Passava lunghe ore, immobile, davanti allo stretto abbaino della sua misera stanza, osservando lo scorcio dei tetti della città mitteleuropea in cui si era trasferito. Forse non osservava nemmeno più. Probabilmente all’inizio, qualche anno addietro, aveva guardato con reale interesse il frammento di panorama che gli si stendeva davanti, ma ora sarebbe più corretto dire che ne era rapito, cadeva in una specie di trance davanti alla finestra, senza compiere nessun movimento, quasi senza nemmeno respirare; restava semplicemente lì.
Solitario e tetro per natura, di una timidezza patologica rafforzata da un aspetto vagamente inquietante, con lo scorrere degli anni aveva provato un desiderio decrescente di comunanza verso quell’umanità da cui si sentiva respinto.
Qualche anno prima aveva nutrito segretamente la speranza di una vita sociale normale, quando, iniziando i corsi universitari di chimica, si era subito distinto per l’intelligenza brillante che lo aveva reso popolare sia presso gli insegnanti che presso gli altri studenti, ai quali passava volentieri i suoi appunti, scritti con una grafia minuziosa e accurata, o offriva ripetizioni di qualunque materia scientifica.
Purtroppo la sua popolarità era durata poco, ben presto infatti i suoi interessi verso la chimica e la scienza erano stati contaminati da strane idee maturate nella lettura di libri e antichi manoscritti di esoterismo trovati in vecchie librerie, e questo suo nuovo interesse aveva contribuito a diminuire la stima che la sua vivace intelligenza gli aveva procurato. Il punto di rottura avvenne quando un professore lo sorprese in laboratorio intento a mettere in pratica un incantesimo tratto da una delle sue letture preferite, un’edizione in spagnolo con annotazioni a margine del Necronomicon, rinvenuta in una libreria del ghetto ebraico. Espulso dalla facoltà, gli fu interdetto l’accesso a qualsiasi laboratorio e la sua passione per l’alchimia venne pubblicamente ridicolizzata.
Non gli rimase altro che ritirarsi da un mondo che non lo poteva comprendere. Iniziò a passare periodi sempre più lunghi davanti alla finestra, gli sembrava quasi che la cacofonia di spigoli, angoli e piani che formavano, intersecandosi in modi bizzarri, una prospettiva allucinante, potessero nascondere un segreto che lui solo avrebbe potuto comprendere. A volte, lasciando che lo sguardo si perdesse verso l’infinito, ogni cosa si appiattiva, le case e i tetti si deformavano e perdevano spessore come in un affresco medievale; in altri momenti, invece, le linee intricate parevano suggerire nuove dimensioni spaziali, impossibili da sopportare senza cadere nella follia. Occhi e cervello rifiutavano ciò che emergeva dalla distorta visione del panorama cittadino, eppure vi si soffermava sempre più spesso, affascinato dal mistero che spingeva la sua mente verso una vera e propria forma di pazzia. La sola altra cosa che lo affascinava era il volo degli uccelli. La vicinanza delle montagne e dei boschi spingeva perfino qualche rapace nel settore di cielo inquadrato dalla finestra della sua stanza e allora si risvegliava come per incanto dalla trance in cui era caduto e la sua attenzione era tutta per l’ospite inatteso.
Dopo l’espulsione dall’università si era mantenuto miseramente vendendo le sue conoscenze esoteriche a coloro che, per avere una consulenza, si spingevano fino alla squallida stanza in cui alloggiava. Tutti lo continuavano a chiamare “lo studente”, e lui andava fiero di quel titolo, sebbene ormai i suoi studi non avessero più nulla a che fare con l’università o le materie che vi venivano insegnate. A suo merito bisogna dire che le divinazioni che praticava erano decisamente molto più precise di quelle di cartomanti e medium assai più noti, come anche non si può tacere il fatto che i filtri magici che preparava funzionassero realmente, cosa che finiva per stupire gli incauti acquirenti.
Col tempo il suo aspetto, non sgradevole anche se decisamente particolare, era peggiorato. La vita solitaria e stentata lo aveva smagrito, il collo pareva essersi allungato, le guance rinsecchite mostravano le ossa sporgenti del teschio e il naso adunco dominava un viso scavato, come il becco di un avvoltoio. Ormai il suo aspetto allontanava anche coloro che si erano affidati alla sua competenza esoterica e diventava sempre più difficile per lui muoversi nelle strette e squallide viuzze del suo quartiere senza attirare lo scherno dei monelli di strada o gli scongiuri dei passanti che ravvisavano nel suo passaggio un segno di malaugurio. A peggiorare le cose era sorto di recente un nuovo malanno: sulle scapole erano spuntate due protuberanze carnose, due gobbe che tendevano la pelle secca e squamosa fin quasi a lacerarsi. Cercava di nasconderle sotto un pesante cappotto, assumendo un aspetto curvo e sgraziato, ma era ormai evidente che qualsiasi possibilità di una vita normale gli era stata definitivamente negata.
