“Bisognerebbe dire che tutta la letteratura è fantastica.”
(J. L. Borges, Prefazione alla prima edizione italiana, Einaudi, 1980
in Borges, Bioy Casares, Ocampo, Antologia della letteratura fantastica, Einaudi, 2007)

Alfredo Zucchi: Se dovessi scegliere una parola per descrivere il fantastico, direi vertigine – cosa diresti tu? E cos’è, soprattutto, il fantastico?

Alberto Chimal: Direi immaginazione, che contiene la possibilità della vertigine e molte altre. Per me il fantastico è una possibilità del linguaggio: quella di formulare domande riguardo alla realtà, esplorando le sue definizioni e i suoi limiti.

Alfredo Zucchi: Nella tua esperienza di scrittore, come si declinano queste possibilità, a seconda che tu scriva un racconto o un romanzo? Non ti chiedo una posizione teorica, ma una sorta di autopsia degli eventi che accompagnano la pratica della scrittura. Che differenze hai notato – in termini pratici: di abitudini di scrittura, di modi di “cacciare o pescare idee” e poi svilupparle – tra scrivere racconti fantastici e romanzi fantastici? (Mi riferisco, qui, all’epistolario di Cortázar, alle lettere a Barnabé del 1959: “Un racconto è una struttura, ma ora ho bisogno di destrutturarmi per tentare di raggiungere, non so come, un’altra struttura più reale e veritiera; un racconto è un sistema chiuso e perfetto, un serpente che si morde la coda; e io voglio farla finita con i sistemi e i meccanismi di precisione per riuscire a addentrarmi nel laboratorio centrale e lavorare, se ne ho la forza, sulla radice che prescinde da ogni ordine e sistema.” Carta carbone, Edizioni SUR, 2013)

Alberto Chimal: Quello che dice Cortázar, in una certa misura, è il modello di una ricerca spirituale e non solo letteraria; per questo va interpretato con attenzione. Non credo che un racconto sia “un sistema chiuso e perfetto”: può esserlo, se il contesto in cui è scritto e pubblicato è soggetto a regole oppressive e distanti dalla letteratura, come la pressione commerciale per rientrare in “generi” prestabiliti in un determinato mercato. Può anche accadere, però, che la scrittura non si trovi assoggettata a simili obblighi. Questo tipo di libertà non è facilmente godibile, almeno in Messico: per quanto nel mio paese non ci siano mercati consolidati per nessun sottogenere del fantastico, di sicuro c’è più attrazione a scrivere di altri temi.  Gli scrittori che si avvicinano al fantastico, per temperamento o per formazione (o per destino), spesso si accontentano di replicare, in versione ridotta, quanto si scrive e produce all’estero. Però divago. Per rispondere alla domanda, posso dirti che a me interessa soprattutto sfruttare la relativa libertà a cui mi riferivo sopra, pensando ogni progetto in ragione dei suoi obiettivi e delle sue esigenze, e non in relazione deliberata con le prescrizioni che, volenti o nolenti, si presentano agli occhi di scrittori e lettori quando si usa la denominazione “racconto fantastico” o “romanzo fantastico”. Voglio dire che il mio approccio alla scrittura di racconti o romanzi è diretto: cerco di risolvere i problemi pratici che ognuna delle forme portano con sé indipendentemente dal loro contenuto. Ad esempio: questo romanzo ha bisogno di una digressione in questo punto, o si sta allontanando troppo dal tema principale? E questo racconto invece: quella scena è troppo lunga, o invece non riassume con giustezza il carattere di un personaggio? Si tratta, dunque, delle stesse differenze che le forme generali del racconto e del romanzo presentano e portano con sé.

Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

Luca Mignola: Qual è la tua relazione con la tradizione letteraria latinoamericana, nordamericana e europea? Quali sono i libri che ti hanno influenzato e ispirato?

