«Orcodìo che megapinne!» urla il vecchio seduto sulla panchina, fracassando un silenzio ovattato che durava da ore. Scatta in piedi, scatarra un grumo di muco giallo e verde, lucido e compatto come il tuorlo d’uovo, si toglie la coppola e se la stringe tra le mani, mentre osserva le moto da corsa sparire in fondo al viale, su una ruota sola. «Pure mio figlio!», ancora a voce altissima, rivolto agli altri vecchi seduti sulla panchina, «pure mio figlio lo sa fare!»

***

Tiziano è il più debole di tutta la comitiva. La sconfitta più amara e svilente la subì da una ragazza. Un capetto un giorno gli disse: «Fai a botte con R. Vediamo se le prendi pure da lei. Ma tanto le prendi. Porca puttana quanto ce le prendi pure da lei.» Infatti, davanti al muretto sgretolato che cinge la chiesa e l’oratorio del quartiere, alle sei di pomeriggio, era febbraio, assai freddo, nuvole cariche di pioggia, le prese senza riuscire a parare nemmeno un colpo. R. gli spaccò il labbro superiore e per celebrare la vittoria si tolse il cappotto, lo buttò in terra, si alzò la felpa, si abbassò il reggiseno, e mostrò le sue mammelle gonfie, accaldate e fumanti, dure come pugni di gigante.
Relegato a figura di animale da compagnia, Tiziano serve per lo più a sbrigare piccole commissioni per i capetti. Andare a comprare le cartine, o un boccia di Sprite, o un paio di panini per la fame improvvisa di qualcuno, una bottiglietta d’acqua liscia, le gomme da masticare per l’alito delle femmine, o persino spostare a spinta un motorino parcheggiato male.
I capetti non sono intelligenti e si approfittano troppo di Tiziano, che si svilisce a tal punto da diventare catatonico; non parla più, nessun segno di vita; si mette in terra, seduto con le gambe incrociate; di solito, poco dopo, accanto gli si materializzano un maschio e una femmina, che si mordono il viso l’un l’altra, lei che ansima e dà di gridolini leziosi, da adulta, lui che compensa con gravissimi tuoni di gola.
In quella posizione, Tiziano rimane immobile. Duro e morto come una statuina di bronzo. A meno che non intervenga il Capo. Il vero Capo: Emanuele.
Spunta da dietro l’angolo di un palazzo verde muffa, col passo muscolare e robotico; attraversa l’assembramento di ragazzi che gli si crea immediatamente attorno; non saluta nessuno; continua guardando avanti a sé, arriva fin sopra Tiziano; gli chiede cosa c’è che non va. Allora Tiziano si smuove; guarda Emanuele negli occhi, e comincia  a piangere. R., B., F., per primi, prendono d’improvviso a ululare: un ululato minaccioso di lupi feriti e pronti all’attacco, cominciano a pestare i piedi sull’asfalto facendosi arrivare di rimbalzo le ginocchia alla gola, sono scalmanati, si tolgono i cappotti e buttano via i cappelli, i visi assumono forme aguzze e compresse, solidi stellati d’ossa e pelle tirata, a poco a poco anche gli altri si lasciano contagiare da una follia cieca e nera che sembra girare a vuoto, un circuito sovraccarico di braccia che mulinano fosforescenti nel buio. Emanuele si schiarisce la voce e chiede di nuovo, e con voce ancor più rassicurante, cosa sia successo; chiede perché il suo Tiziano se ne stia lì seduto in terra con le lacrime agli occhi. Tiziano si alza un po’, ma rimanendo accucciato. Quel tanto che basta per arrivare all’orecchio di Emanuele. Gli sussurra qualcosa. Le urla della comitiva, tutta quanta, ora una massa informe di grinze e occhi fiammanti e denti acuminati gialli e neri, si fanno sentire fin dentro le case coi televisori accesi a volume massimo. Emanuele rialza il busto. Punta lo sguardo su un compagno a caso. Immediatamente, quello si blocca – come per corto circuito. «V.!», grida Emanuele, e questi, senza aspettare che Emanuele dica altro, impercettibilmente annuisce, si gira su se stesso, prende a correre verso la strada. Un’automobile nera e grande come una nave cargo non fa in tempo a frenare e lo investe, spezzandogli una gamba all’altezza del femore. La comitiva, al suono secco e senza eco dell’osso che si rompe, come uscisse da un incantesimo maligno allo schioccare di due dita, si scarica, si immobilizza, ma elabora qualcosa, forse un comando, e infine esulta; esultano tutti. Ogni volto, adesso, è un volto inebriato di una gioia strabordante, le guance e gli zigomi rigonfi, lucenti, gli occhi umidi e strizzati, ogni lineamento, che sia di maschio o femmina, è sinuoso e labile, sfumato, perso e confuso nei lineamenti di ogni altro, e gli abbracci, e i baci sulle guance, e i movimenti aggraziati come di ballerini sulle note alte di un Čajkovskij; Tiziano poco a poco viene su, si stiracchia, si distende, torna da un sonno pieno di incubi incomprensibili. Emanuele gli afferra una mano, la porta al petto, e poi la alza in cielo: «Viva Tiziano!» E tutti gridano di rimando il suo nome, correndo poi ad abbracciarlo, corrono in blocco, un banco di pesci variopinti, gelatinosi e tondi, tutti molto attenti, nell’abbracciarlo, che non soffochi.

