«È fama che dopo aver cantato la guerra di Troia, Omero cantasse la guerra delle rane e dei topi. Fu come un dio che avesse creato il cosmo e poi il caos [1]».
«E allora?», chiede il Conte, e tanta sfrontatezza dinanzi al Cieco è meno un vezzo di gioventù che di nobiltà. “Si può essere giusti, se non si è umani [2]”, pensa il ragazzo, allargando il colletto stretto della camicia, “ma questo cieco, ripiegato com’è sul bastone, così stanco, non è un poeta; a stento è un filosofo”.
«Taci, giovanotto, e lascia dire. Guarda gli occhi, piuttosto, se proprio non sai ascoltare: gli occhi del Cieco, in tutto questo buio, sono gli occhi chiusi sull’eccesso del disastro [3]. Lo capisci, questo?»
È così, il Cane Rabbioso: sempre in preda a crisi sismica; e così com’è, a stento, nel consesso, si tiene stretto ai braccioli della sedia. Il Cieco glielo ripete sovente: “tieniti, o cadi”; e il Cane Rabbioso si tiene, tremebondo come terra flegrea.
«Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale [4]», prosegue il Cieco, «eppure lo vediamo: essere immortale è cosa da poco [5]».
«“Noi” lo vediamo, vecchio Cieco!» sbotta il Conte. Il Cieco pesa sul bastone come bestia malata e arresa.

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La stanza, un perfetto cubo nero, con tavolo rotondo al centro, ospita quattro sagome bianche: il Cieco, il Conte, il Cane Rabbioso e il Senatore. Tace quest’ultimo, sigaretta alla mano e sguardo pensoso rivolto al buio circostante. “Chi siamo? Dov’è questa stanza? Cosa facciamo?”, queste sono le domande cui il Senatore non trova risposta, lui proprio, che tanto si è interrogato su taluni irrisolvibili misteri della terra sua, lui proprio, illuminista almeno quanto il Cieco è illuminato.
«Basta!» sbatte i pugni sul tavolo, il Cane Rabbioso: «Chiamiamo il vivo!» Insieme al Conte e al Senatore, avvicina la sedia a quella del Cieco.
Ora sono tutti in contatto attraverso il bastone del Cieco, il bastone di San Patrizio.
«Cosa abbiamo da chiedere al vivo? Cosa, se è vero – come è vero – che l’uomo è solo un soggetto vuoto di errori [6]?» dispera il Conte. «Errori… datemi conto degli errori, la nostra mente è porosa per l’oblio [7], sono gli errori a legarci ai vivi» chiosa il Cieco, e solo allora, volto al vuoto, spalanca le sacche rugose: le palpebre.

Alfredo Zucchi: «Dove sono? Chi siete?» (dalle labbra del Cieco: il medium).
Il Cane Rabbioso: «Taci, giovanotto! Ti basti, di noi, sapere ciò che viviamo: le belle lacerazioni delle isole vulcaniche [8]. A noi le domande, a te le risposte».
Il Conte: «Estimado Alfredo. Tu sei vivo, ancora, e questo è vero. Noi, però, sappiamo che vivo è l’errore, e l’errore cerchiamo. Fra gli errori dei vivi il più vivo e mortifero, l’errore assassino e vivificante, è il plagio: il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Stringe da vicino la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta [9]. Conosci, tu, il plagio?»
Alfredo Zucchi: Non conosco altro da quando tutto questo è cominciato – un giorno, bambino per le scale, ripetendo la stessa parola fino a seppellire il significato dentro il significante. Oggi sono membro del Commando Interpolazioni, ho fatto strada. Noi facciamo la guerriglia semiologica: se spostiamo una virgola interpoliamo, ma quando copiamo alla lettera siamo sulla cima e nessuno è in grado di prenderci: in condizioni di laboratorio ideali, non c’è niente di più letale di una tautologia.