Alberto Chimal: Mi sento più vicino alla tradizione latinoamericana e, in secondo luogo, a quella europea. Mi è toccato nascere negli anni in cui il fantasy statunitense si è cristallizzato come sottogenere editoriale, simile ad altri sottogeneri di quella stessa cultura (la science fiction è uno di questi, anche se un po’ più antico): non ho avuto il tempo di esserne influenzato. Solo dopo, di fatto, ho potuto osservare come questa categoria si stesse imponendo tra i miei contemporanei e tra i lettori più giovani. (Le categorie prodotte negli Stati Uniti, come sappiamo, si esportano e si impongono nel mondo neoliberale, anche se la loro pertinenza è dubbia in contesti diversi da quelli della loro creazione).
Un libro cruciale nella storia del fantastico in spagnolo è l’Antologia della letteratura fantastica di Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares y Silvina Ocampo; i suoi tre curatori sarebbero molto sorpresi nel vedere che oggi, per molte persone nel mondo latinoamericano, il termine “letteratura fantastica” si riferisce esclusivamente all’opera di Tolkien, Rowling e dei loro imitatori. Il fantastico è in effetti un ambito molto più ampio e variegato: nell’Antologia non c’è alcun mago come Gandalf o Dumbledore, e ci sono soltanto due testi che menzionano la parola drago: uno è di origine cinese; nell’altro, la si usa non per nominare una creatura fantastica, ma un’imbarcazione vichinga.
Per quanto riguarda la mia formazione, sono molti i libri che ho amato – tra questi, alcuni mi hanno ispirato in modo particolare e duraturo. Finzioni di  Jorge Luis Borges, Kalpa imperial di Angélica Gorodischer, Caza de conejos di Mario Levrero, Confabulario di Juan José Arreola, un’edizione che avevo di Tutti i racconti di Edgar Allan Poe, e due opere che all’epoca ho letto e digerito con l’etichetta di science fiction, ma che ora preferisco collocare in un contenitore più ampio: La penultima verità di Philip K. Dick e Il congresso di futurologia di Stanislaw Lem.

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Luca Mignola: Concordo con te nel ritenere le categorie di massa riguardanti il fantastico controproducenti e generalizzanti. In questo quadro l’opera di Dick è certamente tra le più sfruttate e probabilmente fraintese. L’opera di Dick ha infatti caratteristiche molto più vicine allo straniamento fantastico che alla tipica narrazione futuristica o distopica, che lo scrittore americano ha influenzato – da Le tre stimmate di Palmer Eldritch o Ubik o al borgesiano The Man in the High Castle. Come ritieni che si possa riconsiderare l’opera di Dick agli occhi anche dei recenti adattamenti seriali e cinematografici? Quale pensi che possa essere il futuro della narrativa sci-fi nella nostra era iper-tecnologica?

Alberto Chimal: Credo che Dick sia ancora oggi una delle grandi fonti d’ispirazione della cultura occidentale, al di là della sua presenza nei mass media. Persino in adattamenti come Blade Runner di Scott, A Scanner Darkly di Linklater o la recente serie tv The Man in the High Castle – queste mi sembrano le migliori tra le opere prodotte a partire dai testi di Dick – esiste una forte tensione con la fonte: in esse si dà priorità ad alcuni temi, a immagini e idee a discapito di altri.
Ci sono vari temi cari a Dick che il cinema e la televisione non hanno ancora utilizzato – temi tra l’altro di grande attualità: la religione, l’esperienza mistica, i mezzi di oppressione totalitaria.
La situazione della science fiction mi sembra più incerta. La narrativa che oggi prende questo nome si è trasformata: è molto distante da quello che Hugo Gernsback, l’editore che coniò questo termine nel 1926, aveva in mente; di fatto science fiction non è nemmeno più quello che Orwell, Lem, LeGuin o lo stesso Dick – per nominare alcuni dei grandi autori del genere – avevano in mente quando scrissero le loro migliori opere. Nel mondo anglofono science fiction oggi è un repertorio di personaggi iconici, argomenti e luoghi comuni della cultura pop, e può mescolarsi con innumerevoli sottogeneri diversi, a condizione che questi ultimi non vengano nominati (un esempio lampante: i supereroi del cinema e dei fumetti).
È importante considerare, inoltre, come in quest’epoca di ascesa di xenofobia e nazionalismo – alla cui testa, lo sappiamo, ci sono gli Stati Uniti – parte delle peggiori ideologie estremiste si nutre dell’opera di autori etichettati come science fiction, come Ayn Rand o Jerry Pournelle. La loro opera ha scarso valore letterario, al contrario degli autori che ho citato sopra, e in ogni caso non si può accettare in modo acritico il fatto che una parte dei “sogni” tipici di questo tipo di storie, come la colonizzazione dello spazio o l’automazione totale della vita urbana, si usino nei discorsi di gruppi fanatici con intenzioni vicine al genocidio. (Tutto questo è particolarmente rilevante in Messico: siamo stati dichiarati, in modo più o meno velato, “nemici” del regime di Trump. In questa epoca noi siamo, per loro, l’orda di invasori, gli zombi, gli insetti alienogeni).