Non lontano si ergeva una montagna, meta del turismo cittadino, servita da una cremagliera che trasportava i passeggeri fino a un ardito belvedere a picco sopra la valle. Deciso a mettere fine alle sue disgrazie, racimolò con cura ogni spicciolo che possedeva allo scopo di potersi permettere il biglietto del treno che lo avrebbe trasportato fino a quella che per tutti gli altri era la meta d’arrivo, mentre per lui sarebbe divenuto il punto di partenza del suo ultimo viaggio. Nonostante la tiepida giornata primaverile, si coprì con un pesante cappotto nel tentativo di nascondere la sua deformità e salì sulla cremagliera che trasportava bambini festanti e adulti in cerca di distrazioni dalla vita cittadina. Era decisamente fuori posto fra le allegre compagnie che infestavano come gioiosi a cottimo il piccolo vagone. Si rintanò su un sedile, nascondendo il viso nel bavero del cappotto, soffrendo per ogni istante che il treno impiegava per raggiungere il belvedere. Arrivati alla meta attese che tutti fossero scesi prima di alzarsi e avviarsi al di fuori della stazione.
Lo spettacolo della città e della valle che si stendeva ai loro piedi attirava come miele i turisti avidi di emozioni. Egli, sebbene selvaggiamente attratto dal vuoto così vicino, si sforzò di allontanarsi e trovò una panchina, la più lontana dal punto panoramico, a cui si ancorò come se il panorama stesso avesse potuto prenderlo e tirarlo a sé. Temeva di fare qualche stupidaggine, di muoversi troppo presto e che qualcuno, comprendendo le sue intenzioni, sarebbe corso a bloccarlo per affidarlo poi alle cure dei medici di qualche casa di cura per malati mentali. Il suicidio non era certo ben visto da quei borghesi chiassosi e avrebbe ricordato loro una sgradevole realtà che cercavano in tutti i modi di dimenticare. Non poteva permettersi di fallire, relegato in un ospedale psichiatrico avrebbe finito per impazzire davvero, mentre il suo corpo si deformava in modo grottesco, come per ribellarsi alla struttura umana in cui era imprigionato.
Attese che l’ultimo turista smettesse di riempirsi lo sguardo con il meraviglioso panorama e  raggiungesse al caffè gli amici che lo chiamavano a gran voce, poi con fare noncurante si alzò dalla panchina e a passi lenti si diresse verso il parapetto di ferro che impediva di cadere al di sotto. Si aggrappò saldamente prima di guardare in basso. Unico non attratto dalla bellezza del panorama fra tutti coloro che si affacciavano per guardare la valle, era piuttosto il vuoto ad attirarlo come un’irresistibile calamita. Aspettò che nessuno mostrasse più interesse verso di lui, poi iniziò a slacciarsi il cappotto e la camicia logora. Voleva compiere il suo ultimo viaggio sentendo l’aria che gli accarezzava la pelle, agognava per una volta nella sua vita di sentirsi completamente libero, libero anche dagli stracci con cui si copriva per nascondere il suo corpo deforme agli sguardi derisori o compassionevoli della gente. Non gli importava nulla delle risate, non voleva la pietà di nessuno, voleva solo porre termine a un’esistenza che sentiva come un peso sempre più opprimente e voleva farlo nel modo più vicino al suo sogno di sempre, volare libero, senza costrizioni.
Lasciò cadere i vestiti e con un balzo che stupì lui stesso si lasciò cadere oltre il parapetto.
Chiuse gli occhi, non per paura, ma perché la terra che si avvicinava così velocemente sembrava volerlo distrarre dal godimento intenso che sapeva di poter provare in quei pochi istanti che lo separavano dalla fine.
Con un urlo di dolore misto a sorpresa sentì la pelle della schiena strapparsi e il suo gridò si tramutò in trionfo quando dalla carne lacerata si tesero al vento due ampie ali membranose.

(già pubblicato su: http://www.ilcontastorie.net/lo-studente/)