All’uscita del tunnel, lui pensò a cosa avrebbe potuto dire per interrompere quel silenzio troppo carico e duraturo. Provò con un «Yahuuu, finalmente soli per tre giorni!». Non funzionò. I sentimenti di lei si erano stabilizzati su un corrosivo senso di colpa, e quell’esternazione liberatoria fu come passarle le nocche su una grattugia. Lui lo avvertì e tornò a tacere fino al cartello che indicava l’uscita dal paese. «Guarda!». Le disse. «Vuoi vedere che ora ci saluta? È il giovane un po’ tonto, come si chiama? Il figlio di quello che ha la bottega del ferro battuto in paese. C’ha salutati anche al nostro arrivo. E ora che ci penso mi sembra di ricordare che ogni volta che veniamo lui sta sempre lì vicino a quel cartello di benvenuto/arrivederci a salutare le auto che arrivano e partono. Strano tipo, ti pare?». Lei uscì da quel torpore nel quale era immersa da quando entrarono in macchina. Per ridimensionare le angosce sproporzionate non c’è niente di meglio che focalizzarsi su altre più grandi che appartengono a qualcun altro. Ed eccolo lì, il ragazzo scemo di età indefinita la cui nascita era coincisa con una condanna a vita, non emendabile, dei suoi genitori. Sentì improvvisamente il senso del ridicolo della sua angoscia: tre giorni, lei avrebbe dovuto convivere con questo strano sentimento materno di inadeguatezza per soli tre giorni, al termine dei quali si sarebbero ritrovati nuovamente e un po’ più cresciuti, felici che tutto fosse tornato come prima, e consapevoli che non lo sarebbe stato davvero. Quattordici anni è un’età più che adeguata per lasciare un ragazzo sano qualche giorno da solo, poi non si trattava della casa di città, lì i pericoli da prendere in considerazione erano molti di più: i vicini in vacanza, quartiere deserto, delinquenti venuti dall’est che ne prendono il possesso e che non ci avrebbero messo troppo a capire che quel ragazzone educato e ben vestito – il suo ragazzo – avrebbe potuto essere la preda perfetta, gli avrebbero fatto sputare fuori il numero della combinazione della cassaforte a suon di calci nello stomaco. Per un attimo vide anche il sangue purpureo del suo Tommy ricoprire il blu cobalto del tappeto persiano dell’ingresso, poi con un brivido ricacciò indietro quell’immagine. No, adesso non correva alcun pericolo il suo Tommy, la loro piccola e confortevole casetta in montagna era un luogo sicuro, la gente del posto era semplice ma di cuore, inoffensiva e generosa; passando davanti al ragazzo che proprio ora gli stava facendo ciao ciao con la grossa mano e brandendo con l’altra un lungo bastone di legno, ebbe un altro brivido carico di oscuri presentimenti, ma ricacciò via anche quello: non era il momento dei ripensamenti, Orazio aveva prenotato tutto da mesi – un’iniziativa anomala per lui che le delegava ogni tipo di ‘faccenda burocratica’, facendo entrare nel concetto di ‘faccenda burocratica’ anche la semplice prenotazione di un ristorante – due notti nella SPA più esclusiva che si potessero permettere, trattamento completo con bagni di fieno e percorsi aromatici per risvegliare i sensi, trattamenti corpo alla birra, vino rosso, il tutto per riconciliarsi con un anno lavorativo che li aveva provati duramente; il 25% dell’acconto era stato già versato con bonifico bancario irrevocabile. Alzò la mano e salutò con un triste sorriso il goffo ragazzo.
Si stava avvicinando l’alta stagione estiva, e i villeggianti sarebbero accorsi dalle loro città come sciami di api in astinenza dal dolce nettare dei pascoli montani, il paese si sarebbe popolato a poco a poco diffondendo nell’aria suoni di battipanni e i balconi avrebbero accolto coperte asfissiate, tutto sarebbe stato più allegro e movimentato, la proteiforme energia cittadina si sarebbe trasferita lì contaminando anche la gente del posto, risvegliata bruscamente dal letargico periodo invernale.
