Mi sono fermato alla Qabbalah.
È stato l’ultimo libro che ho letto. Mi è bastato. L’edizione che a un tempo aveva soddisfatto e esaurito la mia sete di conoscenza attraverso la parola stampata, era impressa su una carta grezza di terza scelta, tenuta insieme da una rilegatura avventurosa e da una copertina con l’immagine di un golem senza sguardo e l’ombra del rabbi Loew rozzamente riprodotte. Ma le interpolazioni, le postille e i commenti a margine vergati con scritture diverse in yiddish, tedesco e polacco dai precedenti possessori del libro e dall’ultimo, Shlohmo Efraym, l’uomo del banco dei pegni, mi avevano aperto un mondo.

Avevo incontrato Efraym la prima volta a un mio spettacolo di magia, nell’appartamento di Manhattan di un mercante di pietre preziose, un luogo che non aderiva all’immagine del suo proprietario, le cui ricchezze esposte non erano neppure paragonabili a quelle che il giorno dopo avrei visto ammassate in casa di Efraym, dove in un alternarsi di disordine e ostentazione, accanto ai beni ceduti in pegno per disperazione (e con altrettanto sconforto non riscattati), si trovavano oggetti che erano stati scelti con gusto dal padrone di casa.
A impressionarmi non era solo ciò che vedevo, quanto il fatto che Efraym fosse riuscito a raggiungere la posizione che occupava adesso – una casa adeguata alla ricchezza che conteneva, una famiglia rispettosa e rispettata in un paese che non era il suo, la piena sicurezza nei propri mezzi – in un tempo tanto esiguo, senza che l’inferno del ghetto di Lodz avesse lasciato su di lui e sui suoi un marchio.

All’inferno Shlohmo tornò la sera in cui io e lui ci incontrammo per la terza volta, che si concluse con lui che giaceva ai miei piedi, un coltello kosher da collezione piantato fino all’elsa nella schiena, le tasche rivoltate come i cassetti della scrivania, sua moglie e suo figlio riversi accanto a lui, le chiazze di sangue che si mimetizzavano con il rosso dei Tabriz che paludavano il pavimento. Avevo già deciso nel dettaglio cosa mi avrebbe seguito fuori di lì, così non ebbi incertezze nel sottrarre gli oggetti più preziosi e insieme compatibili con lo spazio ristretto delle mie tasche e con una fuga senza ostacoli.
Il libro si aggiunse solo alla fine, secondo un’ineccepibile manifestazione del caso. Esistono del destino molteplici visioni, ma io posso affermare che dietro di esso vi sia un progetto implacabile di cui spesso noi stessi siamo gli artefici silenziosi. Ecco che portai via il libro quasi con distrazione, in uno di quei gesti a prima vista senza senso eppure capaci di acquisirne uno e di precipitarti. So adesso di aver risposto a un richiamo: l’edizione della Qabbalah che raccolsi a casa Efraym finì per influire sul corso del mio cammino molto più dei diamanti che contrattammo e che dopo la mattanza avevo trasformato in un regalo per me, e delle monete antiche e inestimabili custodite nelle vetrine incassate tra i pannelli di legno che rivestivano le pareti dello studio.

Dopo l’epilogo rimasi a guardare la scena che avevo costruito e a rivisitare a ritroso le stanze in una sorta di processione, per imprimere ogni cosa nella mente e metterla da parte insieme al resto.
Ora che ho tutto il tempo di pensarci, mi convinco che il libro agì da subito e che fu la dilatazione che esercitava sulla presa delle mie dita ancora inconsapevoli a farmi decidere in un attimo solo di non far congiungere ai genitori, nel regno di Javeh, la piccola Esther. La volta precedente l’avevo intravista nella sua stanza attraverso una porta socchiusa sul corridoio, in ginocchio, con una bambola tra le braccia a cui bisbigliava qualcosa; i nostri sguardi si erano incrociati per un istante, ma questo non mi aveva impedito di relegarla subito a comprimario, impegnato come ero a indagare l’animo di suo padre e a censire con gli occhi le ricchezze che la casa mi stava offrendo. Nell’ultimo atto della tragedia Esther mi guardò, muta, uscire dalla casa di Borough Park e chiudere delicatamente la porta dietro di me.

Salii a bordo della Ile de France quella stessa notte, con due ore di anticipo sulla partenza. Le trascorsi chiuso in cabina a contemplare i due sacchetti di velluto dove avevo riposto i diamanti e le monete, senza aprirli.
Del libro mi ricordai solo sul ponte di prima classe, mentre i rimorchiatori ci conducevano fuori dal porto, e lo avevo aperto quando la nave solcava già l’Atlantico e New York era ormai una lucciola nel buio.
Quella notte e quelle che seguirono furono il mio apprendistato. Appartenni al libro. La mia grafia si aggiunse sui margini delle pagine a quelle di chi lo aveva maneggiato prima di me. Scrivendo, mi accorsi che tendevo a inclinare le lettere verso destra: le parole sembravano fare un inchino.
Quella cabala, le dieci sephirot più una, le loro intersezioni, i ventidue sentieri, il metodo eretico con cui decisi di apprenderle, applicarle e connetterle alla mia arte, mi insegnarono a trovare e a creare a mio piacimento l’equilibrio e lo squilibrio tra gli elementi, le cose, a collegare ogni parte a un’altra, a generare caos, illusione. A disegnare cerchi perfetti. Fui certo, con l’Europa che ormai congiurava dietro l’orizzonte, della mia prossima elezione a maestro di creazione, conoscitore di forme, di alchimia di gesti, parole.
A Le Havre il mago, il Grande Mephisto dei cartelloni e delle locandine, era diventato ormai Eleazar Q; la magia, che fino a quel momento non era stata altro che la tenda, il tramezzo che nascondeva l’inganno e la depravazione e me ne consentiva l’esercizio silenzioso e sistematico, si era presa definitivamente la mia vita; e il male, il delitto, perseguiti ora con ancor maggiore insistenza e sottigliezza, non sarebbero serviti più soltanto ad arricchirmi, ma a esprimermi.