Gotham City disegnata da Grant Morrison

Gotham City

Luca Mignola: Un altro aspetto che hai evidenziato è l’assenza di ‘mostri’ – hai ricordato che nell’Antologia di Borges, Bioy Casares e Ocampo, questi non ricorrono se non due volte e accidentalmente. In due tuoi racconti – “La donna che cammina all’indietro” e “Mogo” (Nove, Salerno, Edizioni Arcoiris, collana Gli Eccentrici 2017)– però ci troviamo di fronte a due figure che, se non dei veri e proprio mostri, hanno almeno qualcosa di demoniaco e che richiamano molto alcune figure care ai fumetti. La vecchia del tuo racconto, ad esempio, mi ha ricordato alcuni personaggi di Batman, mentre in Mogo, anche nel nome, ho rivisto uno di quei demonietti tipici dei manga. Qual è il tuo rapporto con il mondo dei fumetti? Ritieni che il fantastico, anche per la definizione che ne hai dato, possa fare a meno dei mostri?

Alberto Chimal: Quali personaggi di Batman? M’incuriosisce molto perché non riesco a capire quali – spero si tratti di quelli del Batman di Grant Morrison, o al meno di Scott Snyder. Rispetto ai mostri: credo che né il fantastico, né la letteratura in generale possano fare a meno di loro: sono l’espressione delle nostre paure. Ne abbiamo bisogno per dare un senso a queste ultime, per quanto provvisorio – per evitare che si impossessino del tutto del nostro pensiero.

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Alfredo Zucchi: Luca e io abbiamo trascorso i mesi di agosto e settembre immersi in Twin Peaks The Return. Abbiamo discusso ogni dettaglio: “We live inside a dream” ci ha portato a “Nel sogno dell’uomo che sognava, il sognato si svegliò”, che ci ha condotto a sua volta a “Io sono vivo, voi siete morti”. Ecco, in tutto questo, l’ultimo dubbio: che è successo a Audrey Horne?

Alberto Chimal: [seduto in salone, prima si meraviglia, poi scoppia a ridere. Uno dei suoi gatti lo osserva curioso, sua moglie fa lo stesso] Non c’è modo migliore di passare l’estate – e che percorso! Da Philip Jeffries a Borges e infine a Dick! Riguardo alla povera Audrey – ahi. Non credo sia possibile rispondere, a partire dalle informazioni di Twin Peaks The Retun. Non abbiamo informazioni sufficienti, e se è vero che non si farà una quarta stagione, non le avremo mai. Gli indizi e le esche che appaiono saltuariamente, come la menzione del nome “Billy”, non portano da nessuna parte – questa, mi pare, è una scelta deliberata da parte di David Lynch, Mark Frost e compagnia. Audrey era un personaggio molto amato dai fan, e molto legato all’elemento costumbrista[1] del primo Twin Peaks – elemento che la terza stagione ha ribaltato in modo sistematico, anche , probabilmente, per criticare lo sfruttamento commerciale della nostalgia, che è uno dei segni della nostra epoca. Tutta la terza stagione sembra dirci: T’importa sapere “cosa è successo?” Non è successo niente. O niente che abbia quel “senso” che stai cercando. Il passato non può essere recuperato. I morti non tornano. Ciò che è già avvenuto – nella vita dei tuoi personaggi preferiti, così come nella tua – non ha rimedio.
Da questa prospettiva, credo e che Audrey sia stata deliberatamente tirata fuori dal suo mondo: disposta in una zona limbica che sfiora altre zone (come il Bang Bang Bar: uno scenario a volte puramente reale, altre volte diverso). Invece di dare alla vicenda di Audrey una risposta convenzionale, limitata all’artificio del suo argomento, Audrey stessa si è trasformata in una domanda, la cui risposta sfuggirà per sempre – proprio per questo, però, una domanda più profonda e potente.


[1] Il costumbrismo è un filone artistico e letterario in cui i temi principali dell’opera sono i costumi tipici di un luogo o di un gruppo sociale. Come a dire: Napoli = Pulcinella, mafia, mandolino; Veneto = nebbia, evasione fiscale e cazzo duro etc.

