Michele Vaccari è editor e scrittore. Una cosa che ho notato è che Vaccari, rispetto ai più e anche rispetto a me, ha una visione positiva dell’attuale panorama letterario italiano. Non che io pensi ci sia il vuoto totale, anzi; penso, semplicemente, vi sia un abbassamento della qualità e della quantità rispetto alla nostra tradizione, che vi siano meno eccellenze rispetto a qualche decennio fa. Molti pensano che non ci sia quasi nulla di interessante. Qualcuno pensa addirittura che il romanzo italiano sia morto. Vaccari no, lui pensa che ci sia tanto e che il problema sia altrove. Da qui l’intervista, e il piacere dell’intervista – che a dir tutti le stesse cose ci si annoia e si impara poco.
L’occasione dell’intervista è la partenza – con la pubblicazione de Il grido di Luciano Funetta – della collana Altrove di Chiarelettere, da lui diretta, dedicata a un certo tipo di scrittura rivolta al futuro che ci interessa.

Antonio Russo De Vivo (ARDV): La mia opinione è che il Novecento italiano, per una serie di motivi sui quali non ci soffermiamo, sia stato ricco dal punto di vista letterario almeno fino agli anni Settanta-Ottanta e che l’ultimo grande classico all’altezza del secolo sia stato Seminario sulla gioventù di Aldo Busi. Dopodiché non sono mancate le buone pubblicazioni, ma la nostra letteratura si è impoverita.
Sono convinto tu non sia d’accordo con me e ti chiedo: qual è lo stato della nostra letteratura oggi? Quali sono gli autori all’altezza della nostra tradizione?
Michele Vaccari (MV): La tua posizione è in parte condivisibile. I Settanta/Ottanta sono state decadi di grande avanguardia artistica, non solo dal punto di vista letterario. Bisognerebbe rileggere L’orda d’oro di Primo Moroni e Nanni Balestrini per avere un’idea di cosa fu davvero quell’epoca, di quali furono le ragioni, soprattutto politiche, che portarono a un clima fervido e alla pubblicazione di opere eterne cui ancora oggi guardiamo con nostalgia. Ciò che è cambiata, è l’idea di fondo. Einaudi arrivò a far fallire la sua azienda pur di mantenere uno stile, una coerenza. Ma dietro la cultura italiana c’era anche la forza di un Partito, di una classe borghese molto forte e compatta, di un Paese che ancora non era stato sconfitto dall’annientamento cerebrale televisivo. Credo che dopo la morte di Italo Calvino fu molto difficile per gli attori della produzione di allora capire quale futuro si sarebbe delineato all’orizzonte. Senza operazioni come Stile Libero Einaudi, Maltese Narrazioni o Shake Edizioni, azzardo a credere che difficilmente ci sarebbero state persone abbastanza folli da credere in un’editoria indipendente, che avrebbero investito le proprie misere risorse finanziarie per creare imprese votate alla pubblicazione di semisconosciuti, fuori da qualsiasi circolo di potere o di massoneria letteraria. Da quell’editoria, ancora oggi, vediamo uscire romanzi che un giorno potranno essere ritenuti dei classici. Non faccio nomi per non scontentare nessuno ma basta vedere i migliori autori del nostro tempo da dove sono partiti. Raramente dalle major. Lo stato della nostra letteratura è florido per queste ragioni: ci sono persone, piccoli editori, inventori di riviste, blogger entusiasti senza nessun piano B, che hanno scelto come forma di felicità quella di investire a perdere sulla narrativa italiana come ai tempi che furono facevano Einaudi, Bompiani e tutti i grandi protagonisti della letteratura cui tu ti richiami. Ma non solo. Fare questo oggi rappresenta un ulteriore atto di coraggio, oltre che di ossessione. In quegli anni c’erano altre logiche commerciali, leggere era un fatto di costume che significava emancipazione, progresso, “essere studiato” era prova di miglioramento sociale, creava invidia, era un orizzonte da raggiungere per chiunque, non una posa da tenere tra un disco di Brunori e la visione del prossimo film di Iñárritu. Significa combattere una battaglia di retroguardia con nessuna possibilità di vittoria, con un successo che quando è significativo coinvolge un numero di persone pari agli abitanti di un medio quartiere di Roma. Farlo oggi, significa sfidare il preconcetto che la letteratura sia quel fatto elitario cui Umberto Eco aveva già richiamato tra le righe quando agli inizi degli anni Ottanta parlava di Neotelevisione. Gli autori all’altezza della nostra tradizione? Ti dico tre cinquantenni dalla voce unica: Maria Rosaria Valentini, Giorgio Falco, Ugo Cornia.

