con un inghiottimento. È un mito e in quanto tale il tempo reale, circolare, s’intreccia con un tempo metacronico, che potrebbe essere ora o potrebbe non essere affatto, ma che taglia trasversalmente, incide ferite – scatena urli. D’altronde esiste oggi un paradosso più dilaniante del tempo?

L’inghiottimento.
Nel terrore che si ripetesse l’evirazione di cui era stato artefice nei confronti di Chronos – il tempo circolare, il buco nero, tutto ventre – dopo  che questi ebbe mangiato i suoi figli primordiali, inghiottendoli per oscurare il ricordo della loro presenza, Zeus Eviratore decise fosse giusto premunirsi o almeno chiedere consiglio. Oramai la sua forza – simbolo di sovranità, certo, ma fondata ancora solo sulla violenza – era stata provata più volte, eppure solo quella non bastava a legittimare il suo potere, né ancora di più a tenerlo salvo. Inoltre, Zeus era consapevole del fatto che altri avrebbero potuto usare contro di lui lo stesso farmaco – una medicina è un inganno, dice il mito –  con cui aveva liberato i suoi fratelli dal ventre del padre, facendoglieli vomitare. Aveva bisogno di un consiglio materno – d’altronde egli è Zeus ed è vivo per inganno della madre Rea! – Fu allora che seppe che la cosa migliore da farsi fosse unirsi a Metis Prudente, incarnazione dell’intelligenza astuta, che fonda ogni sua mossa sulla metamorfosi, sul doppio, pensa i suoi pensieri e quelli di chi gli sta di fronte. Metis è il farmaco – e così il cerchio si chiude.
Eppure, anche dopo questa unione (il valore del matrimonio è quello di unirsi, ma di restare comunque due identità separate) il pericolo era sempre lì davanti agli occhi di Zeus: i suoi figli e Metis in persona, sua moglie. (Le famiglie – oggi si parla di catene di cromosomi, di legami chimici, di adenine, citosine, spalmatine di DNA – restano quello che sono sempre state: un groviglio di motivi sottaciuti, di tempi lenti e meccanici, di spazi relativamente democratici.)
Ma torniamo ai due sposi, e soprattutto ai crucci di Zeus Inseminatore.
Di fatto immediatamente Zeus ingravidò Metis, senza sé né ma, senza dire una parola. Eppure ancora non era soddisfatto, la donna lo preoccupava – e se l’avesse tradito? Se avesse fatto con il figlio che portava in grembo, ciò che Rea aveva fatto con lui, occultandolo, fino al giorno in cui come figlio fu in grado di vendicarsi del padre? Zeus senza cazzo, come il padre – una macchia indelebile nel suo carnet di appuntamenti! Bisognava trovare una soluzione, che fosse quella definitiva.
Esclusa la forza, non restava altro che l’intelligenza. Zeus sfidò Metis in un agone di metamorfosi. Non avrebbe potuto fare altrimenti, per conquistarsi quella invulnerabilità che gli avrebbe permesso di sfuggire a una morte indegna. Metis, orgogliosamente, accettò la sfida. Prima si trasformò, su richiesta di Zeus, in un leone che sputa fuoco. Innanzitutto bisognava provare la mostruosità dell’avversario, come da tradizione. (È da notare che Zeus, quasi inattivo, richiede non ordina, anche nelle parole dunque egli inverte il suo modo di agire.) Poi chiese a Metis se fosse capace di trasformarsi in una goccia d’acqua… suspense, violini stridenti e la voce della donna che rispose “si!”. Zeus sorrise, aveva vinto facile. Di fatto, Metis si trasformò in goccia e Zeus Ingoiatore la tracannò.

