Marcelli è uscito dalla cella frigorifera intorno alle 6.00 del mattino seguente, orario di apertura, ha sentito i primi rumori della giornata lavorativa, lo spostamento di scatoloni, i segnali sonori delle friggitrici messe in funzione, esce e sente un odore fortissimo di frittura esausta e bruciata, e all’HFS c’è solo Hanan, sorridente di prima mattina con la sua bocca ampia e morbida e calda, e i pochi impiegati del primo turno. Dà un occhio attorno per trovare Julie, ma non la vede.
Ci sono due celle frigorifere nel fast-food, una è per la conservazione dei surgelati, per esempio gli hamburger di carne già pronti per la piastra in grandi sacchi di plastica trasparente, decine di sacchi di plastica trasparente pieni di questi dischetti rosa, o le crocchette di pesce, i bustoni di patatine a bastoncino, gli scatoloni con croissant e brioche precotti. L’altra cella è mantenuta a temperatura più alta, più o meno quella di un frigorifero domestico, è utilizzata per le bottigliette d’acqua, per le riserve cartonate di bevande gassate da agganciare agli erogatori, per la frutta già tagliata a spicchi. Quando la sera prima, saranno state le 21.40 circa, la situazione all’Hanan Fried Stuff si è fatta strana, Marcelli si è chiuso proprio in questa seconda cella, e lì ha atteso mattino.
Gli sorride Hanan, e gli fa l’occhiolino. Che lo abbia visto chiudersi lì dentro e poi uscirne non ci piove, vede tutto Hanan, attraverso i suoi occhi scuri e lesti, attraverso i suoi molti occhi del circuito chiuso appesi alle pareti o dentro ai ripostigli o nei congelatori o in fondo alle friggitrici o dentro ai bagni, o attraverso i suoi molti occhi biologici, quelli dei dipendenti giovani zelanti e ambiziosi o di quelli anziani e solidali e rigorosissimi, occhi ovunque Hanan, che seppure vede non interviene, spesso, perché non serve, nulla è al di là del suo sguardo, il ritmo produttivo del suo ristorante riassorbe ogni cosa, e ogni mossa si risolve nel compito di ciascuno, qualsiasi decisione privata, qualunque strategia individuale, lo sguardo totale di Hanan disinnesca l’azione. E guarda e sorride, allora, Hanan.
Arrivano i primi clienti per la colazione, i forni dietro al bancone della zona bar hanno già scongelato e reso fragranti i croissant e gli altri lievitati da boulangerie, ora disposti su un piano inclinato, dietro al vetro, a dare l’immagine della freschezza, dell’appena sfornato. E letteralmente è vero, la collega li ha appena tolti dal forno, davanti agli occhi dei primi clienti stimolati dall’odore di lievito.

L’Hanan Fried Stuff è l’attività di Hanan, ristorazione veloce specializzata nel fritto, nell’area industriale di questo paesone della periferia ginevrina che non è nemmeno più svizzera ma già francese, una Francia cuscinetto chiusa tra il confine di stato e le Alpi, l’ultimo presidio imprenditoriale prima dei tornanti alpini, della roccia scoscesa. La clientela è quasi unicamente composta da sparuti automobilisti affamati, ci si fermano come si fermerebbero in qualunque altro posto, è lo stomaco a scandire le tappe, ma soprattutto dai dipendenti delle aziende limitrofe. È una funzione del tessuto produttivo locale, l’HFS, un risultato secondario dell’attività industriale, capannone prefabbricato tra molti altri capannoni prefabbricati più grandi, ma riconoscibile per il colore giallo e le scritte rosa dei pannelli di rivestimento. Quasi mai clienti dal centro, anche se capita: l’Hanan Fried Stuff è essenzialmente la mensa degli impiegati dell’area circostante, ciascuno riconducibile al proprio capannone-madre per la divisa che indossa, tessuti e loghi incollati a caldo che tracciano la geografia imprenditoriale del distretto. Non ha margini di crescita l’HFS, e Hanan lo sa e ricava da questa stabilità la certezza di un potere feudale, giacché se non può crescere non può nemmeno ridursi o scomparire, la sua sopravvivenza è legata alle esigenze dei lavoratori del polo industriale, la sua dimensione in ultimo all’abilità aziendale degli imprenditori limitrofi, è la loro prosperità a garantire il diritto di Hanan.
La mattina i clienti portano i vassoi con la colazione ai grandi tavoli laminati, ciascuno al proprio tavolo a brucare in silenzio con la testa china. Gli altoparlanti emettono una canzone allegra che fa pensare all’estate.

