Sferraglia lento il trenino malmesso salendo a scosse per la ripida salita. Nel semideserto scompartimento si spande il solito odore di stoffa smangiata da muffa e salmastro. L’uomo in divisa passa, controlla e non timbra, poi prosegue; solo allora i due interlocutori, che il lungo viaggio ha reso ormai pura presenza, riprendono per gradi la comunicazione interrotta prima — con adesso quell’impressioncina, vagamente elettrica e sorniona, di conoscersi da tempo.

«Dunque torna a casa anche lei…»
«Sì, come le ho detto viaggio molto; per lo più per lavoro.»
«Eppure in città non l’ho mai vista.»
«Proprio perché sto sempre in giro. Lei, piuttosto?»
«Vacanza, dicevo.»
«Già, accennava a un certo tipo di riposo, prima che venisse il controllore.»
« Esattamente.»
« Esattamente.»
«Cercavo un posto…»
«…»
«…un posto in cui far riposare il mio povero cervello, dicevo.»
«Ma… riposare da cosa, se permette?»
«Da tutto, da quel tutto grigio-nullificante che anche lei conoscerà, suppongo. Aspetti un attimo, tolgo il cappello e le mostro.»
«Ma non deve…»
«Vede? Sotto l’attaccatura dei capelli.»
«È lì che hanno inciso?»
«Sì, e poi tutt’attorno, dove son già cresciuti i capelli.»
«Per quanto…?»
«Intende senza cervello?»
«Esattamente.»
«Tre mesi.»
«E alla fine? Com’è stato?»
«Adesso ho i miei ricordi, memorie di quand’ero senza — una sensazione fisica di mancanza, piuttosto — insieme a quelli suoi, intendo del cervello senza di me, ma come se nel complesso ora non fossi che lui, e cioè tutto, tutto quanto cervello.»
«Se posso insistere, mi interessano le sensazioni fisiche, soprattutto.»
«Ma guardi, è come dopo aver disputato una partita di tennis durata, poniamo, tredici anni; si è stanchi, ma non si pensa ad altro che all’inevitabile riposo, a prescindere che si sia vinto o perso. Oppure, se può comprendere, come dopo che vengano staccati dei fili elettrici che hanno percorso e reso vivo un corpo per ore, e ore ancora. Ci si sente abbandonati, ma di un abbandono dolce, come in balìa delle correnti marine in un mare chimico e piatto, in sostanza inesistente.»
«Dev’essere terribile, per lo meno a tratti.»
«Forse non mi spiego: ma non lo è. Terribile, dico. Anche se per il corpo risulta certo più facile, a dirla tutta. Il cervello, una volta sistemato al suo posto, si sente libero — questo sì — più che riposato.»
«Cosa intende per libero più che…?»
«Intendo dire… saprà che il cervello non si ferma mai. Così, appena reimpiantato ho potuto vedere, in un solo istante, tutto quello che ha vissuto in assenza di corpo. È stato spossante, per quanto, senza senso di fisicità alcuna, libero da qualsiasi tipo di conseguenza su un piano prettamente reale. È questo il punto: senza corpo, il cervello può continuare ad agire la sua tipica attività cospirativa senza che vi sia alcuna conseguenza concreta: e per noi, e per gli altri.»
«Capisco. E cos’ha visto, dunque, il suo cervello?»
«Be’, adesso che è passato del tempo dal reimpianto è tutto un po’ sbiadito… Ma grossomodo direi linee di luce che si incrociavano, puntolini di un colore indefinibile, forse addirittura di ogni colore insieme, e poi masse di dati sotto forma di sagome simili a macchie incoerenti (forse un’aquila, forse un elefante), la sensazione anche in questo caso di scariche elettriche che simulavano il tatto (ricordo di aver toccato il tronco a scaglie di una palma nera e nana), l’udito (voci umane di gatti cosmici simili a sirene di una grossa nave che entra in porto), l’olfatto (ha presente la polvere da sparo, il suo odore dolce e amaro insieme?), e poi un sapore di… di… non saprei dire di cosa, ma era come non avere più la lingua per saperlo, per gustarlo.»
«Mi sembra però che sia stata la vista a beneficiare sopra gli altri sensi di tutta questa libertà…»
«Questo non so dirglielo, in effetti. Adesso che le ho raccontato, la memoria improvvisamente si offusca, come se avesse pudore di aver visto, sentito e persino riferito quello che… Perché il punto è che un cervello libero dal corpo non necessita più di alcuna memoria, e un ricordo passato è uguale a uno futuro e a dirla tutta…»
«A dirla tutta?»
«A dirla tutta non so se questa nostra conversazione è accaduta ieri o domani o forse tra un mese, o se sto solo…»
«Capisco benissimo, non si preoccupi. Siamo più simili di quanto crede, amico mio.»
«Adesso mi perdoni, infilo il cappello, fa freddo.»
«Faccia pure. Ma insomma, mi consiglia di provare?»
«Oh, se sente spossatezza, sì, assolutamente, magari durante le ferie, meglio ancora se nel corso di un prolungato periodo di solitudine.»
«D’accordo. Allora non esiterò, la ringrazio. Adesso mi perdoni, vado un attimo al bagno.»

Tuttavia niente, nello scompartimento coi finestrini annebbiati di condensa, davvero si muove o si solleva; da un sedile all’altro si guardano, soprattutto percependosi, queste due grosse noci di guscio grinzoso e molle.
Quando torna, il controllore scorge le pozze di melma cagliata e grigia che gocciolando dai sedili s’allargano sul pavimento — e allora finalmente si decide, propendendo per guanti, sacchi neri (dal vagone ristorante) e via, via questi bozzi bavosi rievocanti corpi andati, via nel fondo senza fondo della toilette del mesto convoglio.