Emanuele esce di casa quando il sole è tramontato. Raggiunge la comitiva e se ne sta seduto tutto il tempo su una sedia di plastica bianca, rubata a un bar lì vicino anni or sono. Gli fa luce un lampione ricurvo poco lontano. Una ragazza, una sempre diversa, gli si siede sulle gambe e gli porge il collo nudo, scostandosi i capelli all’altro lato, qualora li abbia lunghi. Emanuele tiene il suo sguardo in linea retta, sopra la piccola gobba del naso, in maniera ostinata e ottusa: crede di apparire come qualcuno che abbia un oscuro ed elaboratissimo progetto, troppo complicato da poter spiegare a ragazzi stupidi come quelli della comitiva.

Emanuele spalanca la bocca: di colpo, tutti quanti – anche chi è più lontano e in teoria non dovrebbe riuscire a cogliere il momento – gli si vanno a disporre davanti a semicerchio, facendo attenzione che nessuno ingombri la visuale di chi sta dietro; la prima fila mantiene la distanza di un paio di metri dalla scena principale.
Cala lentamente il morso di Emanuele, piccoli incisivi e canini lunghi, forse finti, protesi di ceramica, e la ragazza soffre senza poter emettere alcun suono. I maschi spalancano gli occhi e la bocca mimando l’affondo, e mentre lo fanno si sbavano sul mento glabro, con la saliva che scivola veloce a terra; le femmine si portano una mano sul petto e tremano. Provano un piacere talmente intenso da accorgersi d’istinto che in loro sta nascendo una malattia severa e intollerabile, che le porterà, in futuro nemmeno così lontano, alla più dolorosa e svilente delle dissoluzioni. Si danno mentalmente delle povere anime, l’una con l’altra.
La ragazza seduta sulle gambe di Emanuele, ormai svenuta, viene lasciata rotolare in terra, con piccole gocce di sangue che fuoriescono cadenzate dal collo biancastro e verde. Emanuele sputa via il sangue misto a saliva, poi si asciuga le labbra col dorso della mano. Monta pian piano un timidissimo applauso della comitiva.