Tommy aprì il frigo e respirò la fresca e odorosa folata di amore materno: i ripiani erano saturi di variopinti contenitori di plastica rigida in cui erano state riposte monoporzioni pranzo/cena per un’intera settimana, ogni colore corrispondeva a un giorno diverso e la legenda che mamma aveva attaccato alla porta del frigo con due passate di nastro adesivo collegava i giorni della settimana ai colori corrispondenti – non aveva indicato le pietanze contenute perché, aveva detto, il suo ragazzo si sarebbe lasciato prendere dalla tentazione di sovvertire l’ordine, da lei scrupolosamente bilanciato, sostituendolo con uno soggettivo dettato dalla gola – in ogni caso non era proprio necessario andare a leggere ogni volta, mamma gli aveva detto che il criterio da seguire era ascendente in verticale, e da sinistra verso destra in orizzontale, quindi bastava partire dal primo ripiano in alto a sinistra e proseguire verso il basso, anche se non sarebbe mai arrivato ai ripiani più bassi perché mamma sarebbe tornata prima, a metà frigo, i ripiani in eccesso erano stati riempiti solo per farlo sentire più tranquillo. Così però non avrebbe mai saputo cosa contenevano, i colori e lo spessore della plastica lasciavano trasparire solo informi ombre scure che non consentivano nemmeno di indovinare. Allungò la mano verso un rettangolo rosa che giaceva nel punto più basso del frigo, la forma rettangolare e il colore gli ricordavano la parmigiana di melanzane, lui non poteva resistere alla parmigiana di mamma, era la più buona del mondo anche se le melanzane non erano fritte e nemmeno ripassate nell’uovo, ma ritrasse la mano al pensiero che Lei se ne sarebbe potuto accorgere. Pensò che si sarebbe potuto trattare di una vera e propria prova di fedeltà quella a cui lo stava sottoponendo, e il coperchio chiuso in un certo modo o le distanze tra i contenitori potevano essere assolutamente non casuali. Mammina le faceva di queste cose e lui non voleva che lei si sentisse tradita alla prima vera prova di fiducia che gli era stata concessa, quindi tornò in alto ed estrasse il primo sulla sinistra, un grosso contenitore circolare di colore azzurro, lo poggiò sul tavolo e fece scattare il pulsante al centro del tappo ermetico che lei chiamava ‘lo sfiatatoio’ e che era importantissimo ricordarsi di premere prima di mettere il contenitore nel microonde, altrimenti c’era il rischio che tutto il cibo al suo interno esplodesse sulle pareti del microonde e allora addio pranzo, e addirittura addio microonde. Erano le 11,35, tra meno di mezz’ora avrebbe potuto scaldare il suo primo pranzo da ometto, così l’aveva chiamato lei, non prima delle 12, altrimenti ti torna fame prima dell’ora di merenda, e non dopo le 13,30, altrimenti non avrebbe avuto fame alle 16 e addio merenda.
La mamma guardò l’orologio, le 11,35, sospirò. Il papà staccò la mano destra dal cambio e la poggiò su quella di lei, rivolgendole un sorriso significativo. «Tra meno di mezz’ora il nostro piccolo ometto pranzerà da solo, ci pensi?» Disse lei. «Sì amore, ci stavo proprio pensando.» Disse lui, rivolgendole un sorriso di finta complicità.
Alle 12,30 il contenitore azzurro era stato svuotato, si era dimenticato di estrarre dal freezer la fetta di pane n. 1, aveva finito la pasta e fagioli senza il pane, non aveva più fame, era sufficientemente sazio, ma per non lasciare nel freezer un fetta di troppo la prese e la scongelò, mangiandola senza voglia.
