Nessuno aveva mai capito se la creatura fosse una bambina o una dolce vecchietta. Mutevole ed eterna, correva strabuzzando gli occhi vibranti, e aveva poco più di dieci anni. Congiungeva le mani in modo sapiente e meditava. Allora ne aveva ottanta.
Era rinomata come guaritrice. Erbe mediche, fiori profumati e orecchie attente, accoglieva ogni giorno lunghe file di persone che chiedevano il suo aiuto. Li toccava, li massaggiava, li osservava. Alcuni solamente li ascoltava.
La chiamavano Bellavalia, proprio come la specie di giacinto. Quale che fosse il suo nome poi, nessuno forse glielo aveva mai chiesto. Da tempo immemore lei era lì, era così. Si abbandonava con gioia all’amore per gli uomini e gli uomini correvano da lei. Alcuni signori molto anziani della città dicevano che Bellavalia era stata accudita in tempi lontani da una coppia di strani genitori provenienti da lontani paesi a oriente del mondo, che le avevano insegnato le arti mediche e che poi l’avevano lasciata lì, a Dora Aurea, tornando poi a girare per diffondere la loro sapienza.
Io, di mio, ho sempre creduto che la piccina fosse lì da molto meno tempo. Credevo nella giovinezza dei suoi occhi tersi.
Ogni mattina, da quando ci incontrammo la prima volta, lasciavo casa presto e camminavo tra i campi gialli di grano per giungere in prossimità della sua dimora e spiarla nel suo giardino. Aveva gentili parole per me quando mi scopriva, raccontava tante cose di sé, delle sue giornate, dei suoi pensieri. Eppure io di lei avevo la certezza di non sapere nulla.
Le chiesi anche di sposarmi una volta. A quei tempi desideravo mettere in gabbia un uccello libero (io mi sentivo un libero pensatore, un libero dalle convenzioni) per poi riaprire la porticina e lasciarlo volare. Volevo una donna come me.
Lei aveva riso e aveva detto che non avevo il minimo bisogno di lei. Forse aveva ragione. Ma propendo nel credere che la spiegazione migliore fosse che mentre io conservavo desideri mortali, venali, carnali, lei fosse pura e levata dalle cose.
Non fui l’unico a desiderare il suo cuore. Ma era troppo grande per legarsi a un solo uomo. E con cosa colpirla? La sapienza? La ricchezza? L’arte? La bontà? Si posava sulle cose senza desiderarle, ammirandole con vivacità ma senza inghiottirle. Pareva vicina eppure lontana, irraggiungibile. Per questo nessuno sapeva bene se fosse una bambina o una vecchietta.
Un giorno tentai di acciuffarla mentre dormiva sotto un castagno, le accarezzai i capelli mentre allungavo l’altro braccio a serrarle la vita. Lei girò il viso con la bocca fragolina di bambina verso di me e scoprii così la fronte saggia e rugosa di un’anziana. Mi vergognai del mio gesto e scappai terrorizzato da quella visione. Quali segreti celasse la sua esistenza non potevo saperlo, ma decisi che non avrei mai più desiderato averla. Nonostante questo pensai a quella donnina per anni. Mi accompagnava come un fantasma a ogni passo, anche quando mi trasferii lontano da Dora Aurea. Mi svegliavo e annaffiavo i fiori come faceva Bellavalia, alzando i gomiti, con i polsi molli, la testa alta e sorridente. Sedevo secondo il suo insegnamento, reclinando il collo all’indietro di fronte alla finestra… liberavo la mente, osservavo la strada e la mia vita che si svolgeva a nastro tra un vuoto e l’altro. Studiavo con dedizione, godevo nell’utilizzare le mie conoscenze per aiutare gli altri. Aprii una scuola di matematica e geometria, forse lei l’avrebbe fatto. Tentai di levarmi sulle passioni, sulle debolezze della mia anima. Non fatico ad ammettere che non ci riuscii mai. Bellavalia non è umana, mi ripetevo. Eppure la sua immagine si era conficcata nella mia mente come un’orribile ossessione. Nei sogni io ero lei, dovevo essere lei. Decisi di tornare a cercarla dopo tanti anni per provare ad afferrare quanto meno la sua essenza. Era una necessità diversa da quella che mi aveva spinto a ingabbiarla anni prima, non volevo più possederla, solo comprenderla.
Mai per un attimo ho creduto di poterla trovare cambiata mentre preparavo le mie valigie per il viaggio, mai ho immaginato potesse essere altrove mentre prenotavo un albergo a Dora Aurea. Quando attraversai i campi e gettai lo sguardo sul suo giardino, lo trovai deserto. A terra erano rimasti solo i cocci di quelle bellissime bocce di vetro che una volta avevano contenuto fiori di calendula, aniceto, malva, iperico. Niente più odore di salvia, rosmarino o cumino. Non vi era traccia delle sue mani laboriose o dei suoi piedini agili. L’aria pareva più fumosa e pesante, laddove ricordavo solo raggi luminosi e riflessi dorati come il grano. Feci il giro della casa.
