Alberto Laiseca "Uccidendo nani a bastonate" Edizioni Arcoiris - Collana "Gli Eccentrici"

Alberto Laiseca “Uccidendo nani a bastonate” Edizioni Arcoiris – Collana “Gli Eccentrici”

 

Una deriva del fantastico. L’approccio alla letteratura di Laiseca è disarmante. In ogni pagina la realtà, ovvero quell’ammasso di relazioni sinaptiche che il nostro cervello “ricostruisce”, post hoc, e che crediamo/chiamiamo vere, viene decomposta e ri-assemblata.
Per facilitare il compito del lettore, Laiseca fornisce una definizione piuttosto precisa della sua letteratura quale “realismo delirante”. Questa definizione apre verso (almeno) due scenari: 1) “realismo delirante” suona come una forte opposizione (quasi programmatica) di “realismo magico”; 2) la deriva di tale realismo nel fantastico.
Scenario 1. Inutile dilungarsi, è chiaro no?
Scenario 2. Scrive Borges nella prefazione all’edizione italiana del 1980 dell’Antologia della letteratura fantastica (Einaudi, 2007): “Bisognerebbe dire che tutta la letteratura è fantastica”. Tale affermazione confuta la prima pretenziosa introduzione all’Antologia stessa, nella quale il fantastico era considerato ancora soltanto un genere e le opere che vi comparivano rispettavano dei canoni molto ristretti (ad esempio non era considerata fantastica la letteratura dei “mostri” o dei “fantasmi”). L’accezione di fantastico riguardava una forma di “vertigine” capace di creare un twist nel racconto e era legata ad alcuni motivi, o trame, come ad esempio lo specchio, il labirinto, l’assenza/presenza, il sogno. Per mezzo di questo ampliamento di prospettiva, il fantastico viene liberato dalla gabbia del semplice genere letterario.
A corroborare l’ipotesi borgesiana ci pensa la coppia Todorov-Jackson (Rosemary Jackson, Il fantastico – La letteratura della trasgressione – Tullio Pironti Editore, 1986): «Secondo Todorov, il testo puramente [corsivo mio] fantastico stabilisce un’esitazione assoluta tra protagonista e lettore: essi non perverranno mai a definire gli eventi poco familiari descritti, né li negheranno come fenomeni soprannaturali» (pag. 26) e poco più avanti:  «Diverso dal meraviglioso e dal mimetico, il fantastico è un genere di scrittura[1] che entra in un dialogo con il “reale” e incorpora quel dialogo come parte della sua struttura essenziale
Ciò che qui[2] interessa è che non essendoci alcuna unità di rappresentazione – «il significante non è assicurato dal peso del significato: esso comincia a fluttuare liberamente» (pag. 37) – incistata nella “struttura essenziale”, Rosemary Jackson allarghi le maglie del discorso: il fantastico come modo non è unità di rappresentazione – una tale considerazione risulterebbe riduttiva e ricondurrebbe pericolosamente il modo verso il genere –, il modo invece irrompe nell’unità e la distorce, la espande, talvolta la disperde. Non c’è forma unica, non c’è modello, è piuttosto una membrana elastica. Il fantastico come modo contribuisce alla deformazione del reale. Fantastico e reale si mescolano, così che l’uno irrompe nell’altro e viceversa, al modo in cui si mescolano due colori per ottenerne un terzo, finché i due colori di partenza restano indistinguibili. «Le unità classiche di spazio e tempo e d’identità» scrive Jackson «sono minacciate dalla dissoluzione nei testi fantastici. L’arte della prospettiva e la tridimensionalità non si considerano più come norme basilari.» (p. 43)
Come deriva il “realismo delirante” dentro (e oltre) questa visione modale del fantastico? Una prima risposta viene fornita da Dostoevskij: «Il fantastico deve essere così vicino al reale che tu quasi devi crederci».

Prefazione. Chi ricorda Hop-Frog il nano tutto risentimento dell’omonimo racconto di E. A. Poe, che uccise il suo re per vendetta? Laiseca non lo ha mai scordato (forse nessun cuentista dovrebbe farlo) e di fatto, nella prefazione a Uccidendo nani a bastonate (Edizioni Arcoiris, 2017) scrive: «Da quando ho letto Hop-Frog, il racconto di Poe, sono diventato prudente. Sarebbe molto spiacevole se il furioso piccoletto della storia decidesse di vendicarsi e di farmi morire tra le fiamme come un orangutan.» La volontà di rivalsa su Hop-Frog (assorto al rango gargantuesco di allegoria), però, alla fine prevale sulla paura e l’invito di Laiseca risuona chiaramente: uccidere i nani per quanto questi appaiano mostruosi, disgustosamente violenti, ferocemente stupidi.
«E allora, cari lettori, procuratevi un’arma (un bastone di frassino, un’accetta o qualsiasi altra cosa) e inoltratevi allegramente nella selva di questi tredici racconti».