Alle 14 spense la televisione e cercò di fare un pisolino, come gli era stato consigliato; le giornate in montagna possono essere molto lunghe, meglio spezzarle con un bel riposino postprandiale così subito si fa ora di merenda e poi si può andare al parco giochi sotto casa dove magari si incontra qualche altro ragazzino e si fa presto sera. L’importante è non familiarizzare troppo coi ragazzini e, ancora peggio, con gli adulti che si incontrano, essere cortesi sì, ma appena cominciano a fare domande troppo interessate come “dove abiti?” “dove sono i tuoi genitori?”, allora meglio tagliare la corda e tornare di corsa a casa, e mai, assolutamente mai, far entrare estranei in casa, quindi assicurarsi di non essere seguiti prima di entrare nel portone della palazzina. Il sonno non arrivava e sapeva che non sarebbe mai arrivato con quel subbuglio emotivo che gli vorticava dentro: paura, gioia, rabbia, gratitudine, gelosia, una voluta di sensazioni contrastanti che non poteva che essere placata in un solo modo. Mamma non voleva, gliene aveva parlato, e gli aveva detto chiaro e tondo che certe cose non si fanno, lui era prossimo alla cresima, e non doveva, assolutamente, presentarsi al cospetto di Gesù insudiciato; un giglio, lui era e sarebbe dovuto restare un giglio bellissimo e non avrebbe dovuto ferire la sua anima casta e pura con la vergogna di orribili peccati. “Con un palmo di naso lascerai il diavolo”, gli diceva, “fagli maramao e segui il tuo Gesù”. Ma non era un semplice piacere quello a cui gli si chiedeva di rinunciare, una forza terribile lo trascinava giù, sempre più giù, e lo faceva sudare da ogni poro, “perdonami mamma, perdonami mamma, perdonami e baciami mamma, non lì più in giù mammina, perdonami, perdonami, perdonami con tutto il cuore e la bocca, fammi tornare un giglio bianco e pulito, baciami perché ho peccato”.
In quei momenti le tenebre gli oscuravano la vista e vedeva cose che mai avrebbe potuto rivelare, né a mamma, né a papà, né a Padre Antonio, né a Gesù, e nemmeno a Dio in persona, che forse da lassù poteva assistere al disonore che aveva provocato alla sua carne, ma che era ben poca cosa rispetto a ciò che veniva proiettato nella sua testa e di cui lui, ne era certo, era il solo spettatore.
Due file parallele di cipressi si fronteggiavano come soldati pietrificati un attimo prima della battaglia, la strada li divideva consentendo alle auto di salire fino alla sommità dove si ergeva la struttura torreggiante, interamente ricoperta in pietra viva, la cui vista lasciava ben sperare che tutte le promesse del depliant sarebbero state mantenute. L’auto si fermò davanti all’ingresso con un rumore croccante di pneumatici che masticano brecciolini. Erano quasi le 15, scendendo dall’auto si accorsero che l’aria era un po’ meno fresca di quella che avevano lasciato e questo aumentò, in lei, il senso di lontananza. «Lo chiamiamo per dirgli che siamo arrivati?» Chiese lei. «Sì, stavo proprio pensando la stessa cosa, chiamiamolo.» Disse lui. «Ma no, non possiamo chiamarlo adesso, sono le 15, starà riposando come gli avevo detto di fare.»
La stanza era ampia e luminosissima, dal balcone si vedeva la serpentina dei cipressi. Sul letto qualcuno aveva disseminato petali di rosa che presagivano a un qualcosa di lubrico, il solo pensiero le chiuse lo stomaco tirandole su la spina dorsale come una chiusura lampo. Tommy sta dormendo tutto solo nella sua stanzetta lontana e la sua mamma è qui davanti a un letto che le sbatte in faccia l’enormità delle sue colpe. Meschina, egoista, crudele, spietata, stupida, depravata, sì, depravata. Come aveva potuto accettare una simile proposta? Come aveva potuto farsi convincere? Tutte quelle storie sul rafforzargli l’autostima per aiutarlo a crescere, a staccarsi un po’ da lei, ma da lei chi? La sua mamma, che per nove mesi l’ha cullato nel suo grembo e per quattordici anni non ha mai smesso di cullarlo, accarezzarlo e rassicurarlo; per quale ragione avrebbe dovuto staccarsi da lei? Forse per dare la possibilità a qualcun altro di avvicinarla, e di tornare a usarla impunemente e indisturbato come era solito fare prima della nascita del suo unico amore? Schifoso, traditore, subdolo e infido, tutte quelle storie pedagogico-sentimentali, quando ecco cosa voleva, un grande letto ricoperto di petali su cui banchettare col suo corpo! «Voglio tornare a casa da Tommy!» Disse lei. «Ma siamo appena arrivati, datti il tempo di abituarti all’idea.» Disse lui. «Non mi ci abituerò mai all’idea, tu piuttosto fattene una ragione. Fino a domani mattina, è il massimo che posso concederti, e in ogni caso vai subito a dire a chiunque si sia permesso di cospargere di petali il letto, be’, digli che pensavamo di aver prenotato un soggiorno in una SPA del benessere, non in un bordello».
