Come terapeuta, il mio compito è […] quello di lavorare al superamento del mio ruolo, ovvero di fare in modo che il paziente assuma la funzione di padre e di madre di se stesso.

Se nella prefazione Irvin Yalom dichiara con una chiarezza adamantina lo scopo del suo lavoro, nella postfazione, scritta trent’anni dopo, l’autore commenta che avrebbe voluto essere il supervisore del se stesso più giovane (che comunque aveva cinquant’anni), per suggerirgli di muoversi con più cautela con i pazienti, ma afferma anche di rispettarlo, perché evita la diagnosi e la categorizzazione.
È interessante notare come tale pregio terapeutico si rispecchia anche nello stile narrativo di Yalom, che si presenta come un autore che si rapporta con i personaggi (i suoi pazienti) con partecipazione e affetto, e che mette al centro di ogni storia (ogni terapia) il concetto di relazione.

I sentimenti che adesso provavo per Betty mi riportarono alla mente, facendomene vergognare, l’atteggiamento che avevo tenuto nei suoi confronti all’inizio. Avrei voluto nascondermi per la vergogna pensando a tutte le altre donne obese nei cui confronti mi ero comportato in modo altrettanto intollerante e privo di umanità.
Tutti questi cambiamenti significavano una cosa soltanto: avevamo trovato il modo giusto per affrontare il suo problema della solitudine e della fame di contatti umani. Contavo di riuscire a dimostrarle che una persona poteva conoscerla a fondo e continuare a volerle bene.

La relazione è la protagonista assoluta di queste dieci storie di psicoterapia di Guarire d’amore: relazione con se stessi, con il cambiamento, con la mortalità, con la libertà, con la vita, con il dolore, con la terapia e, soprattutto, con la propria storia.
La funzione del viaggio terapeutico è collocare la storia che il paziente si racconta (la sua percezione dei fatti) all’interno di un contesto più grande o più esatto; e in questo percorso Yalom non esita a mettersi in gioco in modo talvolta spericolato, cercando di governare il racconto del paziente senza indirizzarlo, ma aiutandolo a diventare un narratore della propria vita più sicuro e aperto al mondo (ad altre storie).

Molto spesso Yalom utilizza la propria storia ad uso dei propri pazienti, ribadendo loro e a se stesso (e al lettore) che la relazione terapeutica è innanzitutto un rapporto tra due persone; ed è proprio nei momenti in cui il dottore si gioca tutte le sue carte che i racconti diventano più affascinanti: da Il carnefice dell’amore, un vero e proprio thriller con tanto di colpo di scena, a La cicciona, un racconto di (reciproca) formazione, a In cerca del creatore di sogni, in cui un uomo recupera il contatto con sé e con la sua vita.

Per quanto mi riguarda, una “buona” terapia (che per me si identifica con una terapia capace di scavare e di penetrare in profondità, e non necessariamente con una terapia efficace o anche, mi rincresce dirlo, con una terapia utile) condotta con un “buon” paziente è fondamentalmente un viaggio avventuroso alla ricerca della verità. […] “Una vita non analizzata fino in fondo non è degna di essere vissuta” è l’avemaria che recito.

Analizzare, vivere e raccontare sono procedimenti che s’intrecciano l’uno nell’altro e che danno vita a un appassionante rompicapo emotivo ed esistenziale, capace di suggerire un approccio alla vita che riesce ad andare ben oltre la pagina per abbracciare anche il vissuto di chi legge.
Com’è ovvio, non sempre la storia ha un lieto fine, talvolta addirittura la fine manca, ma non importa, perché è chiaro che lo scopo finale è vivere i sentimenti senza identificarsi con essi, accettare l’umana transitorietà e vivere serenamente la propria vita per scrivere con entusiasmo la propria storia.
E, magari, rileggerla poi senza troppi rimpianti.

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Irvin D. Yalom
Guarire d’amore (1989)
Trad. it. di Serena Lauzi
Milano, Raffaello Cortina Editore, 2015
pp. 424