Buio: un tonfo sordo scuote il silenzio.

Qualcosa mi svegliò nel cuore della notte.
Mi alzai a sedere con le coperte che mi coprivano fino al petto mentre un leggero freddo scivolava sulla parte nuda del mio corpo. Mi guardai intorno, cercai di vedere meglio, di osservare la figura che si trovava a pochi metri da me immersa nella penombra ma leggermente illuminata dalle poche luci che filtravano dalla finestra. Quella cosa era vicina, così vicina da potermi quasi toccare.
Inorridii.
Mi sentii cogliere dal panico, rimasi immobile per minuti con le coperte sopra la testa, tremando, nella speranza infantile che quel centimetro di lana potesse proteggermi, nella speranza che una volta aperti di nuovo gli occhi quella cosa sarebbe scomparsa.
Passò del tempo, abbassai il lenzuolo e detti un’altra occhiata: pensai che stessi sognando, o che almeno fino a pochi minuti fa avessi sognato, guardai.
La cosa era ancora lì, immobile, non c’era dubbio che fosse lì, adesso la vedevo chiaramente, deve essere morta, qualsiasi cosa sia, pensai, deve essere morta.
Cercai di rimanere immobile, cercai di svegliarmi, ma alla fine mi resi conto dell’impossibilità di sfuggire a quella presenza, potevo rimanere lì anche per ore ma prima o poi avrei dovuto andare in bagno o mangiare o comunque spostarmi, rimasi a riflettere ancora un po’ e alla fine decisi di affrontarla.
Sgusciai fuori dalle coperte con cautela e mi sporsi con la testa dal fondo del letto, allungai il collo cercando di tenermi ancorato al materasso, cercando di evitare il contatto col terreno, la mia vista si abituò al buio, guardai ancora e fu allora che la vidi.

Stava lì, vicino all’armadio, illuminata dalla luce della luna che filtrava dalla finestra.
Era piccola, della statura di un bambino. La pelle era nera, un nero puro, irreale.
Ai piedi portava un paio di scarpette, un vestitino rosso con le bretelle copriva il corpo immobile, le mani erano avvolte da due grossi guanti bianchi e la testa… la testa era grande, rotonda, con due orecchie enormi, orecchie da topo.
Ero sicuro di essere impazzito. Allungai la mano e la toccai, o meglio lo toccai…

Mi accorsi che era freddo, freddissimo.