Alle 16 stava scartando due fette biscottate sulle quali avrebbe spalmato la marmellata di amarene preparata da mamma: 14 agosto 2014, Amarene di montagna, c’era scritto sull’etichetta posizionata sul vasetto con la grafia meticolosa delle persone che non lasciano nulla al caso. Il cellulare si animò cinguettando, nell’afferrarlo non contenne la pressione dell’altra mano che sbriciolò in mille pezzi la fetta tostata appena spalmata. «Mammina!» La voce di lei arrivò impetuosa, non riusciva a dare un ordine verbale a tutto quell’amore che sentiva di dovergli dare subito e adesso. «Non ti preoccupare mammina, me la sto cavando alla grande, ora sto preparando le fette con la marmellata e tra poco scendo al parco.» Lei uscì sul terrazzo per non farsi sentire dal marito e iniziò a sdilinquirsi in una serie di scuse e promesse di rientro anticipato mentre dall’altra parte del vetro una cameriera chiamata d’urgenza per un cambio di copriletto osservava la scena compassionevole.
Alle 17 la telefonata era terminata, Tommy leccò dal tavolo i pezzi appiccicosi di fetta biscottata e si avviò verso il parco. Un ragazzo della sua età era seduto su una panchina con un bastone poggiato sulle gambe, da lontano gli sembrò che stesse parlando da solo e che avesse smesso solo quando si era accorto del suo arrivo. Il ragazzo si alzò dalla panchina e gli corse incontro claudicante. Tommy si fermò, il ragazzo era a pochi centimetri da lui e con un sorriso ebete gli chiese dove abitasse. Tommy non rispose. Il ragazzo disse di averlo visto arrivare con l’auto, disse che sempre lo vedeva arrivare e andarsene con i genitori e l’auto, ma, disse, non sapeva dove avesse casa. Tommy girò le spalle e si diresse nuovamente verso casa, voltandosi di tanto in tanto per controllare se quel tipo non lo stesse seguendo. “Non me lo doveva domandare, poteva chiedermi tutto ma non dove abito, mamma è stata chiara al riguardo, quando ti fanno la ‘domanda vietata’ gira i tacchi e via”, ed era quello che stava facendo. Avrebbe guardato la televisione in attesa dell’orario di cena, non prima delle 19 che altrimenti ti viene fame di notte e non è consigliabile mangiucchiare a una certa ora, il cibo resta sullo stomaco e difficilmente si riprende il sonno.
Il marito si aggirava per la stanza mortificato, senza capire. Indugiò un po’ e poi le disse: «ho chiamato il custode del parco. Gli ho chiesto se in serata può affacciarsi da Tommy per chiedergli se magari abbia bisogno di qualcosa e controllare che sia tutto ok.» Lei, seduta al bordo del letto con le mani giunte in grembo, fissava la valigia appoggiata sulla sedia senza la benché minima intenzione di disfarla. «Magari aspetto a tirare fuori i pigiami, magari dopo cena se te la senti potremmo pensare di partire, in fondo non sono troppe ore di viaggio e gli faremmo una gran bella sorpresa, al suo risveglio ci vedrà a casa, si sentirà felice» disse lei. «Ok, come vuoi» disse lui.
