Nella nota alla fine della prima dissertazione della Genealogia della morale, Nietzsche esprime un voto: che si creassero sinergie tra medici, fisiologi e filosofi “per l’avanzamento degli studi di storia della morale”. Cosa c’entra, chiederete, questo voto con quello di Emanuele Tonon, teologo-operaio autore di Fervore (Mondadori, 2016, 108 pagine)?

Fervore

Il pezzo forte della Genealogia della morale è la sua ultima dissertazione, “Che significano gli ideali ascetici?” Questa stessa domanda anima il romanzo di Tonon – per quanto dire romanzo sia una consapevole  concessione alle categorie editoriali in vigore, per cui se non è un romanzo non si sa che è, ergo difficilmente si pubblica.

Il testo ripercorre l’anno di noviziato del protagonista nel convento di Renacavata. Con fare liturgico, con la dolcezza e la disperazione di un santo, scava l’invenzione di dio nelle teste vergini di 16 fratelli novizi. Le figure del francescanesimo originario, radicato nel codice stesso dell’ordine dei Cappuccini minori di cui il protagonista è parte, si dispiegano con forza e con insistenza. Gli elementi prima di tutto: l’acqua, il vento, il fuoco e la terra; gli animali e le piante in secondo luogo; tutti vettori di senso: il rigetto del mondo, della sua corruzione, del potere che consuma la meraviglia verginale nelle teste innocenti degli uomini. Il rigetto del mondo, in Fervore, ha un significato eminentemente politico: così, Francesco d’Assisi è, più di ogni altra cosa, “Giullare pazzo”; e i monaci schiavi del mondo, quelli scesi a compromessi col sapere e con le gerarchie, sono già persi, spenti, corrotti.

L’incedere del testo ha un flusso acquoso e come intrauterino. A questo scopo, Tonon utilizza una voce narrante ondìvaga e obliqua – l’elemento più riuscito del libro – oscillante tra il tu, il voi e il noi. In questa cornice o membrana, le disperazioni liquide del protagonista assumono i tratti di un pianto sommesso, mai esplosivo, come una meditazione nostalgica – il paradiso perduto. A più riprese, nel testo, l’immagine del noviziato si sovrappone a quella del giardino dell’Eden prima della fine; a sua volta, più avanti, s’incastra con quella della vita intrauterina, anch’essa destinata a finire. La disperazione e la necessità di venirne fuori, di uscire al mondo, si scontra subito con la prospettiva della corruzione – il mondo è potere, il potere corrompe. Un ulteriore strato politico: i novizi sono principalmente figli poveri della terra, contadini – gli sfruttati cui la liturgia religiosa offre un punto di fuga: l’invenzione di dio nelle loro teste.

Torniamo al punto. Il fervore di Tonon conserva, della proposta nicciana, solo la domanda. La risposta, così agli antipodi dalla conclusione della Genealogia della morale (“l’uomo preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere”) perpetra una figura desueta eppure ancora tragicamente impiantata nella trama dei cervelli umani: l’origine, la purezza, la negazione del mondo. Una posizione, di fatto, non molto distante dalla riduzione cristologica che impera dell’opera pasoliniana – d’altra parte, i cattivoni di Salò o le 120 di Sodoma, tra uno stupro e l’altro, leggono la Genealogia della morale. Una riduzione in forma di canto liturgico: un libro, in definitiva, per le archetipiche anime belle – pare ce ne siano ancora sparse per il mondo.