La mia generazione e le generazioni a me più vicine – parlo dei nati negli anni ’70 e ’80 – hanno avuto modo di «guardare» il mondo dopo il disastro: il mondo post-apocalittico, disseminato di macerie, abitato da un’umanità imbestialita in cui trova nuovo senso il termine «eroe», in cui ogni sistema economico e ideologico è stato cancellato; e cessata è anche la morale, il vero grande mostro che reggeva la civiltà (la morale come sistema di valori condivisi, come usi e costumi, per semplificare al massimo).
Non mi riferisco a eventi reali; noi cresciuti durante la baluginante sbronza degli Ottanta siamo mancanti di esperienza, e non parlo di esperienza di vita, ma di quella distinzione tra realtà e finzione che permetteva un rapporto autentico con l’una o l’altra. Il riferimento è a un saggio, ormai datato, di Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione (Bompiani, 2006), in cui lo scrittore parla di «inesperienza» come nuova indigenza, e dice di una società tardo-moderna che non può più contemplare l’esperienza, banalmente, come vita vissuta e poi, quale passaggio diverso e conseguente, raccontata: «il mondo oggi non ‘si vive’, e la sua conoscenza non riposa più sull’esperienza» (p. 34). Noi abbiamo visto non una ma molteplici apocalissi in TV e al cinema, le distopie ci sono state dischiuse in immagini, orrori reali e immaginari ci sono stati inoculati come sostanze chimiche da laboratorio, in una maniera così innaturale, così forzata, e filtrata.
La mia generazione e le generazioni a me più vicine hanno verificato tesi di Benjamin ormai datatissime. Il riferimento è al saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov (1936, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, 1995), in cui il filosofo parla del declino della «narrazione», quella che nasce dall’«esperienza che passa di bocca in bocca» (p. 248), a causa della nascita del romanzo in età moderna; il romanzo «non esce da una tradizione orale e non ritorna a confluire in essa» ed è creato dall’«individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più davvicino» (p. 251).
Antoine Volodine con Angeli minori (1999) ci costringe a un vertiginoso doppio salto a ritroso: l’opera non è un romanzo, ma una raccolta di 49 narrat, dunque un ritorno alla «narrazione»; l’opera, per contenuti, è costruzione di immaginario di un mondo altro, cosa che crea fascinazione e spaesamento in noi, generazioni dell’inesperienza, che troppo abbiamo visto e vediamo attraverso gli schermi.
Partiamo dunque dalla definizione di narrat. Scrive Volodine: «chiamo narrat dei testi post-esotici al cento percento, chiamo narrat delle istantanee romanzesche che fissano una situazione, delle emozioni, un conflitto vibrante fra memoria e realtà, fra immaginazione e ricordo» (p. 6). Il post-esotismo, formula che Volodine iniziò a usare dagli anni Novanta, è una comunità di scrittori esistenti solo nei loro libri (scrittori – Manuela Draeger, Elli Kronauer o Lutz Bassmann – che sono eteronimi di Volodine, a sua volta pseudonimo: quanta molteplicità in una sola persona…), una comunità di scrittori che sono prigionieri politici, come viene specificato in Le post-exotisme en dix leçons, leçon onze (1998), i quali da una condizione di isolamento raccontano storie e sogni. Angeli minori ci connette a un mondo futuro, dopo una rivoluzione mondiale che ha causato il crollo del capitalismo con relative conseguenze. Ritorna, come accennavo, la «narrazione» nel senso inteso da Benjamin, e cioè tradizione orale successiva a un’esperienza; l’esperienza qui si declina in una serie di tragedie minori corrispondenti ai narrat che Will Scheidmann, reo di aver ristabilito il capitalismo, produce per costrizione delle vecchie congiurate che si occupano della sua condanna ed esecuzione.
Non è tutto così chiaro, c’è una trasfigurazione onirica, una sorta di nebbia che continuamente crea interferenza nelle informazioni disseminate nei narrat, informazioni su come e perché finisce un mondo, su come e perché anche il nuovo mondo, forse, finisce; o forse ci troviamo al cospetto di una visione della storia ciclica – altro affascinante indizio di un ritorno alla «narrazione» pre-moderna  – per cui i sistemi crollano e ritornano. Difficile a dirsi, proprio perché Angeli minori, come altre opere post-esotiche, somiglia più a quel momento assoluto tra sogno e veglia in cui si rischia di tremare realmente per tutto ciò che di irreale si è vissuto fino a poco prima, e non a una cronaca di eventi reali; ma la bellezza, quella suggestione tossico-lisergica delle opere post-esotiche di Volodine, sta nel fatto che non per forza l’uno debba escludere l’altra e viceversa, che tra sogno e realtà non ci sia che un velo facilmente attraversabile, o che proprio quel velo separatorio sia l’unico elemento finto, inesistente, tale da qualificare come espressione letteraria la costellazione di voci deliranti prodotte dal solo Antoine Volodine, scrittore.

Antoine Volodine
Angeli minori
(1999)
traduzione di Albino Crovetto
Roma, L’orma, 2016
pp. 224

In copertina: Toyoo Ashida, Ken il guerriero – Il film (Hokuto no Ken), Giappone, 1986.