Le città specialmente posseggono ognuna una personalità propria, uno spirito autonomo, un carattere riconoscibile che corrisponde alla gioia, al nuovo amore, o alla rinuncia, alla vedovanza. Ogni città è uno stato d’animo; e quando vi si soggiorna, questo comunica, si trasmette a noi come un fluido che, respirato con l’aria, entra a far parte del nostro corpo.

La cosa più intelligente e sensata che si può dire sulla morte l’ha detta Marco Pannella, definendola un’assenza che si fa presenza; basterebbe quest’ultima frase per esprimere il senso ultimo di Bruges la morta, e io mi potrei fermare qui: il capolavoro di Rodenbach racconta alla perfezione un’assenza nel suo farsi presenza ingombrante, massiccia, soffocante, morbosa.

Il lutto del protagonista Hugues Viane è raccontato nei suoi particolari più dolorosi ma anche nei più ridicoli. È facilissimo, per chi ha subito un lutto importante, riconoscere i sintomi della permanenza del defunto: il non riuscire più a fare certe cose, per esempio, o a godersi certi piaceri, per tacere della sensazione che sia quasi irrispettoso ma al contempo doveroso continuare a vivere.
La confusione a seguito di una perdita è resa con una tale umanità, un tale candore, che il perturbamento mortifero sprigionato dal romanzo diventa quasi confortante: leggendo ci si sente compresi, soprattutto quando si affronta quella sensazione di essere vivi in una maniera diversa dagli altri, perché privati di una persona che è anche una parte di sé, in quanto componente della nostra identità.

Il defunto diventa luogo, diventa stato mentale: il morto non c’è, e proprio per questo è ovunque. Hugues, osservando la quotidianità di Bruges, riconosce a livello istintuale la sua propria ambiguità di essere umano tra la vita e la morte; e come la regolarità religiosa di Bruges dà alla città quella sua costante sfumatura crepuscolare e irremovibile, così l’abitudinarietà del personaggio scandisce un tempo immobile, che sembra immortale ma che in realtà è solo morto.

Allora fu preso di colpo da un terribile smarrimento, di fronte alla fine di un sogno che sentiva agonizzare. Le rotture amorose sono anch’esse una piccola morte, con le loro partenze senza addii. Ma ciò che gli faceva più male in quel momento, non era la separazione da Jane, e nemmeno il frantumarsi dello specchio dei riflessi: era spaventato all’idea di ritrovarsi da solo – faccia a faccia – senza nessuno tra la città e se stesso. Certo, egli l’aveva scelta, questa Bruges irrimediabile, con la sua grigia malinconia. Ma l’ombra delle sue torri era troppo pesante per lui… […] Ora l’avrebbe subita completamente. Si sarebbe ritrovato solo, in balia delle campane! Ancora più solo, come in una seconda vedovanza… La città stessa gli sarebbe sembrata ancora più morta.

L’irrompere dell’esistenza, rappresentata dall’attrice Jane, dai suoi capricci e dalle sue manchevolezze, esalta il contrasto tra l’impossibile presenza (e perfezione) eterna ricercata da Hugues attraverso l’immobilità e la santificazione e il ripetuto e imperfetto morire di attimi dell’esistenza.
Il fatto è che la vita non si lascia plasmare, e tantomeno si presta a riprodurre ciò che noi riteniamo perfetto e che, in quanto perfetto, è anche opera ormai conclusa e, di nuovo, morta. Life happens, come dice un detto americano, la vita accade, e in vita l’immobilità non è concessa, come non lo sono la perfezione o la compiutezza.

La vita è offensiva e volgare, sfuggente a ogni interpretazione, ironica e cattiva, prigioniera della sua caducità, spietata; non è meno dolorosa della morte, sembra dirci Rodenbach, e sicuramente è meno confortante: la vita, attraverso Jane, si presenta a Hugues in tutto il suo menefreghismo, addirittura deridendolo per aver cercato di plasmarla, di imporle un modo di essere quando essa è solamente un divenire.

Realmente, adesso, l’intera casa era perita: Barbe se n’era andata; Jane giaceva in terra senza vita; la morta era ancora più morta…
Quanto a Hugues, guardava senza capire, senza più sapere.

Il vivere è talmente intollerabile, immenso e doloroso da risucchiare tutto e trasformarsi nel suo esatto contrario, anche aldilà della morte fisica; e Hugues si seppellisce e viene seppellito in se stesso, in compagnia della sua perfetta e immacolata mancanza.
Se il concetto di vita eterna viene rappresentato come un ridicolo e patetico ossimoro, l’assenza è così radicale da risucchiare ogni possibilità di ossigeno, anzi, da annullare l’idea stessa di possibilità, e imporre la sua eterna e immobile perfezione.
Come una bellissima pietra tombale.

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Georges Rodenbach
Bruges la morta (1892)
Trad. it. Catherine McGilvray
Roma, Fazi, 2016
pp. 105