La testa di leone ruota su sé stessa. Gli scricchiolii del calcare. Il gorgoglio d’acqua salata che sale dagli interstizi del marmo. Mi muovo verso di lei, ogni passo è lunare. Un silenzio nero come un tappeto mi spinge verso il basso, la mia forza è annichilita. Faccio il breve tragitto in non meno di cinque minuti.
Arrivato davanti alla statua, ne apprezzo l’inaspettata levigatezza, i dettagli, le rifiniture intatte. La testa di leone torna a girare; una piccola corrente fredda mi passa tra le gambe. D’istinto cerco una risalita, ma non riesco a staccarmi dal fondo. Mi guardo intorno. Non vedo nulla, eccetto la statua, bianca, quasi luminescente. Il buio intorno annichilisce ogni idea di spazio, di dimensione.

«Quando sono entrato nel Santuario, una parte di me, credo quella più vigile e razionale, l’ho sentita andare via via sfaldandosi, sciogliersi. Oggi – come vedi –  non sono più lo stesso di prima. Non dovevo entrarvi. Avrei dovuto dar retta al vecchio barbuto, il tardo incontrato nei pressi della baia. Ora, ogni notte, sogno il mio ritorno al Santuario: ne vedo l’interno, le colonne erose dalle correnti sottomarine, le volte color verdeblu, gli spettri ondulati dei pesci oscuri… E vedo – tutto, vedo tutto, ma vorticando su me stesso; una forza centrifuga cerca di strapparmi da quel luogo; ma io sono piantato nel fondale, fin sopra le ginocchia. Così che quando ho voglia di rimanere in contemplazione, sono in estasi, accontentato; ma quando ne vengo a nausea e la voglia di scappar via mi fa pressione, comincia una lunga e tetra agonia».

Al quarto strattone senza alcuna risposta comincio a preoccuparmi. La testa di leone si è fermata al rovescio.
Il nero del fondale prende poco a poco a schiarirsi. Diventa dapprima di un blu scuro, come l’inizio d’una nottata; poi, via via sempre più chiaro e limpido, il celeste di un mattino. Dietro la statua del leone, la cui testa è tornata al suo posto, ha preso forma, piccolo e a guglie sparse e irregolari, il Santuario.

* * *

Una legione di pesci-spettro si apre come un pesante tendaggio. Una brevissima navata centrale porta fino a un altare rialzato di cinque gradini alti all’incirca mezzo metro. Sopra all’altare, qualcosa che non riesco a definire con precisione: sembra estendersi in lunghezza, ed è scuro; l’intuito mi suggerisce possa essere un grosso pesce-spettro morto. Con immensa fatica, provo ad avvicinarmi.

«Avevo con me una fiocina a mano. Ho tentato di proteggermi da uno strano vortice di pesci bislunghi e scuri, più scuri del fondale; ne sono riuscito a infilzare solo uno.
Questi pesci sono mostruosi. Hanno mandibole dure e squadrate, e denti affilatissimi. Non so come abbia fatto a uscire indenne dal panico esploso nel piccolo banco in cui mi sono ritrovato per caso. Fatto sta che una volta dileguato, di quei pesci non ne ho visto più nemmeno l’ombra. No, ma che dico: ora, inforcato nella fiocina, avevo questo esemplare di cui ti ho poco fa accennato. Oltre alle fauci schifose, due piccolissime pinne laterali, sproporzionate rispetto alla lunghezza, che si aggira intorno ai quaranta centimetri. E… gli occhi. Due occhi completamente oscuri. Neri. Come due bottoni d’ebano lustro».

Il cordone mi segue fin sopra all’altare del Santuario. Do una settima, un’ottava e una nona strattonata. Ancora nessuna risposta. Ma ho come l’impressione che una risposta non possa ormai più arrivare. Sono addirittura tentato di togliermi il casco. Un pensiero assurdo, mi dico immediatamente. Mi sento come ebbro.
Controllo quel che c’è sull’altare – un blocco di marmo cubico, anch’esso perfettamente levigato e chiaro. Si tratta in effetti di un pesce-spettro, ma più grande, e dalla parte in cui è visibile presenta un inquietantissimo occhio nero, più nero della pelle e del buio del fondale che fino a qualche minuto fa teneva tutto avviluppato – tutto, tranne la statua del leone, che emanava una luce propria, proveniente dal di dentro.
Tocco il pesce con due dita: le carni sono sode. Mi viene il dubbio se sia morto oppure abbia assunto una posizione particolare, un comportamento speciale, tipico, magari, di una specie chiamata a sopravvivere in condizioni estreme, in profondità tanto abissali. Passo un dito sulle scaglie e sento – sento che ci sono tre piccoli fori, a distanza regolare uno dall’altro.