È sempre un giorno di fine settembre quando tutto si rimette in discussione.
Un capetto, alle cinque del pomeriggio, si presenta davanti alla chiesa del quartiere a torso nudo, con dei segni rossi sul petto, come di graffi procurati a seguito di una piccola lotta. Urla bestemmie impensabili, esilaranti, cercando di mantenere un tono baritonale – ma senza riuscirci: quanto più dà fiato, tanto più la sua voce, il suo verso, somiglia a quello di un uccellino affamato o in pericolo. I preti si affacciano dalle finestre della canonica e degli uffici a pian terreno, si fanno il segno della croce e sorridono. Il rintocco melodioso della campane copre per circa trenta secondi le sue urla, ma non per questo si risparmia nel dar fiato alle corde vocali che vanno via via logorandosi.
Verso le sette di sera, con tutta la comitiva radunata, in silenzio, ben disposta in un’unica e lunghissima fila parallela al muro che cinge la chiesa e l’oratorio, il ragazzo voce d’uccellino è ancora lì a gridare le sue bestemmie ormai deboli, solo rantoli e fiato rotto, i muscoli del viso gonfi e ormai prossimi alla paralisi. Il sole ha da poco toccato la linea d’orizzonte e il cielo si è fatto color salmone, con fasce orizzontali arcuate e cangianti, dal viola all’arancio. Oltre l’angolo del palazzo verde muffa, un brevissimo rumore acuto. Un pigolio elettrico. Ci si accorge, man mano che ritorna, che il rumorino scandisce un ritmo; e più si avvicina, meno è acuto. Quando sembra che stia per sbucare, prossimo al manifestarsi per intero, lo si riconosce come un  battito di mani. È Emanuele.

 ***

I padri di famiglia portano a casa i soldi gareggiando in corse clandestine. Automobili e motociclette. In piena estate si corre anche il pomeriggio. Finite le vacanze, smessi i panni spettrali, ripopolato dei poveracci di ritorno da misere giornate nelle spiagge di cartoni e cenere, il quartiere detta i tempi e le corse riprendono soltanto a orari serali, e via via notturni. W., il padre di Tiziano, ha una Kawasaki Z750 del 2012, 106 cavalli, completamente nera, riverniciata, senza targa, e vorrebbe che suo figlio imparasse a guidarla al più presto, perché il suo mal di schiena è diventato ben più che lancinante, e non ce la fa più a sopportare il dolore e le sconfitte.
Tiziano è divorato da un senso di colpa le cui fauci si spalancano lungo tutto il perimetro del quartiere. Suo padre non sa come viene trattato dai suoi compagni di comitiva. La Kawasaki Z750 è troppo pesante e troppo alta. Tiziano ci è salito una volta di nascosto e per poco non ne cadeva dalla sella di faccia, con le mani in ritardo, ancora strette sulle manopole gommate.
Il nonno di Tiziano, il Signor P., è un vecchio che si siede ogni pomeriggio sulla panchina davanti al negozio di cibo per animali, che a sua volta si affaccia sulla larga via principale. Se ne sta zitto tutto il tempo, ma quando sente il rombo altissimo delle motociclette che piegano, impennano e si stendono, balza in piedi, come caricato a molla; e da quel momento non lo si può più fermare: a sedere non ci torna, svolazza intorno agli altri vecchi e gracchia frasi incomprensibili, li invita ad alzarsi e pretende di fare a pugni con ognuno di loro tenendo una mano dietro la schiena, fa finta di entrare nel negozio di animali mentre mima l’atto di masturbarsi, se passa qualche ragazza, o anche qualche signora, più o meno attempata, prende a fischiare partendo al galoppo; finché poi, senza più fiato, non crolla a terra con un certo sorrisino, gambe all’aria, e con la poca voce che gli rimane, senza che nessuno riesca a sentirlo, dice: «Non mi ammazzo. Famiglia mia. Io non mi ammazzo. Vi voglio bene. Vi voglio così bene che ora… Mi scoppia il cuore…»

