Siccome i sondaggi vanno tanto di moda, mi piacerebbe, un giorno, provare a farne uno piuttosto semplice: prendere un campione di persone tra i venti e gli ottant’anni e chiedere loro se per caso conoscano Aldo Busi. Certo che lo conosco, è quella checca isterica che ogni tanto va a litigare con Sgarbi in televisione, mi dirà qualcuno. Sì, dai, è uno scrittore, un intellettuale, e non capisco perché si abbassi a fare certe stupidaggini, a confrontarsi con certa gente, dirà qualcun altro. A quel punto passerei alla domanda successiva: ma voi, un libro di Aldo Busi, lo avete mai letto? E qui non so in quanti si pronuncerebbero positivamente, poiché ci sarà chi ci ha provato ma si è fermato a pagina tredici, e chi nemmeno sapeva che quel signore avesse scritto dei libri, figuriamoci poi sapere che si tratta di uno dei migliori prosatori italiani viventi.

Busi ha spesso dato il meglio di sé con testi abbastanza corposi, vedi alle voci Seminario sulla gioventù, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, Casanova di se stessi o il più recente El especialista de Barcelona; ma ha saputo destreggiarsi anche con libri più scarni (La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria, Vacche amiche, La camicia di Hanta). Le consapevolezze ultime – titolo assai indovinato – appartiene alla seconda categoria: un romanzo breve che racchiude al suo interno molte delle peculiarità dell’autore di Montichiari, nonché alcuni dei temi a lui più cari e congeniali.

L’Aldo Busi-personaggio è qui alle prese con una cena; una cena che ha luogo nella profonda provincia bresciana, alla quale il nostro narratore è stato invitato: non appena intrapresa la lettura, viene da domandarsi perché abbia accettato una tale chiamata. Andando avanti, il lettore può capirlo facilmente, anche se i versi in epigrafe, tratti dall’ode pariniana La salubrità dell’aria, accoppiati a un’autocitazione – «Io pur di scrivere mi sono ridotto a vivere» –, possono già ben riassumere il nucleo centrale del testo ed esemplificare la poetica dello scrittore.

«In quella cena c’è en abyme tutta la sua parabola di scrittore, il rapporto mai interamente in squadra tra la scrittura e la vita, il mondo, la società, quell’inferno che, come è stato detto, sono gli altri». Così ha scritto Daniele Giglioli su La Lettura del «Corriere della Sera» del 22 aprile 2018, e mai parole furono più giuste per inquadrare un libro come questo, dove Busi, attraverso il racconto di una cena allo stesso tavolo con la borghesia italiana, riesce, pur non fornendo la sua prova migliore, a sfoderare e a mettere in luce le sue più appuntite armi dialettiche, linguistiche e narrative.

La sua è una narrazione digressiva, inframezzata e sovente interrotta da tuffi nel passato, da suggestioni che rivelano l’enorme umanità di uno sguardo che osserva la realtà e la restituisce sulla pagina così com’è: meschina, corrotta, falsamente benpensante. Quella delle Consapevolezze ultime è una società che il narratore vuole tenere lontana da sé, dalla quale egli vorrebbe mantenere una certa distanza.

I commensali sono gli attori principali di una tragicommedia nella quale viene messa a nudo l’ipocrisia che li caratterizza, quella per cui si dice una cosa e poi si fa l’opposto; un palco dove pare necessario denominare gli altri come parassiti, senza il minimo coraggio di autocritica.

Busi sa di poter essere anche lui facile bersaglio di quel mondo di imprenditori e di corruzione, di una politica spicciola fatta da piccoli uomini, di una fauna variegata composta da donne altolocate che rivendicano un pensiero dall’abito trasparente e progressista ma in sostanza conservatore, in parte memore dei radical chic (termine ad oggi inflazionato e usato a sproposito) ai quali Tom Wolfe nel 1970 dedicò un suo celebre saggio. Con tale consapevolezza, appunto, egli dà al lettore una lezione di stile, sia per quanto riguarda la sfera letteraria, sia per quanto concerne la vita stessa.

Ci fa comprendere perché ha accettato l’invito: per assorbire valido materiale da romanzo? Sì e no: diciamo soprattutto per far sì che certe persone si tolgano la maschera, e che lo facciano dinanzi a lui, chiamato a presenziare non tanto perché ottimo scrittore, punta di diamante delle contemporanee patrie lettere, quanto perché, come scrive nelle prime pagine, «sono uno famoso per essere famoso e niente più, per quale quintessenziale specialità bisognerebbe chiederlo a loro». Sembra che i convitati desiderino dal letterato, da colui che a differenza loro non produce ma parla (anzi: scrive), non si arricchisce e non crea ricchezza, una parola di conforto, una sorta di ego te absolvo che però non arriva, poiché qui la letteratura non fa sconti, e le parole sono davvero sassi lanciati contro l’alta borghesia italiana.

Dietro alla prosa di Busi, fatta di concessioni all’alto e al basso, di parentesi e incisi, costruita per mezzo di una lingua colta e straripante, si può riconoscere uno degli scrittori tra i più politici della contemporaneità: da un lato perché è tra i pochi a rigirare il coltello in certe piaghe, a far sentire una voce sempre critica, polemica e iperbolica con se stessa e con gli altri; dall’altro perché sembra voler ribadire con orgoglio la sua origine popolare, ricordando che è dal brodo primordiale della vita che nasce la sua letteratura e che, allo stesso tempo, è sempre una questione di stile.

Aldo Busi
Le consapevolezze ultime
Torino, Einaudi, 2018
pp. 132