Nella selva 1: indice.

La gran caduta dell’immonda vecchia

Lo stabilimento balneare dei vagabondi

La mummia del clavicordo

Viaggio nel tornado

La soluzione finale

Il giardino dei mostri magnetofonici

Il delirio del delirio

Analisi di guerra

Gradinata di gioielli

Il serpente Kundalini

La quadratura del cerchio, il moto perpetuo, la pietra filosofale

Il cecoslovacco

Inventando titoli nella caverna d’inverno

Nella selva 2: geometrie.

Citavo poco prima la “struttura essenziale”. È chiaro, però, che tale espressione, se applicata alla raccolta di racconti di Laiseca, possa risultare riduttiva, se non addirittura eufemistica. I racconti sono sfuggenti, non si lasciano identificare facilmente. (Nani folli, impazziti e con malcelate tendenze omicide.) Fatto sta che è essenziale seguire alcuni movimenti strutturali.

L’anello. Se c’è un aspetto che immediatamente si coglie in Uccidendo nani a bastonate è la sua forma anulare, che richiama (anche esplicitamente) quella delle Mille e una notte. Esclusa la prefazione a sé stante, l’anello “inizia” con la citazione di Gallardo Drago (essa stessa citazione di apertura di A bailar esta ranchera di Horacio Romeu) e si “chiude” con Inventando titoli nella caverna d’inverno, in cui viene menzionata la canzone, al fine di essere la guida della raccolta.[3]
Lo stabilimento balneare dei vagabondi introduce due personaggi importantissimi: Moyaresmio Iseka e Crk Iseka (altre allegorie, sulle quali tornerò più avanti), presenti anche in Inventando titoli nella caverna d’inverno. I due Iseka, cui si aggiungerà un terzo Iseka nel racconto Viaggio nel tornado, sono i narratori delle storie (come Sharazad). Moyaresmio Iseka è anche scrittore dei racconti: La gran caduta dell’immonda vecchia e La mummia del clavicordo sono presentati come narrati direttamente da questi.

Le scatole cinesi. Ci sono 5 racconti di argomento nazista. Questi hanno la “struttura essenziale” delle scatole cinesi. L’uno rimanda all’altro, sta dentro l’altro. La soluzione finale li contiene tutti ideologicamente, come il titolo stesso suggerisce; Il delirio del delirio è invece un tentativo di distruggere la cineseria; Il serpente Kundalini è un racconto di pura vertigine; Analisi di guerra è comico al punto da nascondere dentro di sé (come un’ulteriore scatola) uno scherzo anti-borgesiano, nel momento in cui José Kaltenbrunner Garbanzo – autoproclamatosi dittatore di Camilo Aldao, un territorio della Tecnocrazia, su cui domina il Controllore –, nel tentativo di risalire al momento preciso in cui i nazisti furono sconfitti a Stalingrado, scopre che il generale Paulus ha commesso un gravissimo errore tempistico, che ha mandato tutti in malora; Il giardino dei mostri magnetofonici è un racconto in cui vertigine e delirio di onnipotenza fungono da sinonimi.

La torre di Babele della letteratura. Gradinata di gioielli. “Il bey della Turchia, Hashyud, fece costruire sette palazzi sovrapposti in cui rinchiuse, l’una dopo l’altra, le sue sette consorti con tutti i loro beni.” Se nell’intera raccolta c’è un racconto che potrebbe essere letto attraverso Tesi sul racconto di Ricardo Piglia, è questo racconto. In breve: ogni racconto è fatto di due storie, una evidente e l’altra segreta: la storia evidente narra che scopo del bey è costruire una specie di torre di sette palazzi, rinchiudervi le mogli, e dopo averle amate, concupite e essersene annoiato, abbandonarle a una morte atroce; l’altra storia (in pratica l’ultimo paragrafo) dice invece che intenzione nascosta del bey era abbandonare il progetto della torre di sette palazzi (come aveva lasciato a annoiarsi le sue sette mogli) e che egli “proprio come uno scrittore, realizzò delle Architetture Esemplari. La Tecnocrazia come un gioiello nel loto.»
Una micro-cosmogonia nel bel mezzo del corpo del libro.

