Non sono un uomo che parla molto. Perché? Forse, così mi dicevo, è perché sono sempre molto stanco, specialmente da qualche giorno, non capisco, è come se mi mancasse la forza di alzarmi dal letto. Mia moglie, però, lei prevede tutto si può dire, mi ha parlato di un medico che sta in città. Questo medico, ha detto mia moglie, appartiene a quella parte del genere umano che ha letto più di quanto la sua intelligenza potesse in fondo comprendere. Per questo motivo è così famoso nella città dove vivo, che sprofonda nei malanni ferocissimi del nostro tempo. Alcuni la chiamano la città d’immondizia, ma io sono più clemente nei miei giudizi, e poi oggi l’immondizia è un j’accuse tautologico al sapore di già-sentito già-dimenticato. È la tua sola speranza, ha detto ancora mia moglie. Che cosa?, avrei voluto chiederle cinicamente, ponendo l’enfasi sulla speranza, ma sono rimasto in silenzio.
Non sono – ed è giusto applicare una sottrazione continua a ciò che potenzialmente potrei essere – un uomo polemico. Preferisco la calma e il dialogo, eppure la preferenza non è una scelta assoluta, è una ics sbiadita nella casella del test attitudinale sull’inconscio. Che c’entra poi l’inconscio con la mia malattia, il respiro corto, l’asma? Bronchiale, disse il medico con affettazione, come se non comprendessi la gravità del fatto, perché al suo bronchiale mi sembra che risposi ridendo.
Il dottore, essere superiore se ce n’è uno, non colse il sarcasmo del mio ridere, pensò che fosse cattivo gusto, impoetico, poiché il dottore era anche poeta simbolista (si capiva dai libri esposti negli scaffali del suo studio, così disse mia moglie), ma nel tempo libero o nelle situazioni critiche, come la mia, dove la sua specializzazione in allergologia era solo l’anticamera di una scienza puntellata di nostalgia e di periodi ipotetici. E su Bertrand Russell neanche una parola, forse era appartenuto a una di quelle letture rapide, se non rapidissime, dove l’occhio scorre velocemente il titolo dell’opera stampato in copertina, poi le terze, le quarte, i risvolti, l’anno di pubblicazione e si sa già abbastanza del libro, che si può fare a meno di leggerlo.
Disse – esclusivamente per controbattere la sua precedente diagnosi e dimostrare di non essere un medico di quelli che dicono buona la prima, prenda questo e quello e ci vediamo fra un mese – che io avrei un problema di respiro corto per mancato sfogo della ghiandola che secerne endorfina. Che io non conosco l’anatomia della ghiandola, quindi è inutile che continui a nominarla – e lo disse mostrando un uso magistrale della prima persona medicale da far impallidire Samuel Beckett. Secondo lui, io sarei un soggetto portato alla violenza repressa, che si manifesta nella mancanza del respiro e nel fatto che le endorfine non sono prodotte in numero sufficiente a placare prima l’istinto omicida e poi l’asma. Si intravedeva una catena, non certo una soluzione. Inoltre, non ero troppo certo che le endorfine svolgessero il compito che il medico mi stava illustrando, ma per non compromettere oltremodo la mia salute mi dissi che magna res tacere – e lo dissi senza neanche bisbigliare, pronunciai tutte le sillabe nella mia testa (come si dice, pensai), timoroso che il dottore potesse chiedermi di declinare, come prova di sforzo per l’asma, magna res e che per l’emozione non fossi in grado di farlo, quando in realtà è la mia specialità.
È vero?, mi sembra di porgli la sua stessa domanda, che non ricordo qual era o a cosa si riferisse, poiché per qualche istante il medico ha preso a tastarmi l’inguine, dal basso ventre colitico fino a dove la pancia diventa pene, scroto, massa penzolante e inerme. Sì, mi rispose, mentre mi stringeva i testicoli, e niente, neanche il più perverso desiderio di erezione mi elettrizzava. Disse che io non dovrei reprimere quella spinta all’azione, poiché mi fa male. – Gioisce nell’usare la maniera palpeggiante per farmi parlare (appunto, la cortesia), e sottintende alle sue parole di circostanza: mi sei indifferente, mentre io non posso esserlo di fronte alla mia professione, alla mia missione. È il crogiolo dei significati infiniti, o solo dei significati – in ogni caso, cose rivoltanti.
La mia preoccupazione, che a quel punto cresceva ogni volta che il medico, seduto o in piedi, non ricordo bene i movimenti quanto le pause, ritrattava le sue ipotesi, la preoccupazione dicevo era che non riuscissi a guarire. E io volevo essere guarito. Avrei insistito sulla guarigione come extrema ratio della mia condizione di respiratore-a-fiato-corto, avrei anche scelto privazioni e isolamento, se me ne fosse stata offerta la possibilità. In fondo mi sarei accontentato di una cura di betametasone. Il medico tuttavia aveva in mente un’altra idea della mia malattia, e prese così a cuore la vicenda da dirmi senza vergogna che io non posso essere curato in quanto la mia unicità sta nel fatto che l’asma è un’invenzione della mente, e che l’inconsapevolezza di questo dato reale mi ha indotto a credermi così normale da poter essere curato con un qualsiasi betametasone in pasticche effervescenti. L’ho guardato – se non ricordo male – dai fianchi alla cima della testa, ma senza superbia, solo perché avevo la testa bassa poggiata sul cuscino bianco del lettino, il collo piegato a stento, mi sembra, reggeva il peso del cranio. E disse che io sto pensando a Céline e che non avrei motivo di vergogna a confessarlo. Che mi ha suggestionato il pensiero, costringendomi a pensare Céline, perché io sono malato di respiro corto da referenza, e perciò rasento il rancoroso figlio di puttana. Quando fece una pausa, mi parve di comprendere solo quello spaziotempo in cui non ci sono più le parole. Il vuoto è il nome di questa circostanza secondo i filosofi atomisti.
Il medico, mentre auscultava, disse ancora, affondando nell’argomentazione, che io non capisco la parola vergogna. Come si dice nella sua lingua, lo scuorno? Non ho una lingua sola, gli avrei risposto, se non mi avesse già pronosticato che l’asma bronchiale, poi immaginario, poi ancora referenziale, ora dialettale, non poteva essere spiegato se prima non avessi deposto questa vergogna o scuorno (non me ne intendo di lingue, s’è visto, neanche della mia, quindi prendo per buona la traduzione), di cui non avevo saputo nulla fino a quel momento. Se non avessi scelto una lingua, non avrei trovato uno sfogo a questa vergogna dell’uguale. Tecnica, questo il suggerimento primo, medio e ultimo. Scansioni di prima, ora e domani. Le stesse cose rivoltanti, tali che lo stomaco iniziava a dare segni di cedimento. Che non si presenti più l’occasione di una pentecoste! dissi dentro la mia testa, simulando con le labbra di trasmettere fuori lo stesso segno sordo che mi scorreva tra le sinapsi. Il respiro si accorciava ancora e ancora, e fu così forte il risucchio che produssi tirando su tutta l’aria intorno a me, che il medico avverti la trama dell’assenza, come gli piacque definirla.
Non presi sul serio il fatto di Céline, anche perché mi parve quasi di percepire le mutazioni della mia malattia: il respiro corto mi sembrava più lungo di prima, ma anche più lento e grave. Il medico era così infervorato da non riuscire più a trattenersi e disse che il mio caso – era una declamazione ormai – era la prima volta che gli capitava. Che io non solo sono un inesauribile stupido, ma anche uno che crede alle finzioni e le mette in atto come verità; uno cui tutto si addice e sta bene addosso come un abito. Un manichino? Capacità di sintesi, avrei voluto dirgli, è questo che manca al suo metodo, ma non ci fu spaziotempo, il medico mi interruppe con secchezza e disse semplicemente di sì. Attesi l’argomentazione, uno scarto ripescato e rimestato nel discorso, ma non c’era pianificazione dialettica. È che non trovava un nome adatto, forse gli sfuggiva, qualcuno tra i minori con cui insultarmi.
Certo, non potevo dirgli di non capire il suo metodo, tra l’altro sconosciuto a me – e temo anche al medico stesso. Il fatto che un metodo improvvisato abbia sortito degli effetti rientra in quello spettro di probabilità preesistenti e di vie percorribili e soluzioni auspicabili, cui si aggiunge la tecnica come casistica delle improvvisazioni. Il medico mi guardò brutalmente, come se avesse letto nel mio sguardo disinteressato il dubbio. Quindi disse che una cosa è la cultura, un’altra la dottura – parola del medico per indicare qualcosa di simile alla dottrina, ma più grottesco, poiché il medico aveva sempre paventato vaghe origini russe. Vestiva il camice come un pastrano tolstojano, osservandolo più accuratamente. Poi, che stupido a non pensarci subito!, la professione di medico la diceva lunga. Disse, e gli occhi scintillarono e io temetti che riuscisse a leggere negli uomini tanto male quanto nei libri, quanti scrittori-medici hanno avuto i russi! Allora non sei un simbolista! Impostore! e neanche medico! Forse esclamai queste ultime parole con estremo disprezzo – anche se non avevo emesso un accenno di fiato –, poiché il medico si avvicinò al mio naso, sfiorandolo con la punta del suo, come mi hanno sempre detto che fanno gli eschimesi pur non avendolo mai visto. Puntò i suo occhi scintillanti per il riflesso della luce sugli occhiali nei miei occhi accesi come fuochi fatui. Disse – e la sua voce sembrò il vento della steppa – che il mio problema, infine, si era mostrato per ciò che egli aveva sempre sospettato. Questa notizia mi sciolse le ginocchia. Finalmente! esclamai senza un filo di voce. Il medico, però, si allontanò di uno, due passi, così mi sfuggì tutto ciò che stava dicendo, e colsi soltanto “nel sottosuolo come i topi”. Non capii. Mi sembrò di vedere la sua schiena avvolta nel pastrano di Tolstoj che si rimpiccioliva, fino quasi a scomparire.