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Alberto Chimal (1970) è uno scrittore messicano.  È stato selezionato per il Premio Internazionale “Rómulo Gallegos” nel 2013 con il romanzo La torre y el jardín; ha vinto, tra gli altri, i Premi Nazionali “Colima Narrativa 2014” e “San Luis Potosi Story del 2002”, assegnati dall’Istituto Nazionale di Belle Arti, con i libri Manda Fuego y Éstos son los días, così come il premio “El mejor teatro para niños” della “Feria Internacional del Libro Infantil y Juvenil “ con El secreto de Gorco. È tornato di recente alla letteratura per i bambini con i libri La partida / La madre y la muerte (premio della “Cámara Nacional de la Industria Editorial”) e El juego más antiguo. Tra gli altri suoi titoli ci sono il romanzo Los esclavos e i libri di racconti Los atacantes, La ciudad imaginada, El último explorador, Grey e Gente del mundo, e il manuale di scrittura narrativa Cómo empezar a escribir historias. Insegna Letteratura Comparata presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della UNAM e scrive per diversi media digitali: dal suo lavoro on-line sono venuti fuori i libri di microfinzioni quali Historia siniestra, 83 novelas o El Viajero del Tiempo.
I suoi testi sono stati tradotti in italiano, inglese, tedesco, francese, ungherese, persiano, ebraico, Mixe, mixteca, zapoteca ed esperanto. Il suo sito web è www.lashistorias.com.mx. Realizza un programma di divulgazione su argomenti letteraturi con la moglie, la scrittrice Raquel Castro, sul  canale video www.youtube.com/AlbertoyRaquelMX.

Traduzione da e in spagnolo di Alfredo Zucchi. Di seguito il testo originale.
Revisione per la versione in spagnolo di Nicolás Vidal.

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Alfredo Zucchi: Si tuviera que elegir una palabra para describir lo fantástico, yo diría vértigo. ¿Qué diría usted? Y, sobre todo, ¿qué es lo fantástico?

Alberto Chimal: Diría imaginación, que contiene la posibilidad del vértigo y varias más. Para mí lo fantástico es una posibilidad del lenguaje: la de formular preguntas acerca de lo real explorando sus definiciones y sus límites.

Alfredo Zucchi: En su experiencia de escritor, ¿cómo se derivan estas posibilidades, dependiendo si escribe un cuento (forma breve) o una novela? No le pido aquí una posición teórica, sino algo como una autopsia de los acontecimientos que acompañan la labor de escribir. ¿Qué diferencias ha notado –en términos prácticos: de rutina de escritura, de maneras de “cazar ideas” y luego desarrollarlas– entre escribir cuentos fantásticos y novelas fantásticas? (Nota: pienso aquí en el epistolario cortazariano de la época de Rayuela, en las cartas a Barnabé, en 1959: “un cuento es una estructura, pero ahora tengo que desestructurarme para ver de alcanzar, no sé cómo, otra estructura más real y verdadera; un cuento es un sistema cerrado y perfecto, la serpiente mordiéndose la cola; y yo quiero acabar con los sistemas y las relojerías para ver de bajar al laboratorio central y participar, si tengo fuerzas, en la raíz que prescinde de órdenes y sistemas”.)

Alberto Chimal: Lo que dice Cortázar es en cierta medida el modelo de una búsqueda espiritual y no sólo literaria, así que hay que interpretarlo con cuidado. Yo no creo que un cuento sea un “sistema cerrado y perfecto”: puede llegar a serlo, si se produce en un contexto donde su publicación está sujeta a reglamentaciones opresivas y ajenas a la literatura (como la presión comercial para cuadrar en “géneros” preestablecidos por un mercado). Pero también puede ocurrir que la escritura no esté sujeta a semejantes obligaciones. Ésta es una libertad que se aprovecha poco, al menos en México, porque si bien en mi país no hay mercados establecidos y fuertes para ningún subgénero de lo fantástico, hay más atracción por escribir de otros temas, y entre quienes nos acercamos a lo fantástico por temperamento o formación (o destino fatal) hay muchos que se contentan con replicar a pequeña escala lo que se produce fuera.
Pero me estoy desviando. Para llegar a responder la pregunta, les puedo decir que a mí me interesa aprovechar la libertad relativa a la que me he referido planteando cada proyecto en razón de sus propios objetivos y exigencias y no en relación deliberada con las prescripciones que (se quiera o no) aparecen en la mente de escritores y lectores a la hora de utilizar las denominaciones “cuento fantástico” y “novela fantástica”. Con esto quiero decir que yo me planteo la escritura de novelas y de cuentos a secas, y trato de resolver los problemas prácticos que cada forma conlleva independientemente de su contenido. Por ejemplo: ¿tal novela necesita una digresión en este punto, o bien se desvía demasiado de su trama principal?, ¿tal cuento se prolonga demasiado en esta escena, o no resume apropiadamente el carácter de un personaje? Las diferencias en el trabajo, en fin, son las que las formas generales del cuento y la novela traen de manera natural.