Lo toccai ancora e mi resi conto che quel coso, qualsiasi cosa fosse, era fatto di carne, di una carne che non avevo mai sentito o immaginato ma che era comunque una qualche forma di carne, lo toccai ancora e ancora fino a confermare la mia supposizione, era morto.
Se era morto, pensai, doveva essere stato anche vivo. Mi dissi che non poteva essere lui, eppure sembrava proprio lui, ma come poteva essere lui e poi come faceva ad essere morto se non esisteva nemmeno?
Mi detti uno schiaffo pensando ancora che stessi sognando, me ne detti un altro e decisi che, se al terzo non mi fossi svegliato, avrei potuto considerarmi definitivamente pazzo. All’improvviso udii un altro colpo simile a quello che mi aveva svegliato.
Veniva dalle scale, era stato un tonfo sordo, come qualcosa di vuoto che cade contro un qualcosa di vuoto.
Attraversai il corridoio cercando di non fare rumore e fu allora che lo vidi.
Era steso in maniera scomposta per le scale, sembrava un burattino, un burattino rotto.
Aveva in testa il suo cappello rosso, la sua camicetta aderente a sua volta rossa gli avvolgeva il corpo esanime, ai piedi portava due buffe scarpe ma quello che risaltava era il naso, un naso enorme, deforme. Era chiaramente chi pensavo, era lui, sì era lui e anche lui come l’altro era morto.
Rimasi a riflettere sul da farsi, ormai certo di essere pazzo.
Mio figlio dormiva in camera sua, era il mio turno. Altri due giorni e avrei dovuto portarlo da mia moglie (la mia ex moglie).
Decisi comunque che non era il caso di svegliarlo, soprattutto viste le allucinazioni di cui ero preda. Cercai di ricordare che cosa potessi avere mangiato o esattamente chi e per quale motivo mi avesse drogato. Poi pensai alla pazzia, alla seduzione della pazzia, se ero diventato matto allora dovevo accettarlo, è così che si diventa pazzi? Così dal nulla, in camera tua, sei lì che dormi poi zac, quel topo ti muore davanti? È davvero così? Mi venne da ridere, poi mi venne da piangere o forse da urlare ma non feci in tempo a decidere perché i miei pensieri furono interrotti da un altro tonfo, il terzo.
Mi resi conto che non sarebbe stato l’ultimo, è come se stesse piovendo, pensai.
Scesi in salotto evitando la carcassa che stava ancora là, sdraiata sulle scale.
Avevo bisogno di bere qualcosa.
Sul pavimento, muso a terra, c’era un papero, un papero dalle fattezze umanoidi con un buffo vestito da marinaio che gli avvolgeva il corpicino straziato.
Lo scavalcai fino a raggiungere la madia, presi una bottiglia di whisky e ne versai due dita.
Ci furono un altro tonfo, un altro e un altro ancora e poi qualcosa, come una esplosione, seguita da allarmi d’auto e sirene della polizia.
Mi fiondai fuori per capire cosa fosse successo e scoprii che un elefantino di dimensioni medie con in testa un improbabile cappellino si era schiantato su un’auto, distruggendola.
Fu quando vidi il mio vicino di casa osservare sconvolto quella cosa che capii la gravità della situazione.
Ci guardammo negli occhi, indecisi se parlare o rimanere in silenzio.
Lo vedi pure tu? Mi domandò.
Annuii mestamente.
Hai visto gli altri? Domandai.
Questa volta fu lui ad annuire.
Ne ho seppelliti sei in giardino, disse. Però continuano ad arrivare.
Anche suo figlio dormiva, sua moglie invece ci osservava preoccupata dalla finestra, la vidi, i nostri sguardi si incrociarono e lei mi salutò con la mano senza cambiare espressione.
Lo invitai a casa mia per discutere la situazione.
Ammassammo le carcasse in garage e, davanti a un bicchiere di whisky e una sigaretta, iniziammo a confrontarci.
Hai visto in tv? Domandò lui.
Io rimasi in silenzio poi scossi la testa, temendo ciò che mi aspettava.
Senza dire niente prese il telecomando e accese il televisore.
Il telegiornale in edizione straordinaria mostrava militari che ammassavano montagne di corpi nelle discariche.
Montagne di topi, orsetti, paperi, conigli, bambole, maiali, bambine dalle fattezze deformi e con teste e occhi enormi, carcasse di ragazzi muscolosissimi con i capelli a punta, il fango si mischiava ai corpi sporcando i loro colori accessi, il cielo era nero ma luminoso, di una luminosità orrenda che sembrava un presagio, un presagio che accarezzava le maschere antigas dei soldati, le tute anticontaminazione, le camionette, i blindati dell’esercito, la voce della giornalista scompariva di fronte alla forza delle pale degli elicotteri, in lontananza si vedevano fosse comuni e roghi che si estendevano con il loro alone rossastro fino alla linea dell’orizzonte.
Il bicchiere mi cadde di mano.
La presentatrice parlava a perdifiato facendo ipotesi, gli ospiti in studio cercavano di imporre la loro opinione, c’erano scienziati, occultisti, psicologi, soubrette, politici… e intanto le immagini dei corpi in fiamme riempivano lo schermo. Si vedevano soldati in maschera antigas, intenti ad accumulare e bruciare e poi file di camion che arrivavano in una lenta processione, come un scia nera di formiche che si perdeva nell’oscurità.
Inviati da tutte le capitali mondiali riportavano le stesse notizie: era così a Tokyo, a Berlino, a New York, era così anche in Siria e in Iraq, giravano video di terroristi intenti a pregare di fronte alle cose che cadevano dal cielo, vecchi pastori afghani che mostravano le carcasse accumulate nei villaggi, era così in Africa, era così ovunque, in ogni luogo, il mondo si stava riempito di quella roba.
Uno strano signore con i capelli bianchi continuava a parlare di qualcosa legato agli archetipi mentre gli animi si scaldavano e nascevano discussioni mal giostrate dal presentatore.
Spensi il televisore.
Mi sedetti e buttai giù un altro bicchiere, tutto d’un fiato, il liquido scivolò bruciante nella gola facendomi quasi lacrimare gli occhi, respirai forte e ne versai ancora.
Poi mi accesi un’altra sigaretta e tornai a parlare col vicino.
Tuo figlio dorme? Domandò lui col tono di chi sa qualcosa che tu non sai.
Annuii.
Dormono tutti, disse poi.
Tutti chi? Chiesi preoccupato.
I bambini, tutti i bambini del mondo. Si accese un’altra sigaretta e dette una grande boccata.
Dicono che è colpa loro, dicono che è qualcosa legato ai bambini.
Ci fu un altro colpo.
Ma non possiamo svegliarli? Domandai io preoccupato, del resto mio figlio era al piano di sopra.
Lui scosse la testa.
Non si svegliano.