ARDV: La critica letteraria ha esercitato, in passato, un ruolo fondamentale non solo come filtro, ma anche come testimone di una determinata epoca e come parte attiva nella stimolazione dei processi culturali. Dal punto di vista dello scrittore e dell’editor, qual è il ruolo della critica oggi? Come potrebbe incidere al meglio nel nostro contesto di riferimento?
MV: Dovremmo chiederci qual è il ruolo della promozione e della distribuzione libraria che incide per il 50% sui costi d’impresa editoriale. Queste sono domande che meritano una risposta immediata perché incide sulla vita di tutti i lavoratori del mondo culturale nostrano. I critici hanno sempre lo stesso ruolo. Penso ai Morselli, ai D’Arzo, ai Fenoglio, a tutti gli altri snobbati e dimenticati che il tempo ci ha restituito. Mi vengono in mente loro quando penso al ruolo della critica in Italia. Nient’altro.

ARDV: Stai per intraprendere, con la casa editrice Chiarelettere, una nuova avventura editoriale; a breve ci sarà la prima pubblicazione della collana Altrove da te diretta: Il grido di Luciano Funetta. Si tratta di una collana di fantascienza, in particolare di opere distopiche che riguardano l’Italia. Cosa intendi, innanzitutto, per fantascienza e distopia?
MV: Non è fantascienza né distopia tout court. Oggi tutti scrivono romanzi distopici e improvvisamente è scoppiata la moda. Io ho sempre e solo scritto romanzi ambientati in un presente o in un futuro alternativo, quindi so cosa non sono i romanzi di Altrove. Si tratta di narrativa d’anticipazione, senza indicazioni negative di fondo o strizzate d’occhio moralistiche. Il tentativo è interrogarsi sulla produzione letteraria intesa come evento artistico: mi sono chiesto se si può superare l’impasse per cui l’editore è brutto e cattivo e noi poveri autori, invece, scriveremmo capolavori, oppure, viceversa, noi editori siamo dei geni ma gli autori hanno idee tristi e ritrite. Dove sta la verità? Cosa succede alla letteratura italiana di oggi se gli togli il nostalgismo, gli obiettivi di mercato, le regoline della scuola X o Y di editing, se crei una squadra di esseri umani limpidi che hanno fatto della loro voce letteraria e delle loro invenzioni stilistiche un marchio di fabbrica al di là dei consensi e degli applausi, magari, per la loro forza e coerenza, meritandosi una sana emarginazione dal pianeta degli eletti editoriali. Cosa succede, insomma, se gli metti di fronte il futuro, un luogo che pochi prima di Netflix frequentavano, un pianeta che pochissimi autori hanno paura di raggiungere perché non ha lettori automatici, come parlare di Olocausto o di anni Settanta che sono fenomeni che tutti sentono propri perché fanno parte del nostro essere figli del Novecento? Cosa succede quando la fantasia va davvero al potere? C’è davvero la possibilità di un’isola o hai ragione tu, la letteratura di oggi non vale nulla? La lungimiranza di Lorenzo Fazio mi ha permesso di creare questo spazio, un Altrove professionale in cui tutto il processo produttivo viene condiviso con l’autore che si assume ogni responsabilità su ciò che esce con in testa il suo nome. Altrove, in qualche modo, non è una collana di fantascienza ma un esperimento di anarchia editoriale volto a verificare come l’assunzione di determinati oneri da parte di ogni attore della filiera comporti un miglioramento del prodotto che arriva al lettore, riuscendo a marginalizzare l’ideologia gerarchica che ha portato agli sfaceli di certe edizioni che soffocano il mercato editoriale odierno.

