Everett In un palmo d'acqua

Ho letto il mio primo Percival Everett circa un paio di anni fa, ed è stato subito amore.
L’opera in questione era Percival Everett di Virgil Russell, e da lì sono seguiti, nell’ordine, Sospetto, Il Paese di Dio, Ferito, Glifo, Deserto Americano e In un palmo d’acqua.
Ciò che maggiormente apprezzo di Percival Everett è il suo vigore, la confidenza con cui arriva al lettore, il suo eclettismo espressivo e contenutistico, ciò che riesce a essere in quello che scrive, aldilà dell’argomento trattato. Leggere un libro di Percival Everett vuol dire venire a contatto con una presenza etica potente, che riesce a rendere universale il suo sentire e a coinvolgere in esso, e godere di un senso di intimità che è sì illusorio (perché un autore serio, si spera, non mette tutto se stesso in quello che scrive) ma al contempo profondo (perché un autore serio, si spera, crede con tutto se stesso in quello che scrive).

Quando ho acquistato In un palmo d’acqua lì per lì ero perplessa. Se da un lato ho imparato a fidarmi di Everett quasi ciecamente, dall’altro mi sconcertava il fatto che il nostro affrontasse di nuovo tematiche western: già ne Il Paese di Dio si sfatano con umorismo ed efficacia i miti della frontiera e della libertà, descrivendoli come una mera presa di possesso e applicazione della legge del più forte, e mi sono chiesta se Everett non avesse cominciato a ripetersi, seppur con eleganza, sviscerando questioni già esaminate, al massimo arricchendole con tocchi inediti.
Ovviamente non è così.

I nove racconti che compongono In un palmo d’acqua trattano di magia. Anzi, oserei dire che la magia è la protagonista assoluta di tutta la raccolta, e che la base western assume caratteri squisitamente sciamanici, rituali, quasi esoterici, talvolta addirittura panici. La mia impressione è che queste storie siano essenzialmente iniziazioni, che si narri dell’elaborazione di un lutto (Plecottero), del confronto con il sacro o con l’ignoto (Un po’ di fede, Cercare Billy Penna Bianca), del contatto con la morte o con la mortalità (Un lago d’alta quota, Vetro Solubile e Graham Greene), o di una situazione di stallo che esige un superamento (Congelamento, Direzione sbagliata, Arriva il giorno).

L’originalità della magia di Percival Everett sta nel fatto che questa non è un’imposizione della volontà umana nei confronti dell’universo naturale, bensì un intervento della Natura stessa nel sentire umano, intervento che avviene solo quando l’uomo è abbastanza vulnerabile – perché provato fisicamente o emotivamente – da riuscire a riconoscere tale presenza o comunque a percepirla, e a capire che le cose non possono essere più quelle di prima. I frutti di tale intervento non vengono mai mostrati,  il massimo che l’autore ci concede è la consapevolezza dell’agnizione, del superamento del rito di passaggio.
La Natura non si limita a essere specchio di una situazione interiore, ma anzi sembra quasi che spetti all’individuo adattarsi emotivamente a quanto lo circonda. L’atmosfera quasi archetipica, pagana, sempre pacificatrice e accogliente, arricchisce i temi dell’integrazione e della costruzione della propria identità (razziale e sociale) sempre presenti nell’opera dell’autore, conferendo loro sfumature più ampie, cosmiche, sempre feconde.

Percival Everett
In un palmo d’acqua (2015)
Trad. it. Letizia Sacchini
Roma, Nutrimenti, 2016
pp. 192