 ***

Qualcuno corre al bar più vicino per rubare una sedia di plastica. Quando torna, la sistema accanto a quella già pronta. Il ragazzo voce d’uccellino ora tace, ma cammina su e giù, passando in rassegna gli sguardi straniati dei suoi compagni di comitiva, tutti addossati al muro. Li guarda come fosse il maestro di una classe disastrosa e immeritevole. Ogni volta che arriva al termine della fila e torna indietro, il ragazzo espira dal naso, caccia fuori un suono denso e ruvido, come di vapore da un ferro da stiro; gli occhi spalancati e il labbro inferiore che gli arriva quasi a toccare il naso. Il rossore dei graffi sul petto è pressoché sparito, ma rimangono piccole pellicine alzate, tutte in fila lungo precisissime rette diagonali. Emanuele se ne sta sul marciapiede opposto, col suo solito sguardo sciocco e determinato. Accanto a lui, Tiziano tiene con due mani una bottiglia di Sprite da due litri, ancora da aprire.
«Mi tolgo la maglietta», dice Emanuele. Tiziano afferra il bottiglione per il collo e se lo sistema sotto un’ascella. Il bottiglione gli scivola e lui si muove tarantolato per non farlo cadere a terra. Emanuele gli porge la maglietta nera, fradicia di sudore, che emana un puzzo tagliente e dolciastro; Tiziano lo inspira dilatando più che può le narici, credendo che Emanuele non lo veda.

Le due sedie bianche di plastica sono poste a una distanza di tre metri dal muretto, e cinque metri l’una dall’altra. Il ragazzo uccellino si muove per primo. Va verso la sedia di sinistra, quella verso il viale. Ci mette un piede sopra, poi l’altro. La sedia serve da piedistallo. Emanuele, più lento e rigido del solito, raggiunge la sedia di destra, quella verso il palazzo verde muffa. Anche lui, prima un piede poi l’altro. Emanuele è nettamente più alto e muscolato del ragazzo uccellino, che pare essersene accorto anche lui, ma soltanto adesso. I compagni della comitiva si dispongono entro il semicerchio rituale. La distanza però è maggiore rispetto allo spettacolo vampiresco e quotidiano. La fila più lontana è costretta a starsene sulla strada, oltre il marciapiede.
Il cielo si è fatto di tre strisce nette color viola, rosso chiaro e arancione. Le scure silhouette dei duellanti si stagliano come un teatro d’ombre. Tutta la comitiva è a bocca aperta. Il silenzio è così disciplinato che arrivano lontanissime le voci grasse e infantili dei preti: ridono e si raccontano barzellette. Non passa nemmeno un’automobile. Una signora con un carrellino, a testa bassa, risale il marciapiede; appena vede il capannello di ragazzi, senza nemmeno starci a pensare, attraversa la strada e sgambetta sull’altro lato, col capo ancor più chino sul petto.
R. alza un braccio. Si voltano tutti a guardarla, con le bocche ancora aperte. Il braccio rimane alzato per mezzo minuto. Poi giù, così veloce che R. strizza gli occhi e digrigna i denti, come si fosse slogata una spalla per quanta forza ha messo.

