Il fringuello era fermo sulla grondaia. Giorgio credeva fosse malato e già fantasticava di poterlo curare e tenere con sé.
Avvicinò con delicatezza la scopa più volte, sfiorandogli le penne. Nessun movimento.
Trascinò allora il corpo nelle immediate vicinanze della finestra immaginando un posto in giardino dove seppellirlo, fare un piccolo cumulo e metterci una croce.
Era alla ricerca di uno straccio quando un forte battito lo sorprese alle spalle: un corvo era atterrato e stava beccando il fringuello.
Giorgio si sentì gelare. Lanciò la scopa con violenza e fece cadere entrambi gli uccelli dieci metri più in basso, nel giardino, dove suo nonno innaffiava l’orto.
Il corvo era a terra, con un’ala malandata e una zampa che non gli permetteva di camminare né saltellare. Nei suoi occhi bluastri si intuiva il terrore di chi non ha più vie di scampo.
Giorgio raccontò tutto al nonno e il nonno gli spiegò che, come gli uomini prendono cibo dal frigo, così i corvi mangiano animali morti.
«Ora lo curiamo».
Prese l’animale con un guanto, lo poggiò sul tavolo e per conquistarne la fiducia gli porse dei pezzetti di carne.
Il ragazzo era afflitto: stava provocando la morte di un animale che non aveva fatto nulla di sbagliato, eppure gli sembrava il contrario e non riusciva a capacitarsene. Dopo mezz’ora e una medicazione accurata lo portarono in una cesta in mansarda. Solo allora Giorgio si recò in un luogo appartato del giardino, scavò una buca e seppellì il fringuello, con tanto di salmo.
Da quel momento si poté dedicare al corvo. Lo chiamò Oliver.
Appena sveglio saliva in mansarda, gli portava da mangiare e iniziava a giocarci; se Giorgio si allontanava, Oliver gracchiava subito per richiamarlo. Dopo qualche giorno convinse la mamma e il nonno a tenere il corvo nella sua stanza. A distanza di due settimane gironzolavano in casa e giocavano in giardino.
Alla fine dell’estate, quando Giorgio ritornò a scuola, il corvo ne fu scombussolato, ma si adeguò presto al ritmo: aspettava l’amico appollaiato sul davanzale della finestra al pianterreno.
Dopo alcuni mesi Oliver riprese a volare. Iniziò a frequentare anche altri corvi, tanto che, quando Giorgio e il nonno andavano a passeggio nel bosco, il gruppo di uccelli li seguiva di albero in albero.
Oliver tornava di sera: gracchiava alla finestra e si metteva a dormire nella sua cesta.
Poi iniziò a non tornare per la notte. Alle volte si presentava quando il suo amico era assente solo per un pasto gratis.
E furono anni.
Ciò nondimeno, nelle passeggiate per il bosco, Giorgio si trovava sempre attorniato da un folto gruppo di corvi curiosi che gli salivano sulle braccia o mangiavano dalle sue mani.

Fu quel respirare dentro il bosco fra i suoi amici che gli volavano sopra, tra il fresco e il verde che si perdeva nei sensi, l’immagine più nitida e cara della sua adolescenza.
Tutto era passato senza fretta o molto più rapidamente di quanto potesse immaginare, eppure quell’aria, quei colori, quei profumi gli sembravano ancora vivi nelle sere in cui la lontananza si trasformava in solitudine e la solitudine diveniva deserto. Quello stesso dove si trovava a combattere da mesi.
I suoi compagni di truppa erano morti. L’ultimo qualche ora prima, crollato dal caldo e dalla fatica degli innumerevoli giorni di fuga.
Giorgio, col fisico debilitato dalla fame, riuscì a scavargli una piccola fossa sotto il cono d’ombra di un enorme masso. Avrebbe voluto lasciarsi morire anche lui, ma sapeva di avere ancora forze per poter riprendere il cammino.
Dopo mezz’ora di viaggio, mentre ripensava a casa e all’ultimo giorno in cui aveva visto Oliver, si accorse di aver lasciato un caricatore alla distesa di rocce dove aveva seppellito il compagno.
Decise di ritornare. La stanchezza lo costringeva ad andare a rilento, mentre la fame seguiva un tragitto parallelo e forsennato che Giorgio tentava di placare con l’acqua.
Oltre un avvallamento, in vista della formazione rocciosa, notò una scia di fumo propagarsi nel cielo. Imbracciò il fucile e si nascose presso il primo ricovero, iniziando il suo percorso d’agguato.
Il fumo proveniva proprio dallo spuntone sotto cui aveva sotterrato il suo compagno: c’era un fuoco e c’era un uomo. Altezza media, abiti civili, colore olivastro: poteva essere un nemico?
Stava solo mangiando. E mangiava qualcosa che a Giorgio, vedendo i mucchi sparsi di terra dissotterrata, fu subito chiaro.
Esplose un colpo, il fucile era una continuazione metallica delle sue vene.
