Noi crapuloni mai sazi siamo audaci divoratori di poesia – e di sicuro qualcuno starà storcendo il naso. Bene, lettore, se sei tu che storci il naso sappi che a noi anche i nasi storti fanno piacere. Non vogliamo farci mancare niente, proprio perché siamo nessuno (meglio anaforizzare il concetto!). Il testo non ha tutti i crismi della critica, della retorica appassionata (che già di per sé è una presa in giro), ma vuole essere un invito alla riflessione.

Poi c’è la questione della poesia.
Due punti di vista.
Il primo: Friederich Nietzsche in “Così parlò Zarathstra”, cui senza dubbio la cultura europea deve il suo gusto “posticcio” (meriti e demeriti si bilanciano nelle sedi filosofiche – soprattutto sulle sedie filosofiche), il baffuto polacco sosteneva che la poesia reca con sé l’inesauribile forza dell’inganno. Dietro quei baffi egli ride dei poeti, ride di sé. (Non ne faccio una questione morale: quale poeta è mai stato umile? “I poeti mentono troppo” c’è scritto in Omero – e poi in Zarathustra –: invito alla poesia, altro che low target o slow food).
Il secondo: ne “La tentazione di esistere” Emile Cioran sostiene che la poesia appartiene alle epoche in cui lo spirito nasce o declina – insomma dove il quantum di gioia e di sofferenza inestinguibilmente si equipara. – Tra i due estremi si pone la prosa, ma questo è un altro discorso. Teniamoci sulla poesia. – E mi viene da pensare che l’amarezza di Cioran sta proprio nella mancanza di baffi. Forse con qualche pelo in più avrebbe anche lui scritto un verso o due… ma non c’importa.
Come non ci interessano altri punti di vista, già due binocoli, quattro occhi addizionati ad altrettante lenti, possono bastare.
Vengo, dunque, a Penelope e ai suoi Proci (o porci? Allora la poesia sarebbe Circe?).
I poeti del Ventesimo Secolo, usciti dalle guerre, dai dopoguerra, ancor prima dalle avanguardie (che in fin dei conti non vedevano poi così lontano, ma questo è astigmatismo personale, nessuno si offenda o si?), i poeti del Sessantotto, del Settantasette, i poeti Comunisti, i Fascisti, i Sentimentalisti Europei, i Nichilisti Russi, tutti questi, i nomi dei quali sono baluardi a difesa della loro celebrazione, erano becchini. Ora, lettori avventati di questa postazione di lancio, vi chiederete i nomi, e se non ve li state chiedendo tanto peggio – per voi. Eppure, prima ancora dei nomi, è necessaria una spiegazione alla loro trasformazione da poeti (artefici, filologicamente parlando) a becchini appunto. Nei cimiteri della vanga-lingua, con cui hanno scavato fosse comuni per morti insoliti, si sono aggirati, perché anche l’ultima goccia di sangue s’estinguesse, perché dell’ossuario delle Muse si potesse dire altrettanto bene quanto della loro primitiva bellezza carnale, sanguigna. Resta ancora oscura ubicazione del cimitero, forse perché loro stessi, meno onanisti dei necrologi di quanto si pensi, hanno dimenticato il luogo. Eppure di indicazioni se ne possono trovare, basterebbe rimodernare ancora, magari usufruire della tecnologia satellitare.
Ma è meglio restare coi piedi per terra.

Se penso – e ci penso di continuo, quasi ossessivamente – a quanto puzzi di morte “andare a capo”; se penso a Pasolini che lascia cantare una scavatrice e in essa vede la disgrazia di un popolo; se penso a Ungaretti che si dispera in tre parole e poi va quasi in astinenza da Dio; se penso ai calligrammi di Apollinaire; se penso alle stesure canzonieristiche di Saba; se penso a Sanguineti (ma forse a lui è bene che non pensi!); se penso a Montale saturo di tristezze trasposte come grandi enigmi della sensibilità; se penso a Pavese; se penso all’intera tradizione, cui ognuno di loro ha dato un calcio, per ritornarvi come figli prodighi, come angeli caduti (e che cosa ha insegnato loro Baudelaire? Che cosa Rimbaud? Non è col Diabolus che in Europa si fa poesia?); se penso a tutti loro, come posso non sentire il tanfo del cimitero, vedere i cipressi dove si nascondo le loro civette, e i fiori – santa allergia! – che imbaldanziscono le loro giacche raffinate?

Qualcosa è andato storto! Abbiamo mandato giù un boccone amaro, abbiamo atteso e sperato, insieme a Penelope – e invece siamo stati illusi da Circe.

E quindi: dove siamo? Nell’ascesa o nel declino? Possiamo davvero prestar fede (a patto che ce la restituiscano) a chi ancora versifica?

A. Q.