Luca Mignola: ¿Cuál es su relación con la tradición literaria fantástica latinoamericana,  norteamericana y europea? ¿Qué libros y han tenido más influencia en su formación?

Alberto Chimal: Me siento más cercano a la tradición latinoamericana y, luego, a la europea. Me tocó nacer en la década del establecimiento definitivo de la fantasy estadounidense como un subgénero mercantilizado semejante a otros de esa misma cultura (science fiction es otro ejemplo, más antiguo), así que no tuve esa influencia en mis primeros años, y sólo hasta después me tocó observar cómo esa denominación se imponía en lectores contemporáneos a mí y más jóvenes. (Las categorías engendradas en Estados Unidos, como sabemos, se exportan y se imponen en el mundo neoliberal aun si su pertinencia es cuestionable en contextos ajenos al de su creación.)
Un libro crucial en la historia de la comprensión de lo fantástico en castellano es la Antología de la literatura fantástica de Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares y Silvina Ocampo; sus tres recopiladores se sorprenderían mucho si pudieran ver que hoy, para muchas personas en Latinoamérica, el término “literatura fantástica” se refiere exclusivamente a la obra de Tolkien, Rowling y los imitadores de ambos. Se suponía que lo fantástico era mucho más amplio y diverso: no hay un solo mago de varita al estilo de Gandalf o Dumbledore en la Antología de la literatura fantástica, y hay únicamente dos textos que mencionan la palabra dragón: uno de origen chino y otro donde se usa para nombrar no a una criatura fabulosa, sino a un barco vikingo.
En cuanto a mí, tengo muchos libros queridos, pero varios me parecen especialmente influyentes. Entre ellos están Ficciones de Jorge Luis Borges, Kalpa imperial de Angélica Gorodischer, Caza de conejos de Mario Levrero, Confabulario de Juan José Arreola, una edición que tenía de las Narraciones completas de Edgar Allan Poe y dos obras que en su momento leí y comprendí con la etiqueta de science fiction, pero que ahora prefiero entender como parte de algo más amplio: La penúltima verdad de Philip K. Dick y Congreso de futurología de Stanislaw Lem.

Luca Mignola: Estoy de acuerdo con usted con respeto a la influencia negativa que esos “subgéneros mercantilizados” han tenido, reduciendo y limitando la idea de literatura fantástica. En ese marco, tal vez la obra de Philip K. Dick sea la que más haya sufrido este proceso de reducción.
La science fiction de Dick lleva sin duda trazos más cercanos a los de la literatura fantástica que a los típicos relatos futuristas y distópicos, los que se han inspirado en las mismas novelas de Dick –pienso sobre todo en Ubik, en The Three Stigmata of Palmer Eldtrich o en The Man in the High Castle. ¿Cómo queda, hoy en día, a la luz de las adaptaciones cinematográficas y televisivas, la obra de Dick? ¿Y qué futuro tiene la science fiction en nuestra época tan tecnologizada?