A lato della porta rimanevano delle piccole orchidee nere. Si ergevano verso di me con il loro impollinato e vischioso labello, roseo e maculato. Invitavano ancor più all’amore, tra quelle oscurità, le protuberanze rotondeggianti del suo centro sollevato. Accolsi l’invito di quei labelli e bussai alla porta. Nessuno rispose. Decisi di entrare lo stesso. Attraversai la porta e trovai girata di spalle la vecchina bambina. Era così piccola e ricurva, la confusione che emanava rimaneva la medesima. Stava sdraiata su una stuola sdrucita in un appartamento sudicio. Era irriconoscibile. Il sole non doveva più battere in quella casa da anni, e le pareti che prima erano state dorate avevano lasciato il posto a un grigiore da topaia. Le girai attorno prima di posizionarmi di fronte al suo viso.
Mi accorsi che così sudicia mi faceva meno terrore, meno eterea era più raggiungibile. Eppure ancora provavo una tremenda paura.
Scorsi dapprima la bocca da bambina, un po’ raggrinzita. Poi il naso, piccolissimo naso, e gli occhi, porte chiuse. Infine la fronte, corrucciata, non più vecchia, solo piega dolorante ora.
Non si girò al mio tocco, rimase immobile, insensibile.
Dopo anni le parlai, la pregai di parlare: che ti succede Bellavalia? Mistica Bellavalia, palliativo per gli uomini, sostegno per le donne, parla Bellavalia. Quella sembrava inanimata, lontana dal suo corpo. Dava segno il suo viso come di voler venire alla luce. Le sue pupille rinchiuse dietro alle palpebre sembravano spingere per ridestare la coscienza. Ma la coscienza stava molto dietro quelle orbite ingabbiate dalle metalliche ciglia.
Com’era giovane Bellavalia. Le toccai il collo magro e lungo, le spalle ossute, la vita stretta. Era ingiusto, io dovevo capire il suo incantesimo, a maggior ragione ora che si era spezzato. Cominciai a gridare, pazzo, la scossi, le tirai le braccia, le scostai le cosce, la presi per la nuca affondando le dita nei capelli fino a quando le palpebre si spalancarono e la bocca si aprì deformandosi in una smorfia inquietante. Riacquistò conoscenza con furia, come se la mia rabbia avesse preso vita nel suo corpo inanimato. I piedini agili che avevo visto danzare sui giardini calpestavano gelide piastrelle di marmo ora, le mani che avevano colto con laboriosità e pazienza fiori ed erbe si riversarono contro le orchidee circostanti che cominciò a strappare in preda all’isteria. Osservai la scena senza respirare, agghiacciato, fino a quando la sua furia si arrestò. Mi raggiunse e si fermò immobile di fronte a me, con il fiato corto e l’espressione contrita, di insolente attesa. Era giunto il mio momento. E forse lei lo sapeva, lo aveva capito, ora che era più donna che dea, che l’egoismo dell’uomo non l’avrebbe mai abbandonata e che le sarebbe toccato parlare. Non sapevo da dove iniziare, dunque le presi le dita antiche e nodose e la spinsi a sedersi al mio fianco. Mi schiarii la voce: Raccontami, Bella, mia. Cosa posso fare per te? Prima dovrai raccontarmi ogni cosa.
Una luce brillò vibrante nei suoi occhi opachi.
Li abbassò e incapace cominciò a raccontare: “Il sogno è crollato. Si è infranto. Lui è arrivato da lontano. Non era come te, non era come nessun altro. Era un uomo libero. Era dolce con me. Non voleva nulla che io non volessi. Ho cominciato a desiderarlo ardentemente, perché lui era come me, amava con un cuore immenso, e con le sue grandi ali protettrici salvava gli uomini. Anche lui mi desiderava. Ma più io desideravo lui e più il mio cuore si rimpiccioliva, e la mia mente si oscurava. Forse non potrai capire. Degli altri cominciava a non importarmi nulla, se non c’era lui. E peggio di ogni cosa, mi straziava il suo affetto per il prossimo, chiunque fosse. Tu. Tu non puoi capire cosa ha significato per me. Le persone hanno smesso di amarmi come io ho smesso di amare loro. E lui. A lui ho chiesto tutto l’amore del mondo. Tutto l’amore che poteva. Continuavo a chiederne la conferma, a chiedere di più. E così l’ho cacciato quando, esausto, il suo cuore è inaridito e i suoi occhi nel guardarmi si sono spenti. Quando ancora con fatica ha continuato ad avere la forza di occuparsi degli altri nonostante io lo implorassi di guardare solo me, l’ho odiato. Se ne è andato e ho capito. Per tutta la vita non ho venduto che menzogne. Consigli a uomini che soffrivano come io mai avevo sofferto. Palliativi inutili a una libertà che non esiste. La loro riconoscenza era fittizia. Mi hanno lasciata qua, da sola.”
Si accasciò abbandonando l’espressione solenne. Mi sentii forte. Sentii crescere dentro di me la volontà di consolare la mia nemica, la mia ossessione sempre perfetta era marcita. Non era umana, Bellavalia. Avrei voluto accoglierla per parlarle di tutto il mio sapere, per riconsegnarle poi il suo amore e la sua sapienza. Come aveva potuto questa straordinaria vecchietta precipitare in questo universo di bambina? Sentii crescere dentro di me un perfetto distacco dalle cose, una chiarezza si aprì alle porte della mia mente e piansi. Piansi a lungo raccogliendo quella povera bambina e portandola via con me, dentro di me, per sempre, come si porta un ideale.