Tonfo sordo.

Hanno provato in tutti i modi.

Tonfo sordo.

E sconsigliano di provarci.

Tonfo sordo. Tonfo sordo. Tonfo sordo.

Dicono che potrebbe essere pericoloso.

Tonfo sordo. Tonfo sordo. Tonfo sordo. Tonfo sordo.

Lo dicono in TV e su internet, lo dicono ovunque.

Tonfo sordo. Tonfo sordo. Tonfo sordo. Tonfo sordo. Tonfo sordo. Tonfo sordo.

E poi ci furono un boato e una luce, fortissima, che sembrò come accendere il cielo.
Ci precipitammo fuori, non solo noi, tutto il vicinato, tutta la città.
In strada c’era qualcosa di enorme e questa volta non era come gli altri, questa volta era qualcosa di vivo.
Cercammo di scorgerlo nel fumo, nella polvere, finché la sua forma immensa iniziò a delinearsi, fu allora che sentii le forze venire meno, fu allora che mi sentii crollare.
Un gigantesco smartphone di carne si stagliava con la parte dello schermo rivolta al cielo, ricoperto da seni, genitali deformi che si muovevano sopra la superficie o forse la pelle pallidissima di quella cosa, lo schermo bagnato vomitava in fiumi di fluidi dall’odore dolciastro vestiti firmati, tablet, sigarette, preservativi…
Lo schermo, quello schermo immenso, proiettava emettendo gemiti disumani filmati di stupri di gruppo, partite di calcio, pestaggi, decapitazioni, reality show, donne che ingoiavano enormi cazzi, bambini mutilati, bambini con la pancia gonfia di parassiti e ancora sesso e stupri e uomini bruciati vivi, donne vendute in gabbie e poi emoticon smile, corpi annegati, barconi carichi di persone ammassate come bestie, uomini e donne crocifissi, facce rifatte, tette, pubblicità di automobili, liquidi corporei che ricoprivano altri corpi fino ad affogarli.
Rimasi immobile, con la bocca spalancata, guardai il mio vicino e vidi i suoi occhi lucidi, vidi la sua bocca socchiusa, il volto che all’improvviso era come crollato per un terrore profondo che non riuscivamo a controllare.

Ci abbracciammo, di istinto, come per proteggerci l’un l’altro, come se fossimo diventati due bambini.
Ci abbracciammo forte, mentre la cosa continuava ad avanzare inesorabilmente, contro di noi.

***

In copertina: Jeff Koons, Hook, 2003.