Appariva in continuazione. Iniziava a tormentarci. Avevamo accettato l’evento isolato, con condizioni favorevoli, quando nell’aria si può indovinare il crepuscolo. All’inizio era così, come se un direttore sovrintendesse, come se un capocomico dietro le quinte scandisse ingressi e uscite di scena. Luce adeguata, riverbero boreale, un latrato lontano di cani, gli strascichi di una scazzottata sedata dal vino, insomma la drammaturgia corretta, asciugata. Ma le dinamiche si erano via via perse, slabbrate le movenze leggiadre da holiday on ice. La Madonna era diventata invadente.

A partire dall’autunno il cielo cominciò a vomitare madonne e fumi laser come a un concerto pop. Non c’era più intermittenza, solo intrusione e prepotenza di azzurro. Pioveva e montava l’ansia da apparizione, scendeva la sera, il vento rimbalzava dalla boscaglia e suggeriva la pelle in rilievo, le pupille vibranti e l’incavo lacrimoso. A causa della sovrabbondanza verginale diminuirono i misteri amorosi, i timidi abboccamenti che fino allora avevano sorretto i destini della comunità. Il torrente seccò. Comparvero simboli oscuri sulle porte dei laureati. Chiuse l’ufficio postale e i furgoni neri dei corrieri iniziarono a sfrecciare nei vicoli. Qualcuno propose come antidoto la neuroscienza e il mistral presentò immediatamente il conto: un sibilo di gengive taglienti fece avvizzire il cedro millenario.

Non del tutto inattesi, dopo settimane di bagliori, giunsero dalla pianura gli autobus tripli, comitive dai cappellini flosci pronti a occupare le terrazze naturali del paese. Donne di mezza età con uomini al guinzaglio iniziarono a intasare le viscere del paese, a ciondolare sui lastricati e a spingersi verso le contrade più alte, dove supplicavano e incoraggiavano l’estasi. La bramosia dei postulanti non trovava conforto, li obbligava a ingoiare pillole numerate, a sgomitare per conquistarsi le rare bottigliette d’acqua, a invocare panini imbottiti e merendine. I contadini del circondario fiutarono l’affare, si destarono dai malinconici giacigli domestici, intrapresero commerci improvvisati nei prati demaniali recuperando vecchie roulotte e furgoni, allestendo punti di ristoro con salami e prosciutti irranciditi. Il loro spirito imprenditoriale non contemplava alcuna forma di rispetto: le mani grumose tormentavano il pane, strizzavano grassi e cotenne facendone colare i succhi sugli impiantiti. Totalmente indifferenti alla dialettica della libera concorrenza berciavano, intimorivano, abbracciavano voluttuosamente invalidi e donne anziane, ammiccanti mostravano calci di revolver da tasche interne e cruscotti.

Uno svolazzo di elicotteri annunciò l’arrivo dell’inverno e dei gesuiti. Guidati da un vecchio caliginoso, “il comandante”, i geometri e gli operai dell’ordine presero a carotare, a misurare, a sfondare il cielo con lampi al fosforo. Svolgevano i loro compiti sul pianoro prospiciente la strada, poi al tramonto, coscienziosi come bovari, si ritiravano all’interno di un container cromato. Non si mischiavano con i cortei, con le masse assiepate nella piazzole di avvistamento, mangiavano in piedi e quando non lavoravano oliavano morbosamente utensili e alberi di trasmissione.

Dopo circa una settimana dal loro arrivo, per iniziativa del vicesindaco, fu istituito un comitato di accoglienza allo scopo di indagare le ragioni di un’occupazione per certi versi misteriosa. Ottenuto il via libera dai consiglieri di minoranza, il sabato successivo, giorno di celebrazione della candelora, si presentarono all’accampamento dei gesuiti lo stesso vicesindaco, il bidello in pensione della scuola elementare, la bibliotecaria e il custode della palestra, agghindato per l’occasione con la divisa delle guardie ittiche volontarie. Terminata la visita al cantiere, condotta da un capomastro dall’alito speziato, la delegazione venne accompagnata nel container e i suoi membri fatti accomodare su una panca addossata alla parete. Un filiforme cameriere imbrillantinato, vestito come un danzatore di polka, servì alla commissione acciughe marinate e vino aspro. Soltanto al termine dello spuntino si palesò il comandante in campo, imbustato in una tuta da aviatore e con ai piedi scarpe da basket slacciate; la sua figura ciondolante, fragile e minacciosa come una goccia di veleno, trasmetteva il magnetismo di una rockstar sopravvissuta agli eccessi. Concessa una carezza al cameriere, il comandante strinse la mano ai presenti, e, dopo averlo preso da parte, offrì al vicesindaco un contratto di collaborazione a sei zeri, materialmente vergato a matita su un foglio di quaderno formato A5.

Il giorno seguente i gesuiti abbandonarono il presidio. Lasciarono nell’erba brumosa del mattino una palizzata sbilenca e un bagno chimico privo del serbatoio di scarico.