Il ragazzo uccellino inspira tutta l’aria che riesce a incamerare. La cassa toracica si gonfia e l’addome si appiattisce. Trattiene il respiro, a occhi chiusi. Poi espira più lento che può, occhi sempre chiusi, braccia molli lungo il tronco.
Mano sinistra su, all’altezza del mento. Pugno stretto. Mano destra su, all’altezza dell’orecchio. Pugno stretto. Occhi aperti. I muscoli delle braccia, d’un tratto, appaiono più grossi, le fibre imbevute di sangue ne aumentano man mano la circonferenza, un secondo dopo l’altro; affiorano le piccole vene come affluenti, mentre sul taglio dell’avambraccio destro un condotto tubolare preme da sotto la pelle e diventa una specie di protesi metallica, aggiunta senza criterio alcuno, se non per spargere inquietudine tra chi ammira lo spettacolo.
Il ragazzo uccellino, pur standosene nudo davanti a decine e decine di occhi puntati, è riuscito a gonfiare a dismisura la propria massa, senza che nessuno si sia accorto con coscienza del processo; ora, più che uccellino, il ragazzo è un cane molosso con le fauci serrate, i muscoli irregolari, forme poligonali scalene, ed è il petto a essere la fascia saliente: fa su e giù seguendo il ritmo del respiro, un petto nero dalla sagoma di doppio ottagono enorme. La posa è quella di un boxeur esperto, ma della metà del ventesimo secolo.
Rimasto immobile fino a quel momento, appena Emanuele comincia a incamerare aria un paio di ragazze prendono a singhiozzare, mentre i maschi si leccano nevroticamente le labbra, tanto da tirar fuori una schiumetta giallastra e collosa, che in breve tempo li fa sembrare in preda alla rabbia canina.
I movimenti di Emanuele sono secchi e improvvisi. Gli angoli delle giunture non si aprono mai più di quarantacinque gradi. Una mano stretta a pugno sotto al mento e una all’altezza del bacino; ruota il busto di quarantacinque gradi in direzione dell’avversario; femmine e maschi smettono di respirare. Emanuele porta il gomito destro all’indietro, flette leggermente le gambe, di colpo risale sferrando il pugno nell’aria, basso verso l’alto, angolo non oltre  i quarantacinque gradi, braccio teso senza alcuna rotazione, i muscoli allungati e sottili, se ne intuiscono le striature spesse come capelli, maschi e femmine tossiscono e riprendono a respirare ma in affanno, il ragazzo cane molosso, a metri di distanza, in piedi sulla sedia bianca di plastica, vacilla e trema, un fremito lungo la gamba destra gli fa perdere l’equilibrio per un momento, e quasi cade.