L’uomo era crollato a terra, centrato da un proiettile. Gridava, ma la ferita, all’altezza dei deltoidi, non poteva essere letale.
Giorgio scese dall’avamposto e raggiunse il fuoco: vi era della carne. Carne arrosto. Una gamba. E dall’altro lato, il cadavere del suo compagno.
Provò pietà e schifo. Quando gli aveva sparato, quella bestia stava azzannando un pezzo di polpaccio non ancora cotto.
Distrutte le fiamme, rimise il cadavere dentro il fosso ricoprendolo di nuovo.
Lo straniero gli si avvicinò, era ferito e disarmato e gli stava offrendo la sua borraccia d’acqua in cambio di un aiuto. La lingua era incomprensibile. Giorgio prese coltello, alcol e morfina per un’operazione rude ma veloce.
Estratta la pallottola, legò delle bende ai lembi del braccio e intorno alla spalla e fece tutto quanto fosse nelle sue possibilità. L’uomo soffriva molto, solo grazie alla morfina riuscì ad addormentarsi.
Anche Giorgio volle riposare ma sapeva di essere al punto d’inizio. Doveva riprendere una strada che probabilmente non aveva senso, senza contare che non voleva lasciare quell’uomo dopo averlo quasi ferito a morte.
Ore dopo fu il dito dello straniero a dissipare il dubbio: conosceva la zona e indicava qualcosa che poteva essere un’oasi, un rifugio, un villaggio in cui potersi rifocillare.
Intrapresero il cammino, la fame tornava a farsi sentire.
L’uomo restava davanti, Giorgio lo seguiva come un automa, era senza energie.
Quando, tempo dopo, lo straniero crollò sul terreno, Giorgio continuò per qualche metro prima di accorgersene. Il suo compagno era impallidito. Farfugliava qualcosa in un tono disperato, come di chi si sente vicino al traguardo ed è costretto alla resa.
Giorgio si distese, faccia a terra, la fame gli toglieva la voglia di vivere mentre i succhi gastrici continuavano a lottare con le pareti dello stomaco.
Dopo una lunga pausa, si rialzò mettendosi il braccio dello straniero attorno le spalle. Fu un’ora d’inferno. Camminavano più veloce per giungere prima alla salvezza, ma la fame era un’onda nera e alta che li tormentava e quel loro incedere barcollando aveva aumentato a dismisura le distanze.
Le case che credevano di vedere all’orizzonte diedero un inatteso vigore, entrambi speravano che qualcuno venisse loro incontro. Ma il paesino era in macerie.
Lo straniero raccolse le sue ultime forze e si mise a correre, gridò, infine si accasciò sotto alcune rovine.
Giorgio non pensò più a nulla tranne che a preparasi per la notte e scomparire sotto la giacca. Quando si svegliò era mattino, ma voleva dormire e prese subito della morfina.
Si agitarono sogni il cui unico ricordo era quello di un corvo attaccato all’esterno di una piccola gabbia. Era intento a infilare il proprio becco dentro le sbarre, mentre in basso era disteso un uccello morto.
Riaprì gli occhi: la fame era tornata a battere. Il tramonto velava la visione di luce e un drappello di corvi era disposto a cerchio intorno al suo luogo di riposo.
Lì trovavano appiglio fra i cumuli, ora alti ora bassi, delle case distrutte.
Giorgio, stupito, si avvicinò allo straniero, per svegliarlo. Lo scosse, senza successo. L’uomo era morto e tra poco sarebbe toccato anche a lui, pensò.
I corvi sembravano quieti nonostante la sua vicinanza. Erano diversi da Oliver, una razza più piccola adattata a quelle condizioni. Nessun becco si era inoltrato nel corpo del suo compagno e nessun movimento di ali vi era stato nonostante la sua presenza dovesse incutere un minimo di circospezione.
Erano lì silenziosi ad attendere il loro turno.
Giorgio pensò che doveva seppellire quel corpo in una fossa e gettarsi dentro anche lui, dire le ultime preghiere.
La borraccia dello straniero era lì vicino. Avrebbe potuto mantenersi idratato a lungo, forse continuare nel suo percorso di fuga se solo ne avesse avuto la forza.
Nel frattempo traballava dentro la figura nero-concentrica, i corvi non si muovevano. Era tutto molto strano, Giorgio conosceva benissimo quegli uccelli, il loro timore, la loro diffidenza.
Sopra un residuo di muro più alto spiccava un corvo più grande che lo guardava fisso. Aveva continuato a fissarlo sin da quando si era alzato. Era diverso dagli altri, assomigliava a Oliver.
Giorgio si inginocchiò in preda a uno scoramento ancora più grande della sua fame proprio di fronte a lui, come a chiedergli consiglio.
Il corvo lo guardava, i suoi occhi erano seri, stizziti, trapelava irritazione negli impercettibili movimenti del collo, gli aleggiavano pensieri inquieti, oltremodo indiscutibili, penosi, gracchianti:
«Quante volte un uomo può commettere lo stesso errore?»

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In copertina: Edouard Manet, Il corvo, incisione.