Il Cane Rabbioso: Nel mondo realmente rovesciato – il vostro! – il vero è un momento del falso [10]. Cosa c’è di veramente falso in ciò che dici, in ciò che scrivi, in ciò che vivi?
Alfredo Zucchi: Cane Rabbioso, io non rivendico la dicotomia vero/falso, né l’opposizione natura/cultura, né, ancora peggio, quella… (Al Conte) Quando ho smesso di copiarti, abbandonato la poesia e rinnegato l’io, ho fatto una scoperta. Di veramente falso c’è forse questo: una strategia (che ho copiato da un altro, il quale se non è qui con voi è che non è ancora morto abbastanza) per attingere all’intensità dell’esperienza personale senza cadere nella finzione autobiografica (dalle labbra del Cieco che è medium sgorga un rivolo verde). In fondo si tratta solo di Δ x ⋅ Δ p x ≥ ℏ 2, cioè di uscire da se stessi – dall’urgenza di chiudere, sciogliere, determinare – e non fare più ritorno.

Smessa la sigaretta, il Senatore chiede la parola. Il Cane Rabbioso inforca gli occhiali: “il Senatore non parla mai, se parla, c’è rischio che dica”, pensa. Il Conte sogghigna, altrettanto sorpreso, non altrettanto inquieto.

Il Senatore: Uno dei racconti più straordinari che Borges abbia scritto è quello che, nelle Ficciones, s’intitola Pierre Menard, autore del “Chisciotte”. Come tutte le cose che sembrano assolutamente fantastiche, di pura astrazione e misteriose, questo racconto parte da un dato reale, da un fatto, da un preciso avvenimento che quello che si usa denominare il mondo occidentale ha, se non conosciuto, respirato. Quest’avvenimento è la pubblicazione, nel 1905, della Vida de Don Quijote y Sancho di Miguel de Unamuno. Da quel momento non fu più possibile leggere il Don Chisciotte come Cervantes l’aveva scritto: l’interpretazione unamuniana, che sembrava trasparente come un cristallo rispetto all’opera di Cervantes, era in effetti uno specchio: di Unamuno, del tempo di Unamuno, del sentimento di Unamuno, della visione del mondo e delle cose spagnole che aveva Unamuno. Da allora si è letto il Don Chisciotte di Unamuno credendo di leggere ancora il Don Chisciotte di Cervantes: e di fatto leggendo quello di Cervantes [11]. Dimmi, Estimado Alfredo: cerchi forse il vero in ciò che scrivi? Cerchi forse il vero e il reale, ossia quanto accade e quanto è creduto, insieme? Noi siamo solo uomini di lettere, di frasi, di scritture, e ci chiediamo perché ancora tu, nonostante noi, scrivi, Estimado Alfredo, sapendo quanto tutto sia scritto o, al peggio, quanto tutto sia passibile di essere scritto.
Alfredo Zucchi: Senatore, a me sembra di agire in un sogno guidato – so bene, in tutto questo, di non essere io il guidatore. Quando, otto anni fa, ho cominciato a scrivere La bomba voyeur ero ossessionato dall’idea di scavalcare le mura alte e lisce del realismo con un salto. Ora so che l’opposizione realtà/finzione non mi appartiene – non appartiene a me, voglio dire, fa parte di un quadro superato, quasi inservibile: quando osservo quel quadro mi sento un paleontologo. Ma non sono nemmeno un paleontologo: ho scoperto, nel tempo, che la narrativa non è la sorella stupida della poesia e della filosofia – sembra stupida e invece è solo aperta, scoperchiata, sfuggente, capricciosa; da te vuole in cambio lo stesso. Quando le ho detto “sì, sono tuo, ora combatti con me” ho rinunciato a qualcosa – da allora la mia attività onirica si è fatta più intensa, più presente. Dunque, mentre scrivo, non ricordo mai che voi siete esistiti prima di me; quando invece lo ricordo – sempre dopo il coito, intendo – mi ripeto come un mantra che il vivente ha ragione del morto, che altri uccelli voleranno oltre. D’altra parte, se non scrivessi ogni mattina sarei solo un altro caso clinico.