L’antenna della televisione aveva ricominciato a dare problemi e dannazione proprio il canale che trasmetteva le tartarughe Ninja era completamente oscurato, pensò di scendere in garage per vedere se nella casetta degli attrezzi papà avesse lasciato qualcuno di quei giornaletti che nasconde sempre in posti strani, una volta nella casa in città ne aveva trovato uno ficcato dentro al buco dietro al bidè, gli era caduta a terra una biglia e non la trovava più da nessuna parte, si era messo gattoni a cercarla e così si era accorto del buco e del giornale. Sfogliandolo fu preso da un attacco di nausea, ma non riusciva a staccare gli occhi da quelle figure mobili, il respiro prese a mancargli e dovette respirare più forte e velocemente, si calmò solo quando sentì un caldo moccio scorrergli sulla mano e giù lungo la gamba, pensò di essersi fatto la pipì addosso, si ripulì con la carta igienica e cercò di rimuovere quella colla gelatinosa dalla pagina del giornaletto ma un alone scuro si era depositato sulla faccia di una delle ragazze e non c’era verso di toglierlo più. Lasciò perdere e rimise il giornaletto dove l’aveva trovato, dimenticandosi del tutto della biglia smarrita. Alla fine decise di non scendere in garage, il ragazzo strano avrebbe potuto trovarsi ancora in zona, e poi mancava poco alle 19.
Stava per estrarre il secondo contenitore azzurro dal frigo quando il suono del citofono lo fece sussultare. “Oddio, che fare? Che mi ha detto mamma del citofono? Ah! Che non si deve rispondere e nemmeno affacciarsi alla finestra altrimenti si accorgono che in casa c’è qualcuno. È il ragazzo col bastone, è lui, mi ha seguito a distanza e ha visto dove abito, ora starà suonando tutti i citofoni per vedere se qualcuno gli risponde”. Però non sentiva il suono dei citofoni, si ricordava che quando suonavano in altri appartamenti il suono rimbombava in tutta la palazzina. No, chiunque stesse suonando cercava proprio lui, sapeva dove abitava e sapeva che era in casa. Niente panico, basta non rispondere, non avendo le chiavi prima o poi se ne  sarebbe andato. Un cigolio maligno seguito dallo sbattere del portone gli annunciò l’approssimarsi di un pericolo mortale, passi irregolari tonfavano sugli scalini, stava salendo con una gamba sola trascinandosi l’altra appresso. Era il ragazzo, era lo zoppo, maniaco, assassino, era lì per lui. Sul balcone della sua stanzetta papà aveva lasciato la grossa pala per spalare la neve d’inverno, aveva dimenticato di portarla giù in garage nonostante mamma gliel’avesse rammentato più volte, una volta tanto la negligenza di papà tornava utile a qualcosa. I passi si erano arrestati davanti al suo pianerottolo e il campanello della porta avviò un conto alla rovescia che non poteva essere arrestato. Non c’erano indicazioni per quella situazione assurda, talmente assurda che nemmeno mamma, che pensa e prevede tutto, era arrivata ad immaginare. Doveva decidere e agire autonomamente, era un Ninja, doveva pensare e agire come un Ninja. Senza far rumore prese la pala e si diresse verso l’ingresso. Aspettare, aspettare dietro la porta, per assicurarsi il silenzio assoluto estrasse il cellulare dalla tasca e lo spense.

«Ho provato a chiamarlo ma non prende, forse non è in casa? Sono le 19, come mai non è in casa? Senti, al diavolo la cena al ristorante, credo che sia meglio partire subito, questa cosa non mi piace.» Disse lei. «Non esagerare dai, gli si sarà scaricato o l’avrà spento.» Disse lui. «Spento? E perché mai avrebbe dovuto spegnerlo quando sapeva che l’avrei chiamato? Immediatamente, partiamo immediatamente.»