Polimorfia. Come già detto, è impossibile considerare l’opera di Laiseca in maniera univoca, solo fantastica o soltanto delirante. Le due cose, immaginazione e delirio, non vanno di pari passo, non hanno lo stesso peso in ogni racconto, non sono elementi ben ponderati e ruotanti intorno a un nucleo stabile. Di uno stesso racconto si possono esaltare i passaggi dell’una o dell’altro. Tutto è mischiato, tutto è rotto e vagante, alla deriva. Ci sono detriti umani, sacche di violenza e di terrore, dalle quali i nani mettono fuori le loro testoline e minacciano il lettore. Sono mostri meno usuali di quelli che la letteratura ha prodotto: se c’è Dracula, questo è confuso con il Dottor Jekyll; se c’è la mummia, questa è però nascosta nel clavicordo di Mozart; se ci sono il nazismo e la Tecnocrazia, entrambi non giustificano la propria esistenza soltanto di fronte al “mostro” ebreo o alla nostalgia da egloga di un Heidegger.
Se il discorso di Todorov, e più in generale dello strutturalismo[4], tende in pratica a voler migliorare, purificandola, la tradizione e la percezione che si ha di questa, se con Jackson si avvia un processo di dilatazione dell’unità di rappresentazione, attraverso l’opera di Laiseca questa dilatazione crea una sorta di disorientamento, di perdita della capacità di ricognizione del dato reale nel fantastico. È a partire da questo disorientamento vertiginoso che si può parlare di delirio. «La nostra essenza è il delirio. Non delirare significherebbe negare la carne, le ossa e il sangue che ci costituiscono. […] Il delirio è la nostra grandezza maggiore. Non quello patologico, è ovvio. Mi riferisco al sogno creatore che diventa contemporaneamente etico, estetico, mistico e pratico.» (Alberto Laiseca, Los sorias, p. 1029)[5]

La quadratura del cerchio, il moto perpetuo, la pietra filosofale. (Cfr. citazione da Los sorias, qui sopra).

Il cecoslovacco. Tragica storia d’amore. Stepan, di soprannome il cecoslovacco, e Gloria sono sposati. Lui è emigrato nel paese di Gloria, e l’ha scelta solo perché, non potendo disporre della figlia del suo datore di lavoro, lei non ha opposto alcuna resistenza al suo corteggiamento. Stepan decide di uccidere la moglie, tra l’altro tre volte paranoica, e vuole farlo «servendosi esclusivamente di armi segrete», tra le quali frammezza anche il linguaggio «quasi fosse il più letale e potente dei suoi missili nucleari a testata multipla.» L’eleganza di questo racconto sta tutta nello stillicidio perpetrato ai danni di Gloria, la quale cerca un inutile conforto nella sua amica del cuore. Stepan le sussurra frasi ambigue, con una sintassi orribile e deforme che mira a «scavare nei recessi più profondi dell’animo della donna.» Goccia dopo goccia, in attesa che il vaso trabocchi. E l’amore? Dov’è e come si esprime? (Domanda legittima) L’amore – tragico e malato ripeto – si manifesta proprio nell’ossessiva ricerca di un punto di rottura ultimo. Ma il linguaggio non può fornirlo, il linguaggio è solo un mezzo. Allora interviene la malattia: il cancro. Il finale, che qui taccio, è al pari della Tecnocrazia e del suo gioiello nel loto – pur essendo un gioiello che dichiara morte.

