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Secondo Rousseau, il denaro che si ha è lo strumento della libertà mentre quello che si insegue è lo strumento della schiavitù. Christopher Marlowe dice che il denaro non può comprare l’amore ma migliora la posizione contrattuale. Per i protagonisti de I privilegiati, Adam e Cynthia, il denaro è la vita, o, meglio, il lasciapassare per una vita degna di essere vissuta.
Il titolo originale del romanzo di Jonathan Dee, The Privileges (I privilegi), chiarisce ulteriormente il concetto: non abbiamo due personaggi che accedono a un certo stile di vita, ma un certo stile di vita che s’installa nell’essere umano, facendosi chiave di lettura di ogni esperienza. Tanto più che al centro della vicenda non ci sono tanto i soldi quanto la ricchezza: cos’è, quando e come la si raggiunge, quali obblighi comporta, cosa può permettere.

La cosa interessante è che Adam e Cynthia non vengono presentati né come personaggi del tutto spietati o negativi né come anime dannate e infelici che abitano un inferno con tutti i confort: sono persone normali, molto ambiziose, che hanno un’idea chiarissima di cosa vogliono e di che cosa fare per ottenerlo. Dal loro matrimonio in grande stile fino alla maturità – che li vede impegnati con una primogenita che entra e esce da centri di riabilitazione e un secondogenito che cerca di costruirsi (fallendo) una sua identità che prescinda dalla loro ricchezza –, Adam e Cynthia cavalcano con impegno una vita di benessere, di circoli esclusivi, di amicizie calibrate sullo status, perché i privilegi hanno un prezzo: richiedono una forza fuori dal comune, un rigore che spesso sconfina nella spietatezza, nel calcolo razionale e oculato.

Adam e Chyntia non crescono e non si evolvono, al massimo si irrobustiscono in modo da poter gestire una mole di denaro sempre maggiore, usando poi la loro ricchezza per migliorare il mondo attorno a loro; i buoni propositi che muovono la coppia diventano presto una delle componenti più disturbanti del romanzo. L’umanità nel loro mondo è divisibile in due categorie: coloro che aiutano (i ricchissimi) e coloro che devono essere aiutati (tutti gli altri), cioè anime deboli non programmate per la ricchezza. Cynthia e Adam aiutano, ma con insofferenza, talvolta con stizza, senza capire che forse i valori che muovono i “bisognosi di aiuto” sono altri, o che magari certe persone hanno solo bisogno di trovare la loro dimensione per vivere sereni; sembra quasi che il povero esista solo per far capire al ricco l’eccezionalità del suo privilegio (e quindi la sua propria eccezionalità), aiutandolo a stare con i piedi ben piantati per terra, per riacquistare le giuste coordinate esistenziali.
Il privilegio diventa suprema astrazione, un concetto paritario e puro (o sei ricco o non lo sei), un elemento che ti mette tra i piloti del mondo che viene sì migliorato, ma in senso fumoso, poco tangibile, talvolta addirittura incomprensibile. Cinthya e Adam sono due eletti, pronti a un percorso di ascetismo morale estremo e a suo modo addirittura eroico. I soldi in sé sono un elemento secondario (molte volte, nel corso del romanzo, viene ripetuto che non hanno importanza), un qualcosa per cui non vale la pena angustiarsi, perché ci sono cose più importanti: l’essenziale è confermare ogni giorno di essere quel tipo di persone atte a godere del privilegio, pronte dal punto di vista mentale ed emotivo a ricevere la ricchezza, a gestirla, a moltiplicarla.

Quello che potevi aver fatto il giorno prima non significava nulla: l’istante in cui smettevi di valutare ciò che avevi costruito aveva inizio la rovina.

Il fascino de I privilegiati sta nel riuscire a illustrare uno status senza scivolare nel giudizio di chi lo persegue ed è più che pronto a pagare il prezzo necessario al conseguimento del suo obiettivo, fino al momento in cui questo obiettivo non diventa la sua identità.
Al lettora resta da capire quanto ne valga la pena.

Jonathan Dee
I privilegiati (2010)
Trad. it. di Stefano Bortolussi
Beat, 2012
pp. 271