L’inverno caparbio non scoraggiava i pellegrini che sciamavano a più non posso dalle arterie stradali e persino dalle impervie mulattiere di confine. Alla breve ed enigmatica comparsa dei gesuiti seguì compatta la venuta dei francescani, che iniziarono, a colpi di contante, ad acquistare casolari e terreni edificabili per ricavarne ostelli e maisons de charme. Le baracche e i veicoli dei contadini, avamposti di un’accoglienza sbracata, furono fatti esplodere; in brevissimo tempo venne attivato un portale internet e creata un’agenzia a partecipazione mista per la promozione del territorio. Nel centro del gorgo imprenditoriale non mancarono le rimostranze degli autoctoni meno remissivi, lievi buffetti al confronto della potenza di fuoco messa in campo da religiosi e amministratori della cosa pubblica. Qualcuno, in una notte di plenilunio, depositò una collinetta di sterco davanti al portone del palazzo municipale, azione di disturbo a cui fecero seguito timidi tentativi di sabotaggio, tagli di pneumatici e bottigliate contro escavatori e centraline elettriche. Ma ben presto dal clima di tensione si passò a una efficiente gestione controllata del comprensorio mariano, realizzata attraverso l’ipnosi e l’utilizzo di querele dimostrative. Ogni prerogativa istituzionale, la ciclicità e le tradizioni stesse del paese, furono neutralizzate, assoggettate alla tempistica delle apparizioni, ormai, dopo la primigenia anarchia immaginifica, pilotate a distanza da una équipe di informatici e astrofisici.

La morfologia del villaggio cominciò a subire alterazioni irreversibili: lo svettare dei ponteggi e delle strutture configurò tetre ragnatele atmosferiche, mentre le grondaie delle abitazioni residuali, le antiche porte, gli stucchi e le inferriate iniziarono a sottomettersi a un naturale processo di decomposizione.

I gruppi di credenti, scaricati dai torpedoni ai piedi della collina, dapprima subirono una sorta di stoccaggio: ammassati e scaglionati, sottoposti alla profilassi e scannerizzati, vennero in seguito condotti verso le piattaforme affacciate sul miracolo. Ai fedeli più facoltosi l’organizzazione decise di risparmiare l’onta degli assembramenti e dei cortei: per loro un servizio navetta con elicotteri e mini mongolfiere, in partenza da un aeroporto militare costiero, garantiva una via d’accesso all’evento “suggestiva e coinvolgente”.

I residenti, quelli ancora rimasti e risparmiati dal ciclone devozionale, coloro che non si erano arresi agli espropri, agli indennizzi capestro, decisero di impossessarsi delle ore notturne, di costruire una comunità occupando le case in rovina al limitare del bosco maggiore. Illuminati dalla povertà, corroborati dall’esigenza di cacciare e raccogliere per sopravvivere, respiravano e deperivano nel silenzio delle cantine, nei locali circoscritti da pietre e soppalchi. Amavano a più non posso, sregolati, approfittando delle tenebre e del placarsi del prodigio. Come pipistrelli danzavano sulle teste arruffate dei fedeli, sulle macchinazioni e la genialità del marketing algoritmico. Ponevano in essere la loro redenzione, la forma essenziale di una felicità rimasta per secoli imbrigliata e costretta dall’implacabile affannarsi dei giorni.
Il vino rosso, nelle catapecchie rumorose di sberleffi e passione, venne trasformato in acqua, la notte in alba incerta, il rancore in accettazione e inerzia spassionata; in lontananza perduravano i cori, il gracchiare dei megafoni e il salmodiare, rumori sempre più distanti, quasi un brusio alternato al mugolio delle fronde. Nessuno più disturbò la determinazione a vivere, la barcollante esistenza del manipolo raccolto attorno al miracolo degli agrumi e delle processionarie, all’invincibilità del pane e della selce, della gravida sorgente e del secchio di latta.

«È il prodotto di scarto della lavorazione, del privilegio soprannaturale, scompariranno come sempre è avvenuto nei nostri protettorati» disse un semidio dell’organizzazione planetaria. «Non tocchiamoli, non obblighiamoli a fare nulla fintanto che risiedono nelle loro stamberghe, finché godono e si avvinghiano sui pagliericci, finché sono felici… piuttosto iniziamo a valutare la partnership con la Pixar e a pianificare le strategie di ampliamento dell’offerta sui mercati arabi».
L’accenno a un’espansione in un’area ritenuta fino allora inattaccabile, innescò una traslazione di sguardi verso Benedetta, una trentenne minuta che sedeva in un angolo dell’imponente tavolo consiliare. Colta di sorpresa, la donna aprì una borsa di cuoio che teneva davanti a sé e iniziò a frugarvi dentro. Gli astanti notarono in lei un leggerissimo imbarazzo, e percepirono l’ancora più lieve fruscio del suo tailleur grigio perla, membrana opalescente che traduceva in suono ogni minima vibrazione muscolare.
Una volta collocato il numero necessario di fogli sul ripiano di mogano, Benedetta sollevò gli occhiali a goccia sulla fronte e iniziò a esporre i risultati delle sue intuizioni, mentre sulla parete sud della stanza comparve l’immagine del Viaggio di Mosè in Egitto di Pietro Perugino. L’eloquio della donna fluiva vivace, mescolando ragguagli tecnici a finissime considerazioni filosofiche. Intorno a lei le bocche assumevano pieghe di stupore; qualcuno si azzardò a vagheggiare l’avvento di un nuovo umanesimo, guardandosi bene, naturalmente, dall’esternare quella sconveniente riflessione. Intanto Benedetta predicava, fluttuava all’apice di un’onda mistica. Ormai si sentiva piena di grazia, pronta a farsi nuovamente ingravidare. Relazionò per un tempo indefinito, poi alzò lo sguardo e incontrò, nel fondo della sala, il ghigno compiaciuto dell’amministratore delegato.
«Ma adesso basta parlare!» disse infine, rivolgendosi ai presenti, e si avviò con passo sicuro verso uno scintillante frigobar.