Il male. «Kaltenbrunner gli disse: “Perché non entri nelle SS?”, e lui rispose “Già, perché no?”. Andò così.» (H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli 2016) Se qualcuno ascoltasse questa frase dopo aver letto La soluzione finale – primo dei racconti a tema nazista – non dubiterebbe che si tratti di una citazione precisa dal racconto. Per due motivi: uno dei personaggi è Dioniso Kaltnebrunner, questo breve scambio di battute tra due commilitoni, pronti a entrare in uno dei più brutali corpi di polizia della storia, denuncia quella banalità che è tesi del libro di Hannah Arendt.
All’inverso: il finale del racconto di Laiseca pare essere modellato proprio sullo stile della filosofa ebrea: «Ancora una volta ci dovemmo piegare. Per quanto assurdi, gli ordini sono ordini».
Laiseca affronta il male per eccellenza del Ventesimo secolo con piglio dissacratorio. In Analisi di guerra, mentre il folle Garbanzo (anche lui Kaltenbrunner, ma solo per coincidenza) pianifica il piano migliore per distruggere il Controllore e la Tecnocrazia, viene interrotto continuamente dalla madre premurosa che gli parla in yiddish e offre biscotti e altre leccornie ai partecipanti alla funesta riunione. Ne Il giardino dei mostri magnetofonici il narratore passeggia con il terribile Dioniso Kaltenbrunner nel suo giardino dove si conducono esperimenti sulle piante per renderle ancora più carnivore, ancora più mostruose: si trova qui un’eco degli esprimenti di genetica dei nazisti, ma come per la presenza della madre in Analisi di guerra, Laiseca distorce e sovverte e reinventa il malvagio mito nazista e il narratore. La banalità del male non più storicizzata, ma divenuta letteratura, ovvero invenzione e delirio dell’immaginazione (o delirio fantastico).
Il male, però, si presenta anche sotto altre forme, non solo quelle “storicizzate”. Una delle più temibili, sempre in seno alla letteratura, è l’allegoria. Dato il suo carattere stigmatizzante, l’allegoria è il mezzo più proficuo per alterare la realtà (di diversa opinione in questo caso la coppia Todorov-Jackson) e renderne comprensibile la deformità. Ad esempio, nel racconto di E. A. Poe Hop-Frog il nano non è allegoria dell’essere umano infimo e meschino, è solo un nano come ce ne sono tanti. Hop-Frog viene deriso dal re e cerca vendetta. È una storia di efferata violenza, ma non c’è stigmatizzazione. Dioniso Kaltenbrunner, al contrario, non è solo un nazista, un Eichmann come ce ne sono stati tanti, ma è il nazista, il prototipo, l’esemplare da laboratorio (ironia della scienza!). Dioniso Kaltenbrunner rappresenta il male in sé e per sé. «La colpa di tutto è di Dioniso Kaltenbrunner. Furono sul punto di destituirlo più di cento volte, ma nessuno riuscì a farlo cadere in disgrazia presso il Controllore, il quale provava un attaccamento irrazionale per questo personaggio decisamente deleterio per ideali tecnocratici.» (Incipit de Il delirio del delirio, pag. 87)
L’allegoria è, dunque, una forma indispensabile per Laiseca, il quale non risparmia neanche se stesso, si vedano in questo senso i suoi due alter-ego Moyaresimo e Crk Iseka (o LaIseka). E per meglio intendersi: «Quale leccornia potrebbe essere paragonata alla carne della sulfurea ciccina, parola che nel nostro lessico indica una persona malvagia? Soltanto un’allegoria può divorarne un’altra.» (Lo stabilimento balneare dei vagabondi, pag. 31)

Iper-libro. Ancora ne Lo stabilimento balneare dei vagabondi, vero e proprio racconto-membrana che dischiude i deliri fantastici e naneschi, dal dialogo tra i due Iseka viene fuori un dettaglio fondamentale nella lettura dell’opera di Laiseca. Il riferimento è alla nazione conosciuta col nome di Soria, avversaria della Tecnocrazia (come specificato in una nota all’interno del racconto). «Lei parla con grande autorevolezza delle cose soria. Mi sbaglio o prima di chiamarsi Iseka il suo cognome era Soria?» chiede Crk Iseka a Moyaresmio Iseka. Poco dopo, Moyaresmio precisa: «Se siamo stati soria una volta e abbiamo smesso di esserlo, non lo saremo più. Sappiamo benissimo perché ci allontanammo dal paese ciccino. Al contrario, quelli che di cognome fanno Iseka corrono il rischio di soriazzarsi.»
Come le Avventure di un romanziere atonale, anche Uccidendo nani a bastonate rientra nel progetto “mostruoso” del mondo di Los sorias (ancora disdicevolmente inedito in Italia), creando quindi un iper-libro, una sorta di universo parallelo, di mondo-membrana in cui agiscono personaggi che sono allegorie all’inverso, in cui il male è rappresentato o da una vecchia affittacamere voodoo o da un folle plenipotenziario nazista, che fa esperimenti genetici sulle piante e che progetta una fossa comune gigante e profonda chilometri in cui gettare i corpi dei propri nemici.
Con Uccidendo nani a bastonate, dunque, si aggiunge un altