In occasione della ripubblicazione, da parte di Adelphi, dei Detective selvaggi di Roberto Bolaño voglio rendere omaggio a un libro che mi ha aperto la testa.
Nel mondo ispanofono si tende a dire che Bolaño rappresenti la chiusura di un discorso, la coda del Ventesimo secolo; peggio, si dice che rappresenti un caso, un caso isolato. Bolaño fa scuola a sé, è un mostro, non apre una tradizione, la chiude (se la apre e se la chiude). Non mi pare. Sono stato forse l’unico ad aver imparato la finzione metaletteraria e autobiografica da Bolaño?

La letteratura, nei Detective selvaggi, è quell’orizzonte sfuggente – quel limite mobile che si sposta più in là a ogni passo di chi la maneggia. È la promessa più alta, la promessa che non si mantiene – mai – e che torna a essere pronunciata ogni volta; la promessa ridicola e quella misterica. La letteratura è il motore di qualcosa, di una ricerca asfissiante, continua, infinita, prosaica – ogni volta che ci si avvicina al suo oggetto agognato, questo sfugge spostandosi in avanti.

La figura del detective è letteraria per eccellenza. Nella letteratura latinoamericana il noir prende molto presto una piega metaletteraria (da “La morte e la bussola” di Borges a Respirazione artificiale di Ricardo Piglia, per citare due argentini nel calderone di una letteratura che è riduttivo classificare sotto lo stesso ombrello): nel parlare della ricerca si parla di letteratura, si usa la letteratura. Il fatto è che nei Detective selvaggi la letteratura è la ricerca e il ricercato allo stesso tempo, la promessa e il marinaio.

Andiamo per ordine. Bolaño per prima cosa si premura, all’inizio del libro, di fornirci una definizione di cosa sia letteratura (“Messicani dispersi in Messico”, 22 Novembre), usando un filtro insolito: quello degli orientamenti sessuali.

Ernesto San Epifanio disse che esisteva la letteratura etero, omo e bi. I romanzi, in generale, erano etero, la poesia al contrario era assolutamente omo; il racconto, deduco, era bi, anche se questo non lo disse.
Nell’immenso oceano della poesia distingueva varie correnti: ricchioni, froci, frocetti, checche isteriche, culi, finocchi, ninfe e efebi. Le due correnti principali, tuttavia, erano quella dei ricchioni e quella dei froci. Walt Whitman, per esempio, era un poeta ricchione. Pablo Neruda un poeta frocio. William Blake era ricchione, senza alcun dubbio, e Octavio Paz frocio. Borges era efebo, nel senso che poteva essere prima ricchione e poi all’improvviso semplicemente asessuato. Rubén Darío era una checca isterica – di fatto, la regina e il paradigma delle checche isteriche. Nella nostra lingua, ovviamente. Nel mondo vasto e lontano il paradigma sarà sempre Verlaine il Generoso.
[…] In Spagna, Francia e Italia i poeti froci sono stati legioni e legioni, al contrario di quanto potrebbe pensare un lettore non del tutto attento. Quello che succedeva era che un poeta ricchione come Leopardi, per esempio, ricostruisce e modella, in qualche modo, dei froci come Ungaretti, Montale e Quasimodo, il trio della morte. Allo stesso modo Pasolini rappresenta la froceria italiana attuale – si veda il caso del povero Sanguineti (con Pavese non voglio avere niente a che fare, era una checca triste, unico esemplare della sua specie, e nemmeno con Dino Campana che mangia in un tavolo a parte, il tavolo delle checche isteriche terminali).
[…] E ora, alcune differenze tra froci e ricchioni. I primi supplicano persino nei sogni una mazza di trenta centimetri che li apra in due e li fecondi, però nel momento della verità col cazzo che ci vanno a letto coi loro magnaccia. I ricchioni invece sembra che vivano in permanenza con una mazza che gli rimescola le budella e quando si guardano allo specchio (cosa che amano e odiano allo stesso tempo) scoprono nei loro stessi occhi sprofondati l’identità del Magnaccia della Morte. Il ruffiano, il magnaccia, per froci e ricchioni, è la parola che attraversa illesa i domini del nulla.

La letteratura è tutto: il filtro di ogni cosa (il sesso, l’etica, la politica, la ricerca, la lotta, l’amore e ogni altro ambito dell’abitare umano) e il traguardo di ogni cosa. Di più: prima di tutto, l’uomo è un animale letterario.

Nei Detective, si diceva, la letteratura è allo stesso tempo la promessa e il marinaio che la pronuncia. C’è un altro elemento da mettere sul fuoco: Bolaño è un poeta prima di tutto, eppure trova compimento definitivo in prosa. Il fatto è che la letteratura è alta e bassa allo stesso tempo, sublime e ridicola. È proprio in questa tensione simmetrica (promessa e marinaio; sublime e ridicolo) che prende forma il suo progetto di finzione autobiografica[1]. Un progetto il cui punto non è tanto usare il proprio nome anagrafico e scrivere in prima persona (ci sono decine di voci nei Detective, uno delle quali è quella di Arturo Belano, anagramma semiserio di Roberto Bolaño) quanto quello di dare forma a un teatro in cui le proprie esperienze sono disseminate nei tessuti di vari personaggi. La biografia di Bolaño è il tema dei Detective, un tema svolto in chiave mitica.

Cosa promette la letteratura? Niente, qualcosa, se stessa. La maggior parte delle voci presenti nei Detective sono voci di poeti – di scrittori. La loro ricerca – sublime e ridicola – si struttura intorno al ritrovamento della fondatrice dei real-visceralisti, movimento poetico messicano di inizio ‘900. La letteratura è la promessa della svolta e la scoperta che svolta non si dà – è un loop interminabile finché si dà uomo. È il limite. Come si dice questo limite? Bolaño usa principalmente tre temi: se stesso, la scrittura e la letteratura. Domanda e risposta combaciano: è uno sclero, un’ossessione circolare, e io ci sto proprio in mezzo.



[1] Ma questo è Don Chisciotte!, direte voi – e io sarei in gran parte d’accordo con voi.