Destro, sinistro, guardia, destro, schivata, uno-due, destro, destro, destro più forte possibile, e l’avversario che produce gli stessi movimenti ma in sequenza contraria, e uscendosene con un sinistro-sinistro-destro, all’improvviso, che fino a quel momento non era ancora stato eseguito, ma si è cominciato da poco e le combinazioni sono infinite.
Le femmine urlano e i maschi ruttano, muovendo la testa insieme a quella dei due sfidanti. Il ragazzo cane molosso riproduce un set di movimenti solidi ma polverosi; vorrebbe mettere in evidenza una sua maggiore scioltezza, ma al contempo, avendo ingigantito la sua massa muscolare, risulta goffo, comico; fa ridere, più che incutere timore.
Emanuele è un robot dalle leve lunghe, frusta l’aria con un progetto matematico in testa. Non sembra nemmeno che respiri. Esegue un programma. L’angolatura dei suoi colpi non ha flessioni, né eccedenze; questo i maschi lo percepiscono meglio delle femmine, e infatti hanno tutti un principio di erezione. Muovono il bacino all’indentro per dissimularla. Le femmine cominciano a guardare al ragazzo cane molosso con la loro pietà piccolina, sapendo che quella sarà l’ultima volta in cui gli riconosceranno un qualcosa di simile alla dignità.
Il cielo è scarlatto. Le sagome danzanti sono oscure, forme non più osservabili, di una materialità  azzerata, o addirittura spinta in negativo. Il ragazzo cane molosso continua i suoi sinistro-sinistro-destro, schivata, guardia alta, schivata all’indietro, gancio secco, e poi da capo, questa sequenza e nient’altro, incaponito ma cosciente, più che altro, di doverne uscire senza tracolli o disonori.
I maschi della comitiva sono irrequieti. Qualcuno si mette a saltellare e sferra qualche pugno a vuoto. Subito qualcun altro lo imita. R. mima una guardia, ma B. prontamente la afferra per i polsi e si porta le sue mani sopra al cazzo in tiro; R. abbassa lo sguardo e sorride, rilassando i muscoli delle spalle. B. le dà un piccolo bacio sulla fronte.
Il ragazzo cane molosso si sgonfia. È un attimo: pare tornato l’uccellino di sempre. Anzi: ancor più gracile. Abbassa la guardia sfinito, diventa di gomma, una striscia gelatinosa che ripiega su se stessa, scivola dalla sedia, cade a terra, rimbalza due volte. Ora è una pozza di vomito che pulsa. Una femmina urla disgustata. Un’altra abbraccia un maschio, gli salta addosso, ci si appende staccando i piedi da terra. Gli altri corrono in cerchio, restando però entro il marciapiede.
Tiziano si infila tra le cosce la bottiglia di Sprite. Da sopra la spalla prende la maglietta nera di Emanuele. È asciutta, ma il fetore è rimasto. Ci affonda il naso chiudendo gli occhi. Pensa a suo padre: lo vede su una sedia a rotelle. Immagina se stesso a cavallo della Z750 nera. La doma lungo il viale, facendola impennare a tal punto da metterla in diagonale, ma all’indietro: novantacinque, cento gradi. Nelle strade strette fa zig-zag tra persone, motorini, cani, belle fiche, uomini grassi e pelati, sguardi torvi e occhiate sensuali, è primo e dietro di lui non c’è nessuno, tanto va veloce. Taglia il traguardo, che è segnato all’altezza del palazzo verde muffa, proprio sulla strada della chiesa del quartiere. Smonta dalla sella facendo forza sulle sole braccia. Si toglie il casco integrale e appena rialza la testa c’è davanti a lui Emanuele; che gli dice: «Una gara da campione, Tiziano». “Tiziano”… Il suono della voce dolce di Emanuele gli provoca una profonda palpitazione che rompe il fiato; apre gli occhi. Si è fatto buio. Il cielo nero. La sagoma di Emanuele è d’argento. Ancora in piedi sulla sedia di plastica. Guarda avanti a sé. Il suo sguardo insensato e dritto. Tiziano è sulla traiettoria, mentre ha ancora in mano la maglietta; col solo labiale dice: «Hai vinto.» Emanuele, allo stesso modo, risponde: «Io vinco.»

***

Buio alle cinque del pomeriggio. Due ragazzi sull’uscio di un minimarket sorseggiano birra in lattina. Uno dei due, quello più basso, ha lo sguardo perso e ogni tanto caccia un bel rutto rotondo, a bocca semi chiusa. L’altro canticchia una canzone di tre note.
Quello basso dice: «Dimmi un po’ com’è andata ieri.» Quello alto risponde: «Gli ho menato. Come vuoi che andava. Gli ho menato.» Un sorso di birra. Riprende: «Gli ho da–» Un rintocco cristallino sostenuto da un campo di vibrazioni più gravi e lente interrompe il ragazzo. Le scampanate successive danno forma a una melodia elementare che si ripete per tre volte. I due ragazzi muovono impercettibilmente le orecchie all’indietro, come cani. Aguzzano lo sguardo e lo puntano in angoli vuoti della strada: sotto i pianali delle auto, fra i balconi vuoti dei palazzi, sulle pozze d’acqua che ristagnano nelle buche dell’asfalto. Muovono il collo a scatti, finché la vibrazione dell’ultima campana non svanisce del tutto. I volti dei due ragazzi tornano come prima. Ma non del tutto rilassati.
Mentre il ragazzo alto sta per riprendere il discorso interrotto, uno che ha appena attraversato la strada gli si fa incontro. Sotto le luci che provengono dal locale, i due riconoscono Tiziano. Lo salutano; ma lui non risponde. Tiziano entra nel minimarket.
«Gli ho dato un cazzotto,» riprende quello alto. «Un cazzotto in faccia. Forte. Che gli dovevo dare? Un cazzotto in faccia, bom, steso, crollato per terra.»

***

In copertina: Black Flag, “Victimology Tour”.