Marcelli comincia a percepire il dolore quando la temperatura corporea risale, un dolore di parti morte del corpo che tornano alla vita dopo la notte di gelo. Ha quasi un’ora, prima di attaccare il turno. Si siede e aspetta che il dolore scoppi e poi passi, che faccia il suo corso parabolico, e lo sente tutto, lo scompone in tutte le parti del corpo singolarmente doloranti.
L’idraulico gli passa davanti, con la sua cassettina rossa, stringe la mano di Hanan, la grossa mano vigorosa di Hanan, lei gli fa gesto che gli offre un caffè, indica la zona bar, e dopo il caffè lui va via. L’idraulico finalmente: da cinque giorni il lavabo all’ingresso delle cucine perdeva acqua dal sifone, un pantano inasciugabile di acqua e sporcizia trascinata dalle suole delle scarpe, i dipendenti costretti a tenere i piedi larghi e distanti, a sporgersi in avanti in equilibrio per lavare le mani arrischiando gli incisivi.
Se ne era accorta per prima proprio Julie, la dolce sveglissima collega sordomuta, che chissà dov’è andata. Attentissima Julie, sempre concentrata Julie, Marcelli si meraviglia ogni giorno di come l’assenza della parola non la impedisca in nulla, recupera in avanzo con la sua attenzione incrollabile, Julie, e con il sorriso bello. Ha sviluppato con i colleghi un sistema di segni perfettamente funzionale, che Marcelli però capisce solo a metà. Quel giorno Julie si ferma al lavabo per igienizzarsi le mani come da procedura, nota la perdita del sifone e subito fa i gesti in direzione dell’obbiettivo della videosorveglianza, quando Hanan la vede e arriva Julie indica la perdita e poi alza le mani e poi si indica anche l’orecchio, chissà che vuol dire. Hanan butta alcuni stracci sulla pozzanghera, che quando si saturano non sono più un argine, galleggiano nel pantano che i dipendenti sono costretti a evitare sporgendosi pericolosamente sul lavabo.
Prima di attaccare il turno gli impiegati polivalenti dell’Hanan Fried Stuff devono fermarsi al lavabo appoggiato alla parete del corridoio che collega le cucine agli spogliatoi. Il lavabo è la tappa preliminare per entrare nelle cucine, bisogna lavare le mani con il disinfettante prima di fare il percorso tra le postazioni, ognuno la propria postazione, a seconda del giorno della settimana, per il principio di polivalenza. Sono tutti polivalenti e ciò sembrerebbe contraddire la tendenza alla specializzazione delle mansioni del moderno sistema di organizzazione del lavoro, ma ne è piuttosto un potenziamento, all’Hanan Fried Stuff si segue un criterio di sostituibilità, ogni pezzo deve essere sostituibile, intercambiabile all’urgenza, e la squadra è un organismo perfettamente egualitario, non si possono costituire piccoli feudi da catena di montaggio, tutti uguali davanti a Hanan, così ogni spezzone di giornata è una turnazione, un diverso quadro di specializzazione, ciascuno assume una specifica posizione rispetto al sistema produttivo del fast-food in base alla ripartizione dettata da Hanan, Hanan la manager, la mente, la fantasia creatrice. Hanan, bella Hanan che accompagni con lo sguardo, funzione sintetica di un significato comune nella giornata di lavoro, sei la cosa in comune di tanti insensati polivalenti, il minimo comun denominatore Hanan, e che bocca che hai, morbida a vedersi, Hanan, la pelle ambrata e gli occhi umidi, la generosità del petto, Hanan, le mani e le braccia nerborute, il collo possente, e il profumo dolce, Hanan, dei capelli lunghi e neri.