Un aggeggio metallico si insinuò nella serratura. Non fare niente, immobile e attendi, come un vero Ninja. La serratura cedette di scatto e la porta si aprì lentamente, un passo, l’altro, ora! La pala era pesante da sollevare sopra la testa, ma in discesa la gravità annullò il suo peso e la forza delle braccia le diede un abbrivio non più arrestabile, la testa sembrò aprirsi in due come una pesca dal nocciolo cedevole e il sangue iniziò a defluire lungo tutta l’apertura, il corpo cadde con la faccia rivolta verso il pavimento inondandolo di un fluido scurissimo nel quale galleggiavano piccoli grumi biancastri. Gli venne da vomitare, ma si ricordò di essere un Ninja e i Ninja non vomitano in certe situazioni. Con  tutta la forza che aveva estrasse la pala ma subito se ne pentì vedendo le sue scarpe da tennis bianche affondare in quel lago di sangue. Ai lati del cranio spaccato a metà alcuni ciuffi di capelli erano rimasti del loro colore naturale, grigio, aveva i capelli grigi. Lo stupore gli fece assumere un’espressione buffa, come un bambino che è stato fregato dai compagni a nascondino. Cosa fare adesso? Mio Dio quante decisioni da dover prendere senza che nessuno gli abbia spiegato cosa fare. Mamma, cosa avrebbe detto mamma adesso? Non era più sicuro che al suo rientro sarebbe stata fiera del suo ometto, le scarpe e il giaccone dell’uomo dai capelli grigi steso sul pavimento avevano qualcosa di terribilmente familiare, sembravano proprio quelli indossati da Emilio, l’anziano custode che veniva d’inverno per liberare il viale d’ingresso dalla neve. Mamma non sarebbe stata fiera del suo ometto. Decidere autonomamente, non c’erano indicazioni scritte o lasciate a voce da nessuna parte. Niente di simile era stato previsto. Bisognava continuare con un fuori programma. Ripulire, nascondere, pensare, magari lo avrebbe detto, ma non subito, prima doveva spiegare tutto dall’inizio e con calma, trovare quella roba per terra non avrebbe consentito a nessuno di affrontare la cosa con la dovuta calma. Avrebbero capito? Sarebbe venuto un giorno in cui l’accaduto sarebbe stato per sempre bandito dai ricordi e mammina guardandolo nel profondo degli occhi sarebbe tornata nuovamente a dirgli: sono fiera del mio piccolo grande ometto? Quando? Dopo quanto tempo? Una lacrima si staccò dal mento glabro unendosi al lago purpureo.
L’auto si fermò fumante nel parcheggio del caseggiato, il rumore della ventola coprì il frinire di sottofondo del motore, lei scese scattante come una gazzella lasciando il suo autista-consorte esausto con le valige da scaricare. Aprì il portone e i suoi passi leggeri e regolari riecheggiarono lungo le scale, Tommy li riconobbe subito e andò ad attenderla. La chiave ruotò abilmente nella toppa e la porta cedette assecondando la sua fretta. Era felice, ora avrebbe visto il suo angioletto dormire, avrebbe rivisto il volto sereno di bimbo che sa che i sui sogni sono vegliati perché è amato. La pala gli sembrò meno pesante, allenata al suo lavoro sapeva già cosa fare, si arrestò un attimo nell’aria e in quell’attimo lei si girò, occhi negli occhi che si ritrovavano, per un solo attimo che sarebbe durato per sempre. L’abbrivo prese il suo corso, segnandole il volto con un sorriso largo e sincero. Avrebbe voluto inginocchiarsi per metabolizzare tutte le emozioni di quel momento come lei gli aveva insegnato a fare: “cosa provi amore mio? Dillo alla tua mamma cosa provi in questo momento, anche se sono sensazioni brutte e ti senti molto, molto arrabbiato devi sempre dirlo alla tua mamma, che ti aiuterà sempre, sempre, a superare i momenti difficili”.
Altri passi si stavano avvicinando, capì che quello non era il momento per lasciarsi andare alle emozioni, dopo ne avrebbe avuto tutto il tempo, di nuovo ritto dietro la porta come un bravo soldatino di piombo teneva la pala stretta con entrambe le mani, era la sua nodachi. Non c’era tempo per spostare il corpo, la madre doveva attendere e imparare a farsi da parte, ma eccola, anche dall’oltretomba si rifiutava, una pozzanghera melmosa e miasmatica prese a uscirle tra le cosce, non era sangue, il suo corpo non tratteneva, non aveva mai saputo trattenere nulla, deiezioni corporee, parole e anima, tutto fuori, sempre e subito. E adesso che, chissà da quale luogo, aveva capito che il suo turno era finito e finalmente era giunto quello dell’eterno secondo – il padre – lei non sopportava, e con merda e piscio manifestava il suo contrito disappunto.

In copertina: Charles Guard, Thomas Guard, The Uninvited, USA, Canada, 2009.