La figlia di Metis.
Una medicina è un inganno. Zeus lo sapeva fin troppo bene, e certo non aveva neanche dimenticato che Metis al momento dell’inghiottimento era incinta. Quindi, non era finito niente – e da allora non sarebbe mai finito niente, perché ogni cosa che qui sarebbe finita, anche solo per decreto, sarebbe ricominciata altrove, prima ancora che si trovassero le parole per definirla.
La storia della frattura in effetti è breve. Zeus, un giorno, ebbe un forte mal di testa. Com’è possibile, sicuramente si chiese, che mi accada ciò? Era un mal di testa a grappolo, senza dubbio, di quelli che potrebbero mandarti al manicomio (se ancora ne esistesse uno, che non fosse così infinitamente ampio come la realtà, la società). Bisognava intervenire. Chiamò a sé Prometeo e Efesto: il primo lavorò di visione, tracciò l’angolo esatto dove bisognava incidere; l’altro con l’ascia possente lavorò di industria e spaccò la testa del padre, liberandolo dal dolore. Ora si capisce che se Zeus non avesse preso la decisione che allora adottò, quel dolore sarebbe diventato malattia, tumore, morte – la Moira oscura. Ma questa è anche la storia di Zeus Partoriente: dal suo cranio aperto, che come un secondo utero aveva contenuto l’utero di Metis e la figlia che portava in corpo, venne fuori Atena, armata di intelligenza terrorizzante. L’inganno di Metis, così, aveva vinto sull’inganno di Zeus, dato che il multiforme figlio di Chronos in fin dei conti traccannandola non aveva fatto altro che mettere in luce ancora una volta – se non lo si fosse ben capito – la sua peculiare attitudine, sia vitale che cognitiva: la violenza. Il cerchio ancora una volta si chiude.
E subito si riapre. Atena, come tutti gli altri figli, ora aveva bisogno di onori, di gratifiche. Atena – non dimentichiamo – era una figlia così temuta (ossia stimata) dal padre, che più volte proverà piacere a saggiarne l’intelletto, gioendo della tenacia e della caparbietà della ragazza.
La dea scelse la verginità per tutta la sua esistenza, ben lontana dalla abitudini paterne. Mai amò o si fece piacere gli altri dei, in qualunque forma si presentassero. A lei piacevano gli olivi solitari, resistenti, che sfidano la pietra e il vento. E molti ne coltivò, con sapienza. (E quale astuzia coltivare olivi!) Nessuno le disse niente, lei scelse l’albero più difficile, più solitario. Lo relegò sulle coste, alle intemperie. Le sue radici dovevano essere come la sua mente, prudenti e pazienti. E l’olivo crebbe sulle isole scabre, sui promontori isolati, distante uno dall’altro. Certo è che qualcosa dell’eredità paterna pur doveva apparire manifesto nella vita della giovane, e la coltivazione non rientrava nelle attività del padre, neanche in quelle ludiche. La questione si risolse nella passione che Atena riversò verso i mostri. E quale mostro più tremendo poteva scatenare la passione di Atena – se non l’uomo? Quando Atena Solitaria s’accorse che nell’uomo, oltre alla forza, alla resistenza, viveva anche quel barlume di astuzia, di intelligenza che medita sull’intuizione, di cui lei era portatrice sana, decise che avrebbe preso a coltivarlo con la stessa costanza, con la quale aveva curato gli olivi – anzi anche di più, gli avrebbe insegnato il pensiero molteplice, la sua arte segreta.

