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La sedia l’inghiotte come la sabbia la saliva, lui scatarra nelle sue fibre e si ritrova catapultato in pieno circo elettrico, in quell’orribile incrocio tra serraglio e macello dove avviene ogni sorta di esperienza galvano-bestiale, The Godhison Electrical Slaughterhouse o qualcosa di simile. Lì, più leggero di una particella escremenziale travolta da una folata di vento, gli è finalmente concesso di frequentare gli eleganti pachidermi che, secondo il parere generale, traggono un inaudito godimento dalla corrente elettrica che li bombarda, estasiati impietriti inchiodati, anguillati titillati dalla proboscide al culo, il loro membro massiccio che batte sordamente il tempo, tumb-tumb-tumb, e una sguardo languido! allucinato!! trasognato!!!, uno specchio su cui fondere tutte le frustrazioni dei boia elettrici.

Se dal rapporto tra Eros e Thanatos togliamo ogni componente malinconica e romantica, quel che rimane è un orgasmo esplosivo che si spegne nel niente, una scossa elettrica che si esaurisce in se stessa. E Claro, in Carne Elettrica, parla proprio di questo, attraverso una favola di morte e fuga che si esaurisce in un singulto godereccio di cui non si ha coscienza né memoria, ma che tormenta, martella, e crea una dipendenza esclusivamente epidermica, nervosa, psicopatica.

La storia di Howard Hordinary, boia elettrico americano rimasto disoccupato a causa dell’avvento e della diffusione dell’iniezione letale, e della sua ossessione per Houdini, di cui si crede discendente diretto, è la versione pornografica e nera di un qualsiasi canovaccio a tema amour fou. Si procede per singulti, salti tematici e narrativi incentrati su un niente putrefatto e carico di angoscia, diretti verso il vuoto.
La voce di Claro è poderosa e ipnotica, tutta proiettata verso la superficie, un bisturi che incide e mostra il buio esistenziale che sta dietro a un dispensatore di morte entusiasta e vacuo, a un aspirante mago che trova (illusoriamente) nell’escapologia la via di fuga da un’identità mutevole ma sempre troppo stretta; questa voce, senza mai perdere il controllo, si fonde con il grido isterico di un protagonista idiota, di un mondo di idioti, nevrastenici perché insensibili, monadi folli, incoscienti, e quindi incuranti.

Dopo che s’era avvicinata a lui all’insaputa di tutti, la ragazza col costume verde gli sussurrò il suo nome: *Szuszu*. Nome che precipitò dritto nel pozzo del suo orecchio senza sfiorarne le pareti, sasso perfetto forgiante attorno a sé il tubo del silenzio finché un piedistallo sorto dal nulla salì dentro di lui e si lasciò imprimere un marchio – tornò a casa con le mutande bagnate, consapevole che la vita di un mago era fatta di rumori e di fughe, di minuscole oscenità dissimulate nell’incavo dei palmi, di chiavi, di spaventi, di fami trattenute. Una lezione che si sarebbe dovuta trasformare quantomeno in destino.

Claro porta avanti la narrazione attraverso scariche di corrente alternata, dando alla luce un romanzo che più che una storia da seguire si rivela come un qualcosa da esperire, attraverso una tensione che esplode in continuazione, e che induce a pensare che una lunghezza maggiore sarebbe stata insostenibile. Le cento pagine di Carne elettrica celebrano il solipsismo dei nostri momenti morti, caricandoli di tutta la storia di tutte le morti, della Morte nella sua interezza, e dei pensieri di morte, delle ossessioni, dei progetti, degli incubi in formazione, per poi interrompersi sul più bello, nel momento esatto in cui l’incubo prende vita, contemplando una catastrofe da tempo immaginata, che ancora deve compiersi, ma che si dà per certa.

Al lettore, a romanzo concluso, resta la sensazione di aver fatto qualcosa che non era permesso fare, di aver contemplato un buio spaventoso perché soffocato dalla sua inconsistenza, stupido, privo di dolore e di speranza, e per questo incomprensibile ma familiare; un buio che avvinghia, costringe e comprime come cinghie di cuoio che legano a una sedia, come una camicia di forza, come una bara messa sott’acqua.

mattatoio11

Claro
Carne elettrica (2005)
Trad. it. di Stefania Ricciardi
Roma, Nutrimenti, 2011
pp. 100