Nei tempi antichi era uso comune condividere la propria esistenza con i cari defunti, o anche con i defunti in generale, quelli cattivi, quelli sconosciuti, quelli che semplicemente erano morti e che sembravano non sopportare l’idea che ci si dimenticasse di loro. Per questa ragione, anche se le modalità non erano uguali ovunque, si cercava in tutti i modi di rendere omaggio non solo ai morti, ma alla morte stessa, ritenuta decisamente suscettibile, essendo fra le entità semidivine quella peggio considerata: le si scrivevano poesie, le si dedicavano statue, si cercava di andare nell’aldilà con qualche dono da offrirle, e non solo.
Come dicevo, anche i morti – lo zio, la nonna, il vicino – anche loro erano capaci di giocare brutti scherzi, per cui anche con loro bisognava avere un certo riguardo: lasciargli da mangiare, farli andar via ben vestiti, continuare a vivere come se non se ne fossero mai andati… Insomma, la morte e i suoi compari partecipavano attivamente al quotidiano e chi provava a dimenticarsene veniva immancabilmente punito.
Poi questo rispetto per la vecchia con la falce, d’un tratto, sparì.
La vita moderna aveva sostituito la paura della morte con la paura del campare (pure se, bisogna dirlo, non è che prima si campasse benissimo), e chi non aveva la preoccupazione di dover sopravvivere era troppo indaffarato a rimanere ricco e a godersi le proprie fortune per perdere tempo dietro certi brutti pensieri.
Anche la scienza, occorre dire, aveva dato il suo bel contributo alla cosa. Erano in pochi quelli che ancora nutrivano qualche speranza in una esistenza ultraterrena, ma soprattutto a tutti pareva più conveniente dedicarsi alla vita, che, nonostante tutto, rimaneva abbastanza certa, pure se condannata a finire. Era rimasta l’usanza della sepoltura, delle lapidi, anche delle messe per qualcuno, ma il giorno dopo era tutto dimenticato, e quando non era dimenticato, allora intervenivano gli psicologi e gli psichiatri a farti tornare sulla retta via, perché affliggersi andava anche bene, ma affliggersi troppo era diventato decisamente di cattivo gusto.
In questo vortice di materialismo non era però entrato il famoso vedovo Primo Ragone, famoso per le vicende che mi appresto ora a raccontarvi.

In un normalissimo pomeriggio di settembre, dopo svariati ricoveri e dopo aver consultato i più illustri medici della zona, la signora Ragone, moglie di Primo, aveva deciso che era giunta la sua ora, e senza troppe cerimonie smise di respirare, non si sa se per dispetto, come quando faceva da bambina per allarmare i suoi genitori, o se perché stanca di tutti quei camici bianchi che le giravano attorno; comunque a un certo punto i suoi polmoni si fermarono, e con essi il cuore e il cervello.
Anche se in fondo se lo aspettava, il neo vedovo Primo Ragone ci rimase molto male. E dire che aveva fatto di tutto perché lei stesse bene: le cambiava i fiori nel vaso ogni mattina, le preparava i cibi più raffinati, le leggeva i romanzi migliori e le dava tutte le medicine che i medici gli dicevano di darle.
Tutte le sue attenzioni, però, non erano servite e si era ritrovato di colpo vedovo e senza nessuno cui portare i fiori freschi la mattina.
Decise che i fiori glieli avrebbe portati comunque sulla tomba.
Ogni mattina usciva di casa all’alba, andava a raccogliere i fiori più belli e, si dirigeva verso il cimitero, continuando a domandarsi dove avesse sbagliato e come mai le cose non fossero andate come dovevano andare. Arrivato alla lapide, salutava sua moglie con un leggero toc toc e iniziava a parlarle dell’inverno alle porte, della difficoltà di trovare dei fiori a gennaio; e poi finiva sempre lì, sempre sul suo tarlo: come mai sei morta?
I medici, con tutte le loro cure e i risultati che pretendevano di ottenere con esse, avevano trascurato di ricordare all’anziano signore che la morte, vuoi o non vuoi, prima o poi arriva per tutti, e una cura per la morte loro ancora non l’avevano trovata, per quanto si dessero da fare.
Per questo motivo Primo si era convinto che la morte fosse una sorta di errore, una burla da cui si può venir fuori se solo ci si rende conto per tempo del tranello in cui si sta per cadere.
Aveva iniziato a documentarsi sul corpo umano: come funzionano i reni, il cuore e tutti gli organi e i tessuti. Il cervello lo costrinse ad uno studio più approfondito, ma alla fine era riuscito a farsi una idea abbastanza chiara di come funzionassero i corpi, di cosa li tenesse in vita e cosa li facesse invecchiare.
Aveva capito che la vecchiaia era uno degli ostacoli più difficili.
Iniziò a chiedersi quali ne fossero i sintomi: rughe, capelli bianchi, dolore alle ossa. Poi passò a studiarne le cause. Il suo obiettivo era quello di riuscire a scovare la causa principale per fermarla definitivamente.
