Che poi Safik non lo capisce subito che quello è sangue.
Lo capisce quando ci scivola sopra, quando prova a rialzarsi e scivola ancora e ci sbatte la faccia e sente l’odore forte, ferroso che gli riempie il naso e la gola, e allora urla e prova ad alzarsi ancora e cade, ancora, e gli viene da vomitare fortissimo e dietro di lui c’è Riassad che prova a tendergli la mano e poi ci cade sopra anche lui e la stanza è di un rosso scuro che riflette le mura scalcinate e la luce fioca, giallognola che filtra dalla porta appena aperta e a Riassad cade la pistola e si mette la maglia sulla faccia perché l’odore è insopportabile. Poi, bagnata dalla luce, si intravede una donna: il corpo fatto a pezzi, il viso ancora intatto che sembra quello di una bambina e che a guardarla ha un’espressione strana, un sorriso adulto e troppo maturo, una consapevolezza ancestrale, come la prima notte di quiete, come una pace che alla fine è arrivata; però gli occhi, gli occhi sono spenti ma dentro c’è rimasta una specie di orrore, una scintilla scura, un’anguilla nera che si agita sotto una superficie abissale, come se l’avessero fatta a pezzi mentre era ancora viva, come se fosse entrata sveglia nella morte.

Le dita di Safik trasmettono al cervello quella sensazione vischiosa che ti dà il sangue quando sanguini. Riassad alla fine ha vomitato, la luce però ha continuato a cercare di entrare bagnando i profili della stanza, come uno spiraglio, un balenare sfuggente dentro un antro scuro, in quel cuore primordiale, come se nulla fosse.

E adesso Riassad si alza pulendosi la bocca e Safik lo guarda e la sua bocca trema come volesse dire qualcosa e sembra un bambino anche lui, e adesso l’hanno capito che è sangue e adesso l’hanno capito da dove viene e comunque non è adesso che sono finiti in Libia e non è adesso che hanno risposto al telefono dalla stazione di polizia di Rabat in un giorno col cielo rosso che sembrava sanguinasse, e non è proprio questo il momento in cui hanno parlato con un tizio dall’accento strano e oscuro che ha detto di essere un giornalista o qualcosa del genere e di aver trovato un caso simile a quello che avevano trovato loro, e non è ora che sono partiti, che hanno varcato il confine, perché sono ancora lì: l’odore di sangue e il vomito che si mischiano alla putrefazione, Riassad che cerca qualcosa per coprire quel volto per coprire quegli occhi, Safik che dà un calcio al muro e grida e crolla e esce fuori e il sole gli illumina la pelle completamente insanguinata e tira fuori la pistola e urla ancora e spara al cielo e poi si ferma, si butta in terra e piange e fuma una sigaretta mentre le lacrime scendono forte e si mischiano al sangue e alla sabbia, diventano rosse, bagnate dal sole che le fa risplendere, lente, come strani gioielli sul volto olivastro di Safik che, ora, è tutto rosso.