Riproponiamo oggi un racconto apparso a Settembre nel secondo numero di Ô Metis, la rivista di Crapula Club.
Il racconto è L’occhio della giraffa, di Luca Mignola.

Buona lettura.

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L’occhio della giraffa

 

Sotto ci sono tutti i blues e tutte queste femmine che si muovono camminano nel mezzo e da ogni altra parte nel mezzo però ci sono io che mi vedo per non vedermi neanche in sogno se mi vedessi mi dico sarei dall’altra parte dell’occhio asportate le retine e i bulbi e i nervi ottici eppure continuo a conoscere solo gli altri e fallisce ogni esistenza che vuole essere sciolta e visibile e cosciente mentre a ogni passo l’esistenza si fa vita incosciente passaggio di carne sconosciuta mentre i blues finiscono e inizia il flamenco su un tempo prolungato al piacere dell’orecchio per questo anche le parole delle femmine mi turbano perché sono le stesse anche nella veglia nella vita fuori dall’esistenza se non stai mi dico allora vuol dire che ti sei spostato e piange una di loro poi smette e io non la vedo più è questo che la fa smettere l’invisibilità dunque è anche assenza di suono insonorizzazione dell’occhio recipiente là dove un’altra sta parlando col figlio e io non so che ci fa qua è che ogni tanto si perde qualcuno e si ritrova un figlio al posto di una compagnia più lunga sancita e la rossa al suo fianco mi tormenta da più di dieci anni bianca riccia come l’altra che si spettina ridendo e scuotendo il culo nella danza o nel cammino che succede potrei chiedermi e senza ricevere risposta accadrebbe qualcosa accade e non c’è spazio che non sia in parte occupato da una femmina che respira che si muove e sta facendo qualcosa là nella piazza come se si stesse preparando una festa la baldoria di una volta e di tempi recenti quando sapevamo come divertirci senza la preoccupazione dell’orologio col suo tempo particolareggiato monoritmato e la mano non scrive mai fino in fondo ciò che la mente pensa e pensa sempre quando la mano non può seguirla perché ci vorrebbe un corpo supersonico che stesse dietro il pensiero non addomesticato o forse ci vorrebbe un’esistenza universalizzata schiavizzata all’attimo che ci fa tutti insignificanti

Allora io direi alla rossa hai gli arti di un felino flessibili e nobili la tua schiena si curva perfettamente niente scoliosi per te nessuna vertebra incuneata ma vertebre che ti fanno sinuosa conservi lo sguardo di una bambina sebbene non ingenua mente e il piede scaltro calzato nelle fibbie strette che allacciano la scarpa in pelle non si spiega poi mi concentro ancora a scrutare a volte qualcuno dice che il sogno è costruire i propri pensieri nella mente vederli precipitarli ma non è vero e non c’è confutazione solo è stata montata una telecamera su una giraffa molto alta e un uomo la regge sulla testa enorme che lo pianta fisso a terra come un chiodo è una segregazione questa cosa che accade perché nessun’altro la conosce così da vicino e comunicarla resta un quanto e questo basta eppure dal palazzo arriva un inno di gioia un riff per piano elettrico e mi ricorda tutto quello che è accaduto prima senza che io volessi andare proprio là con il pensiero e non è bolla d’acqua il ricordo non esplode è miccia e dei tre palazzi per cui ho inventato la prospettiva ne resta uno e la femmina che parla dal balcone spingendo le parole in basso a fatica la riconosco per la voce e la giraffa la segue col suo occhio meccanico protesi radiografica che mi fa riaprire gli occhi e lo schermo antiriflesso mi suggerisce di leggere è l’altra rossa dipinta che mi dice che un giorno ci vedremo e io le credo e i palazzi segregano conservano anche questo specchio delle cose che attendono