Aveva scartato il cibo, l’acqua, l’aria; aveva provato a indagare i rapporti umani, per vedere se in qualche modo potessero influenzare le cose, ma era un campo troppo contraddittorio e lasciò perdere anche quello.
Ogni giorno osservava tutto quello che gli capitava sotto al naso: foglie, scarpe, strade, animali… Osservava e farfugliava fra sé di entropia, di desiderio di quiete, di amore, di cadaveri; guardava il cibo e se lo figurava in putrefazione nel suo stomaco, incontrava un bambino e cercava in lui i primi sintomi di invecchiamento, e così per tutte le cose: dove c’era la vita, lui vi scorgeva la morte, ben rannicchiata. Così, mentre gironzolava guardando tutto quello che incontrava sul suo cammino, ebbe finalmente un’illuminazione: le ombre.
Il mondo intero proiettava continuamente ombre, tutte le cose, tutti gli esseri viventi, tutti quanti erano seguiti da quella lugubre lingua nera che scimmiotta le nostre esistenze, tutti si portavano dietro quel terrificante memento mori.
Decise allora che il suo corpo non avrebbe più proiettato un bel niente.
Comprese che, come ogni cosa, anche la luce generava il suo opposto, e dunque era proprio la luce il nemico da combattere.
Non poteva averla vinta sul sole, va bene, ma poteva comunque evitarlo.
Non uscì più, non accese più lampade e altri alleati del nemico, guardava la televisione avvolto nelle tenebre più fitte e ben lontano, per evitare che anche solo un piccolo lembo di luce potesse sfiorarlo mandando così in rovina i suoi piani.
Sapeva che a mezzogiorno i corpi non proiettano ombre, e ogni giorno a mezzogiorno si metteva sulla porta ad assaporare i raggi del sole, per poi rientrare frettolosamente e non senza eccitazione nella sua cupa dimora.
L’idea che a un’esistenza del genere fosse preferibile comunque la mortalità non lo sfiorò nemmeno, era troppo impegnato a eliminare l’ombra dalla sua vita per riflettere sul senso effettivo di quanto stesse facendo. Ogni tanto gli veniva voglia di accendere una candela, di uscire nel pomeriggio, di rivedere i fiori, ma poi si diceva che erano tutte tentazioni della morte, che i ciechi non vedono niente di tutto ciò eppure vivono felici lo stesso.
In verità c’era qualcosa che ogni tanto lo costringeva a mettere il muso fuori casa e a ricorrere talvolta alla luce elettrica, ovvero la spesa e le faccende domestiche, e una volta al mese, non di più, alle sei del pomeriggio chiamava un taxi e andava a fare una spesa calcolata per un mese esatto: prendeva pasta, verdure, carne, cibo in scatola, detersivi, medicine, pagava le bollette, ritirava la pensione, faceva tutto e poi calcolava quante ore di vita quelle necessità gli sottraessero ogni volta.
Un giorno a settimana, invece, si dedicava alle pulizie, sempre di sera perché era convinto che la luce elettrica fosse meno dannosa di quella naturale: accendeva le luci necessarie e rapidamente sistemava tutto.
In un certo senso sembrava che le sue teorie avessero un qualche fondamento, perché da quando aveva iniziato la sua dieta del buio, non una ruga si era aggiunta al suo vispo sguardo di novantenne, ma suppongo che un bravo dermatologo sarebbe in grado di trovare una giusta spiegazione nella non esposizione ai raggi solari; eppure, anche lasciando da parte la dermatologia, l’impressione che Primo avesse varcato la soglia che separa i comuni mortali dagli dei non è del tutto assurda.
Certo, adesso si trovava lì, fra l’immortalità e il nulla: non è poi cosa tanto comune per un uomo, anziano, il ritrovarsi di colpo ad aver vinto la morte, o almeno ad avergliela fatta per un po’.
Per un po’, sì, perché la morte, o l’Ombra, come la chiamava lui, non si fa certo prendere per il naso dal primo che passa. Un giorno, mentre trasgrediva al suo voto di oscurità per le pulizie settimanali, Primo fu colto da un brivido, un lampo breve ma intenso che gli attraversò tutta la colonna vertebrale su su fino alla gola.
Si guardò intorno preoccupato, misurò la sua ombra e, non essendo questa diversa dal solito, si tranquillizzò. appena riacceso l’aspirapolvere, eccolo lì: il brivido, no, una voce che sghignazzava.
La televisione era spenta e anche la radio. Fuori sembrava non esserci nessuno, ma si convinse che fossero i soliti ragazzini del quartiere che ogni tanto si davano a questo tipo di scherzi.
«Questi stupidi mocciosi, aaah se li acchiappo! I vostri genitori non sono in grado di educarvi? Be’, vorrà dire che ci penserò io!»