Il Cane Rabbioso: Ricordo un vivo che tra tante cose noiose scrisse – lo ricordo come se l’avessi scritto io: lo spettacolo, che cancella i limiti dell’io e del mondo con l’annientamento dell’io che si trova assediato dalla presenza-assenza del mondo, cancella parimenti i limiti del vero e del falso con la rimozione di ogni verità vissuta sotto la presenza reale della falsità che si trova confermata dall’organizzazione dell’apparenza[12]. Cosa ci vuoi dire in ciò che scrivi, tra il vero e il falso, che non sia insistito e ingenuo errare nell’errore, Vivo? Qual è il messaggio, l’errore, in ciò che hai scritto, l’Errore tra gli errori, quello sul quale noi, qui, dobbiamo puntare tutto? Il fine del gioco e sogno e labirinto tuo, qual è? Rivelaci l’Errore, svelaci la vita.
Alfredo Zucchi: Cane Rabbioso, la vita non è mai stata così desiderabile come mentre morivo – capisci? Mi piace l’uomo sotto sforzo, mi piace vederlo teso, contratto, mentre sfida il senso ad apparire – un agone disperante e infinito (Cane: l’infinito è ma non esiste). Mi piace guardare l’uomo condensato in un gesto mentre cade, mi piace che si ostini a cadere: la sua ottusità è la sua forza. Mi piacciono la vertigine e la forza. Mi piace l’idea di una comunità di uomini e donne che si scelgono per vedersi finire, che parlano una lingua in cui vita e morte coesistono nello stesso segno, che si godono la fine mentre danno inizio. Essere vivi è una contraddizione oscena da dire: mi piace il silenzio e lo sclero della presenza. Cane Rabbioso, ti confido una cosa: quando ho detto sì alla narrativa lei mi ha consegnato tre messaggi: il primo diceva solo “error errorem habet”; il secondo invece: “Devi togliere l’uomo dal piedistallo se vuoi fare l’amore con me”; il terzo l’ho dimenticato.

Il tavolo trema. Il bastone trema. Il Cieco chiude gli occhi.
«Il romanzo è un genere falso [13], scrisse un poeta».
«Non dire sciocchezze, Cieco! Che ne vuoi sapere, tu, di poesia? Sei solo un cieco, non vedi; solo, pensi, e parli e parli e parli e parli…»
Il Conte ripete la parola, il Senatore fuma, il Cieco sorride, il Cane Rabbioso cade.

*****

[IDEA E TESTO: Antonio Russo De Vivo e Alfredo Zucchi].

 

zucchiAlfredo Zucchi
La bomba voyeur
Roma, Rogas Edizioni, 2018
pp. 224

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] Jorge Luis Borges, L’immortale, in L’Aleph, trad. it. di Francesco Tentori Montalto, in Tutte le opere, volume primo, a cura di Domenico Porzio, Mondadori, I Meridiani, p. 783.
[2] Isidore Ducasse comte de Lautréamont, Poesie, II, trad. it. di Lanfranco Binni, Garzanti, 1990, p. 477.
[3] “Tutto questo buio, gli occhi chiusi sull’eccesso del disastro”, in Guy Debord, Urla in favore di Sade, Nautilus, 1999, p. 12.
[4] Jorge Luis Borges, L’immortale, cit., p. 782.
[5] Ivi, p. 783.
[6] “L’uomo è un soggetto vuoto di errori”, in Isidore Ducasse comte de Lautréamont, Poesie, II, cit., p. 465.
[7] Jorge Luis Borges, L’Aleph, in L’Aleph, cit., p. 901.
[8] Guy Debord, Urla in favore di Sade, cit., p. 23.
[9] Isidore Ducasse comte de Lautréamont, Poesie, II, cit., p. 547.
[10] Guy Debord, La società dello spettacolo, trad. it. di Paolo Salvadori, p. 55.
[11] Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, 1978, p. 23.
[12] Guy Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 182.
[13] Isidore Ducasse comte de Lautréamont, Poesie, I, cit., p. 425.