Non c’è il poeta di elegie che conoscevo c’è il suo corpo soltanto da qualche parte e nel ricordo mi fingo di essere anche io un poeta d’elegie forse è per questo che stanno mettendo su uno spettacolo e queste femmine qua sono le attrici o ballerine o il pubblico applaudente e io anche questa volta non so chi sono sebbene nel particulare sono un occhio astigmatico e non c’è motivo apparente per cui la donna se ne sta asciutta e il marito con la testa fasciata sono due reduci anche loro che partoriscono figli reduci del ventre materno e della città immondizia e intanto la rossa ride ma non mi guarda perché sa da qualche parte in fondo al sogno che io voglio baciarla e sentire la sua lingua nella mia lingua che dice cose anche mentre si stringe e attorciglia ma non è lei che viene è un’altra tagliato il volto dalla prospettiva è solo corpo in costume da bagno azzurro che si lancia contro scagliato e umido e io non la prendo perché è lei a colpirmi e fermarmi poi mi giro riapro gli occhi e il sudore è pressante e mani e gambe tremano molli come se vivessero anche nel sogno ma non esistono quindi resta che mi rivolti ancora e riprenda il tempo da dove mi era sfuggito per un istante e non è che siamo dispensati dall’essere colpevoli né possiamo liberarci o si vuole morire mi chiedo e tutto ricomincia dalla madre che parla al figlio e non saprò che cosa ci fa lei qui la rossa tinta mi guarda da qualche parte nascosta io allerto il mio sistema di impressioni e non devo un gallo all’ossessione

È finita la musica restano gli schizzi dell’acqua sul selciato della corte e nient’altro che ricorda una musica eppure la giraffa sta là su e guarda la femmina al balcone che la direziona conquistata l’inquadratura e su uno schermo è proiettato il suo mondo interiore le sue ossa e la telescopia radiografica non è per sua natura un punto di vista mentre io sto sotto il corpo da bagno di una femmina che non sa nome perché io taccio per tutto il tempo è già molto essere occhio mi dico e bocca che bacia e mano che fruga tra le cosce e penso her pussy juice è un mare di gusto e vorrei affondarle dentro e tornare nella placenta e lei prende a masturbarmi e leccarmi e penso che ha un volto che non vedo eppure le sue labbra le sento come se fossero fatte di plastica i suoi baci schioccano sordi vuoto è l’involucro della femmina quindi mi dico fino a che non mi trovo anche io sul palazzo e la giraffa il collo lungo e ferroso poggiato sul cranio a capocchia di spillo dell’uomo in basso che parla di una situazione diversa che non era auspicata venti anni fa come se dice voi foste colpevoli e invece noi siamo colpevoli e tutto qui finisce se non siamo colpevoli mi sonda eppure io non sento più perché da qui sopra vedo la rossa e la madre e il figlio e le altre femmine che occupano porzioni di spazio incuranti di quanto stanno facendo dell’esistenza che spostano e negano e tutto quanto mi pare idiosincratico perché io sono solo un occhio e non appoggio su un corpo sotto di me è il vuoto ma se precipito vado da un’altra parte e subito la rossa tinta mi dice che lei ad est vuole andare non troppo lontano da qui e mi scrive cose e io non le rispondo cose ma accenni di cose di intenzioni che non diventano crapula al contrario solo desiderio irredento o ingiustificato e quindi la giraffa mi proietta fuori come sono dentro e infine mi vedo e ammetto di non riconoscermi sebbene l’involucro della donna ora riprenda a baciarmi e io in parte la riconosco e se non mi riconosco mi dico è perché sono anche io involucro insignificante vasetto di sperma e sangue bendato

Eppure l’uomo sul divano non ha più la testa fasciata sebbene la moglie giù nel mare infecondo e la rossa la prima che parla è fuga prima ancora che involucro sordo e vuoto ora che nei seni accoglie tutto il succo che viene fuori e dice la madre niente resta immutato e solo il ritorno è l’indice che ogni cosa è perfetta se la condizione è un’infrazione alla ruota e il figlio la stringe tra le ossa e dentro lo schermo oltre il quale la prospettiva diventa sfumatura l’occhio della giraffa si approfondisce spalancandosi e tutto è perché il tempo resta qualcosa indubbiamente sono dentro il piano inverso e rovesciato e l’immagine scatta in ritardo e mi amplifica ma io non sento altro la musica molle del vuoto schizzo dentro l’incavo delle mammelle e sulle spille rosacee sulle quali cola il premio per lo sforzo la bocca senza fiato e quindi scomparsa oltre la sua pelle ialina si fa sfondo di luce e le mie mani si flettono solo a stringere la carne della musica

Intanto, nel caldo evaporarsi delle acque temporalesche, il palazzo cui dedico l’opinione è inondato dalla pioggia scrosciante tanto che mi sporgo fuori dell’occhio della giraffa: l’aria è fresca; in fondo se respiriamo è perché siamo vuoti.