L’ulivo di Itaca
Quando Odisseo, l’ultimo favorito della dea, ritornò finalmente a Itaca ricca d’olivi, non riconobbe la sua patria, che era avvolta da una fitta nebbia. Subito immaginò di essere giunto in un altro luogo inospitale, ingannato proprio dai pacifici Feaci, che pure facevano sacrifici a Poseidone, ma di cui subirono l’ira che placa la discordia, soltanto perché c’erano di mezzo Atena e il suo progetto di uomo, l’amato Odisseo. (La decisione di salvarlo avvenne sempre di nascosto, per inganno o meglio consiglio di Atena di sfruttare il momento opportuno, poiché Poseidone non era presente a una riunione di famiglia sull’Olimpo, ma era andato nell’Etiopia bella, Mama Africa, a sollazzarsi un po’). Insomma la nebbia era impenetrabile con lo sguardo, qualche dio gli oscurava la strada. Poi un ragazzo apparve, all’improvviso e come se quella visione fosse ciò che Odisseo aspettava per sentirsi di nuovo sé stesso, subito le sue parole furono cordiali e benevole. – Una parola benevola è un inganno, continua a dire il mito. – Odisseo lo sapeva bene, ma ancora meglio lo sapeva Atena, il ragazzo. (La gioventù è un inganno, diranno qualche secolo dopo i discendenti di Odisseo.) Il giovane stette al gioco e gli chiese chi fosse, che cosa ci facesse lì a Itaca, Odisseo s’inventò naufrago – perché una condizione evidente non si può negare, se può arrecare un beneficio – ma cretese. Atena non aspettava altro, le piaceva ridere raramente e solo per compiacersi dei suoi olivi maturi. “Sei un imbroglione – gli disse, mentre ancora rideva e dissolveva la nebbia e tornava femmina – continui ad ingannare, ma certo non puoi irretire me, perché tu mi appartieni!”. Le parole di Atena furono la lode che le fatiche di Odisseo meritavano.
Il riconoscimento era avvenuto, la parola per poco divenne piuttosto vera. Poi, però, l’inganno non poteva finire – si è detto che non sarebbe mai più finito – e allora: adelante! Odisseo aveva un’ultima sfida: Penelope Tessitrice.
L’arena era pronta. I due contendenti, prudenti. Spettatori, Telemaco e Euriclea. Regista, Atena.
(Poco prima di scendere in contesa, Penelope volle rassicurare Telemaco: se Odisseo era colui che egli diceva, solo lei avrebbe potuto accertarlo. C’era un segreto, un mistero, che solo loro due conoscevano)
“Ho sonno preparami il letto, vecchia” disse Odisseo spazientito a Euriclea quando vide che la moglie non riconosceva il suo corpo fatto più giovane da Atena. Per una volta la sua prudenza vacillò. Atena sorrise – anche un ulivo viene scosso dal vento o bruciato dal sole, pensò.
“Dormi, se vuoi!” sentenziò Penelope. “Porta il letto fuori, Euriclea, è lì che potrà riposare.” aggiunse.
“Com’è possibile? Non si sradica un ulivo con tanta facilità.” Furono le parole stupite di Odisseo e Penelope si sciolse in lacrime. – Un riconoscimento è un inganno. –
Infine, Atena Risolutrice decise che i due avrebbero necessitato di più tempo per raccontarsi i loro vicendevoli inganni, per riversare tutta la memoria possibile uno nella mente dell’altro – e ritardò così il sorgere del Sole.
Odisseo raccontò a Penelope i mostri che aveva visitato, l’immensa paura che il mare nero incuteva nei suoi uomini, la disperazione che l’afferrava continuamente di un eterno naufragio. Eppure tacque di Calipso, che l’aveva occultato, tentando invano di indebolire la sua costanza, di costringerlo a dimenticare. Odisseo era l’ultimo uomo a viaggiare nella materia stessa di cui è fatto l’inganno: mostri cannibali e monocoli; uomini mangiatori del Loto della perdizione; donne che ammaliano e cancellano, che cercano nozze e promettono un’eterna felicità; il mare nero e profondo, con i suoi occhi e le sue bocche voraci e rocciose, ancestrali.
A Odisseo Polymetico, quindi, spettò il compito più difficile: far sì che in lui – nella sua parola – sopravvivesse la memoria della grandezza di Atena, che fosse feconda nel mondo la forza che aveva creato il mondo stesso, nella sua enunciabilità.

O mythos deloi oti…[1]
Restano due cose: la memoria e la morte. Una delle due è un inganno.


[1] “Il mito dimostra che…”