E di nuovo accese l’aspirapolvere, questa volta però prestando orecchio a ogni minimo rumore.
Aveva appena finito col pavimento della sala che ecco di nuovo quella voce.
Si voltò molto lentamente, col cuore in gola e il piumino della polvere ben stretto fra le mani, e facendosi coraggio intimò:
«Chi va là?»
«Ohé, Primo, da quanto non ci si vede?
«Chi sei? Come sei entrato?»
Continuava a stringere il suo piumino, schiacciandosi sempre più contro gli scaffali della libreria, e si guardava attorno non riuscendo a capire dove fosse l’intruso.
«Credevi d’avermela fatta, vero? Credevi che bastasse spegnere qualche luce, misurare, fare due conti per fregarmi? Eh no, ci vuole ben altro, occorrono armi più sofisticate. Devo dire, però, che mi hai stupita, sì, mi hai quasi commossa con tutte quelle manovre, mi ero anche detta: “Oh, ecco uno che davvero tiene a me”, ma, anche se a malincuore, ho dovuto mettere da parte i sentimentalismi ed eccoci qui. È il mio mestiere, sai? Mica posso farmi intenerire solo perché uno è ostinato! E non sai quanti ci hanno provato prima di te, tutti a tirar fuori teorie strampalate: quello mangiava solo cose crude, quell’altro non mangiava affatto, un altro si ostinava a bere ogni mattina al sorgere del sole non so che intruglio… Tutti originali voi, eh, ne escogitate ogni giorno di sorprendenti!»
Mentre lo strano ospite si lasciava andare ai ricordi e gli raccontava di tutte le volte che aveva dovuto disincantare l’ennesimo mortale, Primo faticava a riaversi e si chiedeva se non fosse il caso di chiamare un medico.
Ormai quasi rasserenato dall’idea di essere semplicemente impazzito e non sotto la minaccia di uno squilibrato,  appoggiò il piumino sul tavolinetto accanto alla poltrona dove un tempo leggeva, e trascinandosi con le sue ciabattine logore, si diresse verso i cassetti dove teneva la rubrica telefonica.
«Deve essere qui, lo aveva segnato… D… d… dottore, eccolo!»
Stava per alzare la cornetta quando l’Ombra, resasi conto di parlare da sola, sgattaiolò dalle spalle dell’anziano e si fissò sull’apparecchio:
«Hei! Ti sembra il modo? Sto parlando con te!»
«Aaah, lo so, per questo chiamo il dottore.»
«Ma quale dottore? tu stai benissimo!»
Mentre la Morte si domandava cosa avesse sbagliato per essere presa così poco sul serio, Primo aveva già preso appuntamento col medico, il quale, preoccupato ma anche incuriosito dalla situazione, si sarebbe precipitato il giorno stesso, non fosse stato per i pazienti e le scartoffie che lo attendevano in studio.
La situazione però andava complicandosi. Doveva trovare un diversivo, qualcosa che la tenesse buona fino all’arrivo del medico, bisognava distrarla, fregarla un’ultima volta, quand’ecco che la soluzione venne da sé:
«Sciocco che sono!»
«Che hai?»
«Zitta tu e dammi una mano.»
L’Ombra, che era comunque incuriosita da quel vecchietto, decise di risparmiarlo per qualche minuto ancora per vedere cosa avrebbe combinato negli ultimi istanti della sua vita.
Tempo prima aveva serrato tutte le uscite: la porta sul retro, le finestre, spiragli di ogni tipo, nessuna toppa gli era sfuggita. Aveva lasciato libere solo la finestra della sala e la porta d’ingresso.
Adesso occorreva riuscire a bloccare anche quegli ultimi due ingressi senza destare sospetti.
Prese lo stucco da un mobiletto nel corridoio e iniziò a impastarlo; si diresse verso la finestra, prima diede una bella passata, vi mise delle travi e poi fissò il tutto con una seconda passata di stucco, mentre la Morte, ignara, lo aiutava servizievole.
Fece lo stesso con la porta d’ingresso, sempre con stucco e travi e sempre aiutato dalla sua nuova conoscente.
Il lavoro era terminato.
Con le sue pantofoline, corse verso l’interruttore della luce, mentre l’Ombra, che finalmente aveva capito le intenzioni di quel vecchio furbastro, aveva cercato inutilmente di fermarlo.
Calò il buio più nero e poi più nulla, tutto svanì come in un sogno. Per tutta la notte i vicini lo sentirono ridere e gridare:
«Te l’ho fatta, vecchia bacucca, te l’ho fatta!»
I soccorsi arrivarono il giorno dopo.
Si era murato in casa, e quando i pompieri riuscirono ad aprirsi un varco per tirarlo fuori, lo trovarono sotto a una pesante coperta: urlava di lasciarlo stare, che avevano rovinato tutto, e scalciava e mordeva, si dimenava. Era fuori di sé; vivo.

In copertina: Cristina Comparato, Capuzzella, 2016.