È da circa un anno che sono alla ricerca di una nuova formula, per questo aforisma brevissimo, filo rosso di almeno due secoli di pensiero letterario e scientifico.
In fondo la mia ricerca di altri modi di dire “io non vedo niente” è volta soprattutto alla letteratura: in Antonio Moresco, nei Canti del Caos, ho trovato un accenno di ciò che non vedevo altrove. Anche Il gioco del mondo di Julio Cortázar contiene – in un’altra versione – un modo di interpretazione dell’aforisma.
Ecco, però, cercare nella letteratura i motivi della letteratura è una cosa da idioti (o da epigoni), poiché i motivi (eccetto quando questi sono le trame narrative?) sono le nostre percezioni e una conoscenza trasversale delle cose percepite.
Mi sono quindi aperto ad altre letture.

Una di queste è: Qualcosa, là fuori – Come il cervello crea la realtà di Enrico Bellone (Codice edizioni, 2011)
Nel capitolo “I colori: registrazioni o creazioni?” viene descritto il processo per cui i messaggi (una volta le immagini) ricevuti dalla luce, passando attraverso le retine, trasportati da fibre nervose  e giungendo e separandosi nel nucleo genicolato destro o sinistro, permettano la registrazione di ciò che si sta vedendo (nel caso del capitolo sono appunto i colori).

Ciò che mi interessa, per ritrovarmi nell’aforisma, sono tre momenti di questo passaggio di messaggi. I primi due sono strutturali e riguardano la posizione delle retine e delle fibre nervose.

Le retine, per cominciare: funzionano come se fossero divise in due parti curiosamente separata. Ecco la retina dell’occhio destro: c’è una parte che è vicina al naso e che si chiama retina nasale, mentre l’altra sta dalla parte opposta e si chiama retina temporale. La retina nasale destra è collegata, da fibre nervose, alla parte sinistra del cervello. Fibre nervose che percorrono un tratto nel cervello insieme alle fibre che emergono dalla retina temporale dell’occhio sinistro. Le fibre in uscita dalla retina temporale destra proseguono invece verso la parte destra del cervello, insieme a quelle che partono dalla retina nasale dell’occhio sinistro. Un doppio incrocio, una complicazione enorme.

L’area visiva si trova nella parte posteriore della corteccia e non è una struttura unica. Il cervello, infatti, è diviso in due emisferi, e quindi abbiamo una corteccia visiva destra e sinistra. […] Sulle cellule nervose di V1 destra (emisfero destro del cervello, ndr), quindi, approdano i segnali dalla retina temporale destra e dalla retina nasale sinistra, […] l’area visiva V1 dell’emisfero destro guarda la parte sinistra del campo visivo totale: di conseguenza, la V1 di sinistra tiene d’occhio la parte destra di questo campo. Ciò che non si trova nella figura (a pagina 52, ndr), ma che si trova nel libro[1], è questo: data la rete delle fibre nervose, i punti di retina sono connessi a punti di nucleo, e questi ultimi sono connessi a punti di V1. Si formano così delle mappe. Ovvero, su ciascuna delle due zone di V1 si forma una mappa topografica, punto a punto, di specifiche parti di retina. La V1 dell’emisfero destro raccoglie segnali che riguardano la parte sinistra del campo visivo, e se una grave lesione affligge questa V1, allora il paziente vede soltanto ciò che accade nella parte destra che egli sta esplorando con gli occhi.

(Qualcosa, là fuori, pag. 50 – 52)

Il terzo momento, che nel libro sta tra questi due citati, è di tipo più speculativo e, quindi, letterario – ammesso che la letteratura sia proprio vedere dove non si vede.

Dunque, si è parlato solo dell’aspetto di trasmissione del messaggio, ancora niente di più specifico sul tipo di messaggio. Ecco che cosa ne dice il fisico:

Pur avendo fatto i primi passi dovrebbe essere evidente che le fibre, nei loro strani cammini, servono per trasportare messaggi dalle retine al cervello. Messaggi che sono scritti in un linguaggio di straordinaria semplicità: una fibra trasporta un segnale, oppure nessun segnale. Tutto qui: i segnali sono impulsi elettrici tra loro identici e un messaggio è una sequenza di segnali. Ovvero: nel cervello non irrompono immagini dei corpi esterni, ma messaggi.
(Qualcosa, là fuori, pag. 51)

Quest’ultima considerazione nella sua chiarezza formale e nell’informazione semplice, è stata come un taglio netto alle mie considerazioni estetiche, in materia di letteratura. Il fatto che il taglio sia opera di un libro di fisica e neuroscienza, la dice lunga sul livello speculativo-critico degli ambienti letterari sui generis. Mi è apparso chiaro, a questo punto, ritenere che, se i messaggi sostituiscono le immagini (che finora come uomini abbiamo visto, e nonostante tutto continueremo a vedere) e queste arrivano disgiunte, frantumate al cervello; che i messaggi sono poi ricostruiti e organizzati più o meno complessamente, allora si mostra un altro modo di intendere l’aforisma da cui sono partito, un modo più crudele: la scienza, come una volta era per il teatro tragico antico (la cecità di Edipo, la volontarietà del suo accecamento), si porta dietro buona parte del peso della crudeltà, di quell’impasto di raziocinio e amor fati, cioè di inevitabilità – o, come sostiene lo stesso Bellone, di mancanza di libertà nel pensare cose semplici e le radici delle cose semplici, poiché in essere vedremo sempre e solo immagini e non i messaggi, i codici che si sottendono all’illusione e all’inganno.



[1] Il Libro di cui parla E. Bellone è A vision of the brain, Semir Zeki.