* * *

Quando capisco che non si tratta più né di tempo né di spazio né di ossigeno, tolgo il casco.
Inspiro, e una sensazione come di una nuova membrana faringea impermeabile mi dà modo di non inalare l’acqua. Non mi stupisco, pur sentendomi sempre più stordito.
Prendo a ispezionare il pesce-spettro. Lo giro dall’altro lato, dove i fori sono più grandi. Penso sia stato fiocinato da poco. Magari da qualcuno ancora nei paraggi. Così mi guardo intorno, lentamente, prima da una parte poi dall’altra. Non vedo nessuno.
Scendo i gradini dell’altare e porto con me il pesce. Lo tengo stretto con entrambe le mani. Ho paura possa riprendere vita e sgusciare via. Vedo il cordone muoversi, smuovere le acque.

«Quando il pesce-mostro riprese vita, io sussultai e me lo lasciai sfuggire di mano. Il pesce non scappò: mi si parò davanti. S’ingrandì come un pesce palla; ma credo che il suo ingrandirsi non fosse solo qualcosa di scenografico. Intendo che davvero il pesce-mostro prendeva una dimensione due, tre, quattro, cinque e più volte maggiore. Alla fine, di fronte mi ritrovai uno squalo nero, terribile e aguzzo, come un siluro. Feci l’errore di accennare una fuga e il pesce-mostro, con un guizzo, mi fu subito a un palmo, poi sopra, e mi addentò per un braccio, il sinistro, e me lo strappò via di netto. Da quel momento non ho più ricordato nulla. Nessun’altra cosa. Tranne il maledetto Santuario, in cui torno ogni notte».

Tornato in superficie, gli uomini del brigantino mi aiutano a salire a bordo.
Nessuno di loro fa domande. Mi disfo della tuta e dei piombi senza aprire bocca.
Sul ponte, un marinaio con la barba rossa e gli occhi di un brutto celeste sbiadito mi fa un cenno col mento, indicando la zona da cui sono riemerso. Poi si accarezza il braccio sinistro. Lo accarezza lentamente, sorridendo, mentre mi fissa negli occhi. D’istinto mi guardo le braccia. Quello destro è al suo posto; il sinistro, invece, è leggermente torto verso l’interno, col gomito che punta verso l’esterno. Non sento dolore né tensione: non me ne ero accorto. Il marinaio barbuto ride senza emettere suoni.
Si avvicina. Ora lo sguardo, è serio. Si liscia la barba. Mi è a un palmo dal viso. Incrocia le braccia sotto al petto, coi palmi rivolti verso l’alto; comincia a far dondolare le braccia da una parte all’altra, come stesse cullando un neonato. Mi fissa ancora: torna a ridere, ma a denti stretti e occhi strizzati. Quegli occhi celesti e sbiaditi diventano man mano più scuri. Senza far caso agli stati di transizione, mi ritrovo a fissarli: ora sono completamente neri. Avverto una leggera tachicardia. Distolgo lo sguardo, faccio un passo indietro e cerco qualche altro marinaio del brigantino, ma non ho tempo di allontanarmi, sento una morsa strettissima e acuminata al braccio sinistro, il dolore mi paralizza mentre sono voltato all’indietro; trovo la forza di girarmi e vedo lui, il marinaio dalla barba rossa e gli occhi neri, che azzanna il mio braccio sinistro, affonda, il sangue scorre già a fiotti, i suoi non sono denti normali, il cuore mi dà due, tre palpitazioni di fila, batte ormai a vuoto, svengo.

Al mio risveglio sono in un ospedale. Non ho coscienza di cosa sia successo. Dopo qualche ora, mi viene comunicato che il mio braccio sinistro è stato amputato. Mi assicurano che per qualche giorno mi verrà somministrata della morfina per il dolore. Annuisco. Chiedo se è possibile da subito; mi dicono di sì. Dopo qualche minuto mi addormento. Comincio a sognare uno spazio nero e blu, più profondo e oscuro di quello in cui sono stato durante l’immersione del Santuario.