La realtà è una pessima narratrice. Comincia una storia a caso, generalmente molto prima del vero inizio, fa qualche divagazione incoerente e poi la tronca, lasciando la trama sospesa a mezz’aria, senza conclusione. Lavora su una situazione interessante, poi l’abbandona per seguire un particolare che non ha nulla a che vedere con la vicenda; non ha il senso dei momenti culminanti e ne sciupa gli effetti drammatici in cose prive d’importanza.
(Ashenden l’inglese, p. 5)

Ne L’Outsider, Colin Wilson scrive che l’esistenzialismo tratta la vita come se fosse un thriller. Allargando (e in parte ribaltando) il concetto, penso che il genere spionistico sia un’ottima chiave di lettura dei rapporti umani, degli eventi e del mondo. Tutti abbiamo a che fare con la doppiezza, o ci troviamo a dover gestire informazioni che non capiamo o incomplete; e magari è proprio in base ad esse che dobbiamo prendere decisioni importanti per la nostra vita. Sarà capitato a tutti di indagare, approfondire, collegare arbitrariamente nuove informazioni con le vecchie, per dare un minimo di logica a quanto accade. Si usano tali informazioni talvolta per trovare un senso all’esistenza.
Se il thriller è il genere che ha al centro la ricerca della verità definitiva, il progressivo disvelamento necessario a raggiungere tale verità, il (sotto)genere a tema spionistico potrebbe essere un’ottima modalità d’indagine, la mano che strappa il velo di Maya e che scopre la realtà, o la sua assenza.

«C’è una cosa che ritengo dobbiate sapere, prima di iniziare questo lavoro. E non dimenticatela. Se farete bene, non riceverete ringraziamenti e se vi troverete in difficoltà, non avrete aiuto. Vi va?»
«Perfettamente»
«Allora vi auguro il buon giorno»
(Ashenden l’inglese, p. 13)

“Questo, signori,” concluse Harlot, “è lo spionaggio, un’attività medio-borghese che si fonda sul denaro, che richiede stabilità, occhio acuto per quelle che sono le architetture dell’angoscia, grosse doti d’ipocrisia da ambo le parti, polizze di assicurazione, sofferenze, una lealtà di fondo pur nella propensione al tradimento, e abitudine al lavoro burocratico”.
(Il fantasma di Harlot, p. 332)

Ashenden l’inglese di Maugham e Il fantasma di Harlot di Mailer (che in un paio di situazioni cita apertamente il primo) sono due esempi interessanti del genere perché l’attenzione si concentra sulle conseguenze che l’atto dello spiare ha sulla spia e viceversa: da un lato abbiamo Ashenden che affronta la sua vita di agente segreto con piglio audace e divertito, forte della sua identità di scrittore e consapevole della propria insignificanza; dall’altro c’è Harry Hubbard, per il quale la CIA è fin da subito metro di valori e cardine della sua intera vita, mezzo non tanto d’indagine (insoddisfacente) del mondo, quanto di se stesso[i]. Sembra quasi che Norman Mailer prenda l’approccio di Maugham e lo ribalti di senso: se questi sottomette la Storia al Caso, Mailer lascia intuire una costruzione politica dell’atto storico, creata da una compagnia (la CIA) tanto rigida nella sua struttura quanto disastrata negli elementi che la compongono. In Mailer il Caso esiste, ma viene cavalcato da eminenze altissime (fantasmatiche?) dalla volontà imperscrutabile, con piani comprensibili per pochi e solo a posteriori.

È interessante osservare che sia Ashenden che Hubbard posseggono attitudini letterarie: il personaggio di Maugham è un commediografo e romanziere, Hubbard comunica di preferenza attraverso lettere e rapporti che mescolano ogni volta informazioni reali con illazioni o bugie vere e proprie. Siamo in entrambi i casi molto lontani da una figura di eroe attiva, decisa e determinata, ci troviamo di fronte a due individui introversi, propensi alla contemplazione e all’introspezione, per i quali l’invenzione diventa una questione di sopravvivenza non solo psicologica.

Io ero nella CIA per condurre una doppia vita. In questa doppia vita si fondava ogni mia speranza di sanità mentale.
(Il fantasma di Harlot, p. 440)

Viene il sospetto che il bisogno, la vocazione di creare una realtà altra, sia legato all’intima necessità di entrambi i personaggi di dare almeno una parvenza di coerenza, di senso, di significato a una vita dalle coordinate non tanto mendaci, quanto proprio inaffidabili. Ne Il fantasma di Harlot Mailer preme sull’acceleratore della paranoia attraverso un eccesso di informazioni contraddittorie che inibisce ogni tentativo di lettura della realtà: Hubbard è allo stesso tempo parte del soffocante micromondo della CIA ed escluso da esso, e non c’è relazione interpersonale che tenga, perché tutti tradiscono tutti, non esistono legami sacri e intoccabili, l’affetto è calibrato secondo le leggi interne della CIA che possono essere sempre contraddette e violate. Hubbard non ha dalla sua neanche il distacco di Ashenden, che guarda alla vita (e allo spionaggio) come a una materia informe la cui unica utilità è offrire spunti all’artista, senza la minima pretesa di controllo e dominio.
Il dubbio è che, alla fine, la differenza stia tutta lì: Hubbard racconta bugie laddove Ashenden inventa storie perché troppo legato a una struttura che lo inibisce e smarrisce dal punto di vista mentale, sociale ed emotivo, e si rapporta con una realtà già filtrata e semplificata da un punto di vista politico e ideologico. Hubbard vive la sua vita cercando di combattere per un bene che solo alla fine scopre fittizio, smarrendosi. Ashenden, d’altra parte, non ha aspettative: non combatte dalla parte del bene, ma fa il suo lavoro perché ha deciso di farlo, e perché prova piacere nel farlo bene. Coloro che lo circondano, che siano altre spie o persone ordinarie, sono solo altri esseri umani che accendono la sua curiosità, talvolta addirittura la sua compassione, a prescindere dallo schieramento al quale appartengono.
Forse è questa la differenza tra l’artista e il bugiardo: l’artista è una spia indipendente.

***

William Somerset Maugham
Ashenden l’inglese (1928)
Trad. it. di Fenisia Giannini
Milano, Garzanti, 1966
pp. 249

Norman Mailer
Il fantasma di Harlot (1991)
Trad. it. di Pier Francesco Paolini
Milano, Bompiani, 1992
pp. 1033



[i]       Occorre tener presente che, a differenza di Harry Hubbard, Ashenden è un esplicito alter ego del suo autore: William Somerset Maugham è stato davvero un agente segreto al servizio di Sua Maestà, operativo in Svizzera durante la Prima Guerra Mondiale (fu inviato anche in Russia, racconta lui, allo scopo di sabotare la Rivoluzione, ma fallì), e, come il personaggio, anche il suo autore usava di solito la sua identità di scrittore come identità fittizia.