Alberto Chimal: Creo que Dick sigue siendo una de las grandes fuentes de inspiración de la cultura occidental, incluso más allá de su presencia en los medios masivos. Aun adaptaciones como Blade Runner de Scott, A Scanner Darkly de Linklater o la serie reciente The Man in the High Castle –que me parecen las mejores hechas a partir de textos de Dick– existen en una relación de tensión con su fuente y dan preferencia a algunos temas, imágenes e ideas por encima de otros. Hay todavía mucho que no se ha planteado en medios audiovisuales sobre ciertos asuntos que importaban mucho a Dick, y que por supuesto tienen pertinencia hoy, como la religión, la experiencia mística y las herramientas de la opresión totalitaria.
La situación de la science fiction me parece más incierta. La narrativa que recibe este nombre se ha transformado: ya está muy lejos de lo que Hugo Gernsback –el editor que acuñó el término hacia 1926– tenía en mente, y de hecho ya tampoco es lo que Orwell, Lem, LeGuin o el mismo Dick –por mencionar a algunos grandes autores– debieron considerar a la hora de escribir sus mejores obras. En el mundo de habla inglesa, al menos, es básicamente un repertorio de personajes icónicos, argumentos y lugares comunes de la cultura pop, y puede integrarse en incontables subgéneros “ajenos” a ella siempre y cuando no se le nombre (un ejemplo obvio es el cine y el cómic de superhéroes).
Además, en este tiempo de ascenso de la xenofobia y el nacionalismo (encabezados por Estados Unidos, como sabemos), se vuelve imprescindible reconocer que parte de las peores ideologías extremistas se alimenta de autores etiquetados como science fiction como Ayn Rand o Jerry Pournelle. Ninguno de éstos tiene una obra que valga mucho como literatura, al contrario de los que mencioné antes, pero en cualquier caso no se puede aceptar de forma acrítica que una parte de los “sueños” típicos de esta clase de historias, como la colonización del espacio o la automatización total de la vida urbana, se usan en el discurso de fanáticos con intenciones casi genocidas.
(Esto es especialmente apremiante en México, por cierto, dado que hemos sido declarados de forma más o menos velada “enemigos” del régimen de Trump. En esta época nosotros somos, para ellos, las hordas invasoras, los zombis, los insectos alienígenas…)

Luca Mignola: Ha subrayado usted la casi total ausencia de “monstruos” en la Antología de la literatura fantástica. Sin embargo, en dos cuentos de su libro Nove (Arcoiris, 2016) –“La donna che cammina all’indietro” y “Mogo”– nos encontramos con dos personajes peculiares: no son, literalmente, monstruos, pero tienen algunos rasgos demoníacos. La mujer anciana del cuento, por ejemplo, me hizo pensar en unos personajes de Batman; Mogo, incluso por su nombre, en los seres demoníacos de los mangas japoneses. ¿Cree usted que lo fantástico puede prescindir de los monstruos?

Alberto Chimal: ¿Cuáles personajes de Batman? (Eso me ha dado mucha curiosidad porque no se me ocurre cuáles. Ojalá que sean del Batman de Grant Morrison, o al menos de Scott Snyder…)
En cuanto a los monstruos, creo que ni lo fantástico, ni la literatura misma, pueden prescindir de ellos. Son las expresiones de nuestros miedos. Nos hacen falta para darles un sentido, aunque sea provisional, y que no se apoderen por completo de nuestro pensamiento.

 Alfredo Zucchi: Pasamos, Luca y yo, los meses de agosto y septiembre sumergidos en Twin Peaks The Returm. Lo discutimos todo: “We live inside a dream” nos llevó a “En el sueño del hombre que soñaba, el soñado se despertó”, que enseguida nos llevó a “I am alive and you are dead”. En todo eso, una duda nos persigue: ¿qué le pasó a Audrey Horne?

[Alberto, en su casa, se asombra y luego se ríe a carcajadas. Uno de sus gatos lo mira con curiosidad y su esposa también.]
Alberto Chimal: Una gran forma de pasar esos meses y un hermoso trayecto: ¡de Philip Jeffries a Borges y luego a Dick! En cuanto a la pobre Audrey…, ay. No creo que sea posible responder desde la misma serie, desde su argumento. No hay información suficiente, y si es verdad que no se planea una cuarta temporada, no la habrá nunca. Los indicios intrigantes regados aquí y allá en los episodios (como la mención del nombre “Billy”) nunca llegan a nada, y el que así haya sido me parece un acto deliberado de David Lynch, Mark Frost y compañía. Audrey era un personaje muy querido por los fans y muy ligado a la parte costumbrista de la Twin Peaks original, que la tercera temporada subvirtió sistemáticamente, como para criticar la explotación comercial de la nostalgia que es un signo de nuestra época. (La serie entera parece decirnos: ¿Te importa “qué pasó”? Nada pasó. O nada que tenga ese sentido que buscas. El pasado no se puede recobrar. Los muertos no vuelven. Lo ya acontecido –en la vida de tus personajes favoritos, así como en la tuya– no tiene remedio.)
Desde esta perspectiva, yo diría que Audrey Horne fue sacada deliberadamente de su mundo narrado: puesta en una zona límbica que toca a otras (como el Bang Bang Bar, que es un escenario real a veces, pero otras un espacio distinto). En vez de darle a Audrey una respuesta convencional, limitada al artificio de su argumento, ella misma se convirtió en una pregunta, para siempre imposible de responder (y por lo mismo más profunda, más poderosa).