*   *   *   *   *   *   *   *

Era ancora così quando sulla scena apparve lei. Accadde a Parigi in Rue des Hospitalières Saint Gervais, dalle parti del tempio. Era appoggiata al muro di una palazzina, accanto all’entrata di una libreria le cui scritte azzurre in abjad tradivano l’appartenenza ebraica. Davanti a lei, per terra, c’erano alcune piccole anfore di vetro trasparente piene sino a metà di acqua e con dei giacinti. Se mi fermai fu per lei, certo non per la libreria, un luogo per me privo di qualsiasi interesse; tantomeno per i fiori.
Le domandai nella mia lingua se i giacinti fossero lì per essere venduti. Annuì e mi comunicò il prezzo. Contai tre monete, gliele feci scivolare nella mano tesa. Mentre pagavo le chiesi se fosse in vendita anche lei. Si limitò a guardarmi e a dirmi come si chiamava. Raccolse i fiori in un mazzetto, lasciando i piccoli vasi che li contenevano e mi seguì.
Per me fu semplicemente Thérèse, un nome, non mi interessava conoscere nient’altro.
La sua devozione, la tenacia, la capacità di adattarsi, e i suoi silenzi, il suo corpo, all’inizio erano stati argomenti sufficienti per tollerarne la presenza, goderne a volte. In seguito mi ero accorto del suo mimetismo, della sua tendenza naturale alla contemplazione e insieme all’analisi delle circostanze, delle persone, cose che ne facevano l’assistente perfetta, il mio braccio invisibile, il prolungamento del mio sguardo sul tempo e sugli spettatori. Non ne parlammo mai esplicitamente, non parlavamo quasi mai, ma avevo imparato a regolare la durata dei numeri e il loro alternarsi, la scelta delle persone da far salire sul palco, sui suoi occhi e sui suoi gesti. Arrivò un momento in cui mi sembrò che la sua presenza mi fosse necessaria e che lei invece, senza alcuna logica, iniziasse a vivere sulla scena indipendentemente da me. Durante l’ultima tournée americana non ebbi più dubbi al riguardo.
Il pubblico di New York – tra i meno difficili del mondo perché abituato a tutto e incantato dall’apparenza – come immaginavo accolse il numero della donna invisibile e il suo perfetto esito come un sigillo. Sapevo che più tardi avrei potuto selezionare, esaminando le svariate richieste di spettacoli privati che mi sarebbero piovute addosso a sipario ancora alzato, la vittima più appetibile, utilizzando i soliti criteri: la ricchezza dell’ospite, il suo prestigio, la sua stupidità, il significato del suo stare al mondo.
In camerino, Thérèse mi aiutò in silenzio a togliere il vestito di scena per dare subito dopo il via a un altro spettacolo di magia, parallelo, di cui io ero sempre, a quel punto, l’unico spettatore.
Era bellissima; e forse ormai pronta, pensai. Imparare l’arte magica era l’unica cosa che mi aveva chiesto. Un prezzo che avevo ritenuto congruo e che pagavo, con sempre meno parsimonia, da quasi dieci anni.
Ma quella sera, tre marzo millenovecentosessantanove, accadde. E non mi accorsi per tempo della sequenza.
Il numero della ghinea d’oro scomparsa, eseguito da Thérèse a occhi chiusi, terminò con l’apparizione di un’altra moneta, diversa, d’argento, ossidata, con l’effigie di un tempo lontano, indefinito. Non riuscii a rendere più chiaro il quadro che mi si svelava dinanzi, perché il susseguirsi degli eventi mi costrinse a volgermi subito altrove.
Mi ritrovai con una mano in tasca che stringeva un foglio, piegato in quattro, trovato dove non doveva esserci nulla. L’aprii. Lessi, guardai le sephirot, tutte tracciate con inchiostro nero tranne Gevurah, la forza, che brillava di rosso. I sentieri si incrociavano senza sosta e le formule in calce al foglio producevano una sequenza numerica: 3 3 19 49. Le tempie presero a pulsarmi. Alzai lo sguardo. Thérèse era davanti a me, a un soffio, una delle scimitarre che usavo in scena, quella vera, in mano.
Thérèse.
Il notariqòn, ciò che permette al cabalista di intravedere parole nascoste dietro ad altre, di interscambiare le lettere, di associare parole a numeri, è un’arte, una cifra. La mia.
E Thérèse, Esther E, Esther Efraym, esattamente vent’anni dopo, nello stesso luogo di allora, prima di prendere il mio posto sulle scene, chiuse la sua esibizione con un sorriso, pretese in un bisbiglio che le mostrassi e eseguissi il numero dell’inghiottimento della spada. L’unico il cui trucco non sono mai riuscito a scoprire.
Da vivo.