ARDV: Perché hai scelto di delimitare il progetto al luogo-Italia? Quali sono opere italiane passate che potrebbero fungere da modello per le opere che saranno pubblicate; che, scritte oggi, avresti incluso nella collana?
MV: Le meraviglie del duemila di Emilio Salgari, Gli anni perduti di Vitaliano Brancati, Dodicesimo millennio di Roberta Rambelli, Roma senza papa di Guido Morselli, Il pianeta irritabile di Paolo Volponi, Elianto di Stefano Benni, Cargo di Matteo Galiazzo, I biplani di D’Annunzio di Luca Masali, Residui di Stefano Massaron, Branchie di Niccolò Ammaniti, Sirene di Laura Pugno, Dinosauri di Giorgio Specioso, Breve storia di lunghi tradimenti di Tullio Avoledo, La mentalità dell’alveare di Vincenzo Latronico, XXI secolo di Paolo Zardi, Un attimo prima di Fabio Deotto. Direi questi, a memoria.

ARDV: Ritieni che il genere, che sia fantascienza o altro, ancora oggi sia sottovalutato nel nostro contesto letterario e culturale? Non credi sia terminata la fase critica in cui i generi venivano ghettizzati nel grande e onnicomprensivo calderone della paraletteratura? Resto convinto che la diffidenza residua rispetto a questo tipo di letteratura sia dovuta addirittura al processo inverso: all’autore che crea il prodotto di genere semplificando volutamente linguaggio e struttura del testo, strizzando l’occhio sfacciatamente al lettore senza immaginare minimamente di poterlo sorprendere, spiazzare; sei d’accordo?
MV: I generi ora vanno di moda. Non era mai accaduto. Superata la fase per cui scrivere di fantascienza, o pubblicarla, significava essere di destra, i critici si stanno accorgendo di cosa abbiamo perso da quando Primo Levi si dovette scusare in tv davanti alla generazione dei critici al soldo del PCI per aver osato scrivere un romanzo di genere. Non so se loro, al pari dell’immenso Levi, avranno il coraggio di scusarsi, visto quanto preferiscano ancora gareggiare nella corsa a chi grida più forte il romanzo è morto. Non credo che gli autori semplifichino. Penso solo che molte volte cerchino di sopravvivere, come chiunque ha un talento e ogni cosa che fa, per chi non ne ha, casualmente è un errore imperdonabile.

ARDV: Credo che in ogni momento storico agli scrittori si offrano, con urgenza, determinate tematiche. Quali sono le nostre attuali urgenze nel vasto e variegato campo delle narrazioni (e dunque non solo in letteratura)?
MV: Credere nell’incanto. Se per un momento siamo sfiorati dalla possibilità di dare ascolto alla realtà che ci circonda, rischiamo l’estinzione.

ARDV: La letteratura italiana contemporanea mi pare non abbia particolare peso al di fuori dei nostri confini. Sei d’accordo? Quali autori, secondo te, potrebbero essere esportati con successo?
MV: Tutti: è esclusivamente un problema politico. Non contiamo nulla da Mussolini in poi. Gli unici romanzi che esportiamo sono quelle storie che avvalorano l’idea retorica che il mondo ha di noi. Siamo ancora i nostri stereotipi: cibo, corruzione, Rinascimento, saghe e faide familiari, pettegolezzi, Sud Italia felice e confusionario. L’altrove italiano esiste, basterebbe avere il coraggio di comunicarlo a livello macro. Editori, agenti letterari, operatori culturali, stanno facendo molto perché le cose cambino. Purtroppo, la percezione politica è che al Ministero della Cultura ci vada messo sempre il dirigente meno preparato in assoluto, come fosse il Ministero per l’insalata caprese. Tanto varrebbe abolirlo e versare i soldi avanzati in una specie di Cassa per il Mezzogiorno, un fondo per la promozione dei nostri autori all’estero. Moltissime nazioni hanno un fondo del genere, da cui altrettanti editori nostrani attingono per pubblicare scrittori altrimenti difficilmente pubblicabili. I modi ci sono, anche se credo che il migliore sarebbe parlare di scrittori in lingua italiana piuttosto che di scrittori italiani. Sarebbe già un inizio di evoluzione.