La perdita del sifone è un imprevisto che mette tutti di cattivo umore. Alle postazioni sono taciturni, sguardo basso, molto concentrati sul lavoro: e la concentrazione a Hanan piace, le piace meno quel non parlare dei suoi impiegati, non ha simpatia per questo atteggiamento introspettivo ed è più serena quando i dipendenti si concedono due parole di distrazione. La pozzanghera attorno al lavabo impone una tensione fisica che spezza la consequenzialità dei movimenti della giornata lavorativa, la consequenzialità liscia pensata da Hanan, e questo, anche se è una cosa piccola, un piccolo inciampo, permane come disturbo per l’intera durata del turno, crea una frattura sottile. Nel pomeriggio alcuni vi pongono rimedio con una furberia, saltano interamente il momento problematico tirando dritti alle cucine senza lavarsi le mani, quando dopo la pausa riattaccano il turno. Hanan ne nota solo alcuni, e li redarguisce, distratta dall’umore scuro dei dipendenti.
Marcelli sta al suo solito posto, seconda cassa da destra. È l’unico a essere polivalente solo sulla carta, solo da contratto, viceversa viene posizionato sempre nell’area anteriore del fast-food, tra la cassa e gli erogatori delle bevande e le vasche di frittura delle patatine, nelle posizioni in cui gli errori derivanti dalla sua approssimazione linguistica sono rimediabili, per esempio mediante sostituzione del prodotto errato, magari, mediante un sorriso imbarazzato o delle scuse balbettate; viceversa nelle retrovie, dove si assemblano i panini, la correttezza della comprensione degli ordini è essenziale, lì un errore si sedimenta nella composizione stratificata di un ordine e finisce dritto nella bocca del cliente, è un errore irreparabile. Marcelli nemmeno più guarda il tabellone delle assegnazioni, quando arriva, sa che l’italiano lo mettono nella sua postazione fissa, seconda cassa da destra, tra le colleghe più giovani di lui che gli sorridono un sorriso paziente e divertito, se c’è poca clientela, vieni, non puoi sbagliare poi di tanto, e sei buffo, il cliente è contento di farsi una risata umana, il cliente ricerca un’esperienza colorata, piacevole, non solo il cibo come invece si crede.
È un mercoledì pomeriggio, è febbraio, di clientela poca per fortuna, qualsiasi impiegato prega sempre che la clientela sia poca, che diminuisca, ma non si può mai dire, il pienone è una cosa che avviene in un attimo e quasi non ci si accorge, ci si ritrova una moltitudine affamata questuante davanti e bisogna gestire l’emergenza, e ogni cliente pretende giustamente la stessa cura, la stessa gentilezza, la stessa freschezza di sguardo riservata al precedente, giustamente, i clienti non hanno coscienza di folla, coscienza del proprio numero, esige ciascuno e giustamente il medesimo zelo da parte dell’impiegato polivalente, domandando il proprio panino rinsecchito a 4 euro e mezzo, e le patatine bisunte, e allora l’equipe che non sa prevedere il comporsi della ressa resta vigile, ferma in posizione, schiena tesa, mani sul bancone, che magari arrivano, se arrivano, che magari, occhi sulle porte scorrevoli all’ingresso, orecchie ai timer delle friggitrici, tutto pronto, che magari arrivano, se arrivano, occhi sulla sala, sguardo ambientale, sensi in allerta, giustamente. Alcuni clienti masticano placidamente ai tavoli, con la sinistra si portano il cibo alla bocca, con la destra passano il polpastrello sullo smartphone. Muovono la mandibola lentamente, digeriscono parzialmente il cibo tra i denti e la lingua, silenziosamente, uno per tavolo, molti tavoli vuoti, ciascuno fermo a qualche metro dall’altro, nella prateria di tavoli in laminato. Marcelli dal suo posto li guarda e traccia a mente la mappa del polo industriale, censisce la loro provenienza aziendale in base alle divise che indossano. Tracciarne movimenti e abitudini serve a Marcelli per prevederne i gusti e le esigenze, supplendo così alla mancanza linguistica, riducendo o migliorando l’approssimazione che inevitabilmente applica alla comprensione dell’ordine, e per ricostruirne la fisionomia del quotidiano, anche, la vita prima e dopo il loro esistere per venti minuti al giorno come clienti dell’Hanan Fried Stuff.
Così, ogni volta che Julie lo distrae con tutte quelle cose cui lei è molto dedita, come per esempio la pulizia del bancone e dei ripiani, il riordino dei bicchieri di cartone, o il numero esatto di bibite che deve preparare, vuole proprio che le si faccia il numero con le dita, Marcelli si indispettisce per quel perfezionismo che è solo zelo esibizionista e attaccamento ai numeri, tratti necessari, pensa Marcelli, a una sordomuta con una visione squisitamente funzionale dell’atto comunicativo.

Il giorno dopo la perdita non accenna a diminuire, ma Hanan non chiama ancora un idraulico, vuole provare a risolvere la cosa senza il pagamento di una parcella. All’HFS il nervosismo aumenta, c’è una tensione che Hanan non sa come acquietare, gli impiegati si squadrano e sembrano impazienti, come se si fosse aggiunta una piccola tara ai loro movimenti, come un qualcosa di troppo nell’ecosistema del fast-food.
Le patatine sono fredde, gommose o poco salate, le bibite annacquate, il pane secco, il pavimento è un sporco e scivoloso, lamentano i clienti, anche loro irrequieti, ci hanno qualcosa che non li fa stare comodi sulla sedia, come un piccolo tormento. Si presentano alla cassa reclamando, puntualizzando, il fatto di aver speso poco non sembra più risarcirli rispetto alla bassa qualità o all’imperfezione, anzi proprio per il prezzo basso si irrigidiscono sul micragnoso desiderio di ottenere il più possibile, vivono come un torto già ricevuto il dover mangiare ogni giorno che Dio manda in terra all’Hanan Fried Stuff.
Marcelli è teso, il suo sguardo concentrato indaga il cliente per desumerne efficaci strumenti di comprensione, la pronuncia contratta di un cliente nervoso è ancora più difficile da intendere per Marcelli, che vede ridursi gli spazi soliti di approssimazione, e la possibilità di arrotondare l’inciampo con un sorriso buffo. Marcelli è assunto da due mesi: Hanan non può licenziarlo nei primi tre, è il periodo di prova, da contratto, bisogna darsi tempo reciproco, e sorride Hanan, con la sua bocca larga, Hanan sorride agli errori di Marcelli – un cliente chiede un panino senza pomodori e Marcelli non lo annota nell’ordine inviato alle cucine, e per rimediare ha bisogno della tessera magnetica di Hanan, non è autosufficiente Marcelli, e così aumenta l’attesa per i clienti in fila – Hanan sorride al terrore con cui Marcelli commette gli errori, con il suo mento robusto Hanan, e secondo Marcelli lei sorride ai tre mesi che passano, alla fine passeranno i tre mesi, e tutto terrorizza Marcelli, ogni svista è irreparabile per sempre, ogni macchia è indelebile. Quando nessun cliente si presenta alla cassa, Marcelli sta lì come un fesso, fintamente concentrato, concentrato sulla sua ruminazione, ruminando la paura dell’errore, già lo vede come va a finire, Hanan che sorride e gli dice che è al di sotto degli standard produttivi del fast-food, troppo lento, troppo impreciso, e poi la lingua, e lui che torna per le strade della città in cerca di un nuovo pulciosissimo impiego, e la ricerca gli succhia via tutto il tempo, lo sottrae dalla ricerca di dottorato che è l’unico motivo che lo ha portato in quella città cara e balorda, in questa città di merda, se lo ripete Marcelli, io sono innanzitutto un dottorando, ma ho bisogno di questo lavoro, di questo lavoro vero, si ripete, e questi stronzi ora rovinano tutto, la vede Marcelli la vita che va a rotoli, il progetto che crolla, ogni errore è davvero incorreggibile.

Nel pomeriggio del terzo giorno la perdita dal lavabo sembra addirittura aumentare, Hanan non cede ancora all’esigenza di un idraulico, la pozza si fa più larga e sporca, il ticchettio delle gocce è costante, forte, rimbomba tra i muri di cartongesso come la ripetizione di qualcosa, Hanan controlla che tutti si lavino comunque le mani, nonostante l’impedimento, i dipendenti in fila con le manine tese si avvicinano al lavabo con l’umore davvero nero, sembra quasi che ringhino, e in fila sentono sgocciolare la perdita, questa maledetta ripetizione, e poi anche dopo, quando vanno alle rispettive postazioni, il tonfo delle gocce pare davvero non abbandonarli, e fa da sfondo ai pensieri che hanno sostituito del tutto le poche parole. C’è questa cosa che si ripete e che sentono tutti nella testa.
Quello stesso giorno Marcelli capisce di odiare i clienti, il cliente. Pretende, il cliente, con il suo stomaco bucato, la bocca già umida, i modi sbrigativi, pensa che quel poco che paga basti allo sforzo che costa a Marcelli servire lì al bancone: gli costa il gesto in sé, fatto di velocità e comprensione dell’ordine, e quello che c’è prima del gesto, poi, il suo essere obbligato a stare lì da quel carovita svizzero allucinante, e quell’esperienza oltralpe che assomiglia a un declassamento, lui vissuto sempre comodissimo a casa con la mamma casalinga e il babbo medico, comodissimo, e questi clienti abbrutiti e con gli occhi pieni di torto, con la percezione di meritare un risarcimento per il fatto che mangiano lì all’Hanan Fried Stuff, e l’impiegato che hanno davanti è un furbo, è un tirchio, è una funzione di privazione di qualcosa, di una piccola cosa, che però loro pretendono loro chiedono con gli occhi del risentimento e mentre chiedono con gli occhi del risentimento Marcelli anche lui ci ha il risentimento dentro e sente la perdita che sgoccia sul pantano, sente la perdita che si ripete e ripete, sente questa insistenza che lo distrae, che gli disturba la comprensione dell’ordine, chi cazzo si crede di essere questo qua, sente sussurrare, cosa cazzo vuole questo miserabile, sente sussurrare Marcelli. È confuso Marcelli, è distratto, così quando Julie gli porta la coca-cola grande che ha già preparato al suo posto, per facilitarlo, la maestrina sordomuta con il sorriso, lui si gira maldestramente e la fa volare a terra la bevanda, e gli schizzi colpiscono anche il cliente, che comincia a inveire, e arriva Hanan. Sorride Hanan, e risarcisce il cliente, gli da una pacca con la sua manona, e sorride Hanan a Marcelli. Ogni errore è incorreggibile, pensa Marcelli con il magone.

La perdita è sempre più copiosa, aumenta il ritmo delle gocce, il quarto giorno, si ripete con sfacciataggine mai vista, e con malizia. C’è questa cosa della perdita che esaspera i dipendenti, che recuperano la parola che in un primo momento avevano trattenuto, e la usano per lamentarsi, per rinfacciarsi gli errori, per sgomitare, e c’è questo sussurro che dice cattiverie, che fa la spia, che sputtana le miserie, le piccinerie, tra una postazione e l’altra del fast-food. Stanno stretti, c’è qualcosa di troppo in queste cucine, in queste giornate interminabili all’HFS. Monitora Hanan, serra le fila del calendario.
Julie non si lamenta, Julie prosegue concentrata sulla sua mansione, anzi il nervosismo generale genera inesattezze, spazi di azione che Julie occupa con diligenza, facendosi carico del corretto funzionamento della catena produttiva. Anche Julie è in prova, assunta più o meno insieme a Marcelli, e gioca bene le sue carte, e la sua sordità da maestrina.
C’è una fila grande davanti al bancone dell’Hanan Fried Stuff, c’è una calca vociante, non è la fila di chi vuole ordinare, ma di chi ha già ordinato e ha qualche lagnanza da presentare agli impiegati alla cassa, e c’è questo sussurro verboso e ridondante che fa: sono incompetenti questi dipendenti. Hanan osserva, è pronta a intervenire per risolvere i contenziosi, ma rimane ferma come semplice possibilità, come garanzia finale, e per i clienti e per i dipendenti, i quali tentano una riparazione, tentano di contenere il malcontento, scaricando le colpe, c’è una colpa lungo la quale si può risalire, e a monte trovarci un colpevole, un distratto, un idiota. La folla di clienti è sempre tranquillizzata, per un momento, dall’imputazione, dal nome dell’imputato. Sono incompetenti questi dipendenti!

Il corridoio che separa gli spogliatoi dalle cucine è un acquitrino fetido, una belletta di acqua di scarico, mozzichi di patatine pestati, polvere, cartacce, molliche, terriccio portato dall’esterno, capelli, umori, e i dipendenti sono costretti ad attraversarla per igienizzarsi bene le mani e gli avambracci, secondo procedura, prima di entrare nelle cucine. Hanan, bella e saggia Hanan, ha compreso la gravità del guasto e si è arresa alla necessità di un idraulico. Verrà domani, rassicura i suoi impiegati.
I clienti, raccolti secondo divisa, sono di umore nero già di prima mattina, chiassosi, rissosi, muovetevi!, gridano. Marcelli è impreparato a questo clima, a questa furia, confonde gli ordini, consegna i vassoi con stizza, e quando sbaglia non si preoccupa nemmeno più di rimediare, o di sorridere, ed è Julie a sorridere al posto suo, a mettere la pezza dove occorre. Muovetevi!, gridano i clienti. Quando Marcelli esasperato dice, per favore un secondo, stiamo facendo del nostro meglio, in quel suo francese zoppo, un cliente scavalca il bancone e lo prende per il colletto e gli urla cose che Marcelli non afferra. Buonissima, provvidenziale, Hanan interviene e seda lo scontro.
Che rimbombo nelle teste, che rimbombo, c’è questa voce che dice: vi rubano il tempo, gli stronzi! Che grida: vi rubano il tempo!
Una signora si para davanti a Marcelli e fa: voglio parlare con la titolare, mi è stato rubato il portafogli. Ha controllato bene, signora?, suggerisce Marcelli per portare la calma. E quella perde il senno, contraddetta perde il senno, contraddire il cliente è un’assurdità, è una follia, glielo dice Hanan senza sorriso, come ci pensi? Marcelli è bloccato, incompetenti!, grida la signora, incompetenti!, e Marcelli sente con dolore il peso dell’errore, dell’inciampo, l’irrimediabile inciampo che si sedimenta con gli altri tanti piccoli sbagli dei tre mesi di prova, e già vede tutto Marcelli, già vede come va a finire. Sei un incompetente!, grida la signora, e Marcelli abbozza, teme di peggiorare la situazione, il pensiero di rimettersi in cerca di un lavoro lo angoscia, e allora tace e prova a sorridere, e quella gli grida, sei coglione?, ma Marcelli prova a sorridere mentre Hanan lo scansa, cercare un altro lavoro vorrebbe dire battere la città palmo a palmo, chiedere, implorare, perdere tempo, sottrarre tempo alla ricerca di dottorato che ora conduce prima o dopo i turni, o nei ritagli di tempo, ma il lavoro al fast-food gli permette di programmare i giusti pochi momenti per la ricerca, che è il vero motivo per cui è venuto in Svizzera, in questa bella Svizzera verde: io sono essenzialmente un dottorando, si ripete lì impalato, anche se per la maggior parte del tempo lavoro qui dentro per mantenermi, sono essenzialmente un dottorando, non conta la quantità di tempo ma la coscienza di tempo, si ripete mentre Hanan lo spinge via e lui sorride, non contano le necessità, e Julie gli porta un bicchiere d’acqua per calmarsi, e nel fast-food succede il finimondo di malcontento e rabbia e voci molto alte.

Qualcuno mi ha rubato il portafogli!, grida la signora.
Le teste dei clienti si fermano, smettono il movimento della masticazione. Qualche sedia trascinata fa il rumore che copre la musica degli altoparlanti, molti si alzano, si portano le mani alle tasche, controllano che il furto non riguardi loro. E rimangono in piedi, braccia larghe, la signora strilla un suo sfogo, sbattendo la borsa sul tavolo.

VOLETE UN RESPONSABILE, dice il sussurro. PRETENDETE CHE PAGHI, sussurra ripetendo, ripetendo e rimbombando.

COGLIONI VOI CLIENTI CHE VI FATE DERUBARE, sentono nelle orecchie i clienti, e anche tutti gli altri seduti scattano in piedi, lasciando cadere le sedie. Si voltano verso il bancone. Cosa pensate, grida uno allo staff del fast food, cosa cazzo pensate?

FATEGLIELA PAGARE.

Ladri!, gridano i clienti, ladri! Fuori il responsabile!, gridano, e scavalcano il bancone e cominciano a scuotere gli impiegati polivalenti, a rovistare. E gridano. Le mani dei clienti indagano i corpi, i vestiti, le tasche dei dipendenti, che alzano le mani come ostaggi, o come ladri beccati in flagrante, anche, e qualcuno cerca di fuggire. Molti vengono trascinati a terra, per i capelli.
Bastardi, gridano i clienti, bastardi!
Il danno va risarcito, tutto va risarcito, e non c’è misura, non c’è riparazione al senso di torto e disparità cui ora i clienti rimediano famelici, gonfiando le tasche di panini già pronti, di pane asciutto, patatine fritte che ungono le stoffe, di bustine di salse che scoppiano nella foga, di dischetti di carne ancora surgelata, di cui si riempiono le borse.

Marcelli vede alcuni colleghi sanguinare, molti piangere.
Tre grossi clienti saltano su Hanan, la bella Hanan dagli occhi vigili, e nulla possono le sue mani forti, Hanan viene sbattuta contro il bancone, e sollevata in alto. Marcelli pensa che ora la getteranno al suolo, di testa, rompendo con il suo cranio anche le ossa del fast-food. Hanan ha una faccia di paura da vecchia strega mostruosa, mai vista prima, e, guardando Marcelli, schiude la bocca.

È stata Julie!, fa Marcelli alzando le mani. E indica la sordomuta che si porta i pugni al volto e ha due occhi enormi. L’ho vista mentre frugava nella borsa della signora!, fa guardando Hanan. E fugge nella cella frigorifera, si chiude dietro quell’impazzimento.

Marcelli esce dalla cella frigorifera intorno alle 6.00 del mattino seguente, orario di apertura. Sente il dolore della temperatura corporea che risale, e l’intontimento di una nottata passata al gelo. I locali sono stati ripuliti, e del resto l’idraulico cortese ha riparato la falla, finalmente. Le colleghe della zona bar hanno già infornato croissant e brioche precotte, c’è l’odore del lievito.
C’è anche un odore forte di bruciato, d’olio di frittura esausto che appesta l’aria, fritto e rifritto fino all’ultimo, fino al massimo, consumato tutto l’olio e tutto quello che ci è stato immerso.
Hanan si affaccia dalla sua stanza e si rivolge ai suoi impiegati, qualcuno svuoti la friggitrice e sciolga le incrostature, dice, ci sono troppe incrostature. Marcelli ha la camiciola rosa con il logo dell’HFS tutta sgualcita e se la deve cambiare per forza prima di attaccare il turno.

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In copertina: Roy Lichtenstein, Crying Girl (1964), porcelain enamel on steel, 46 by 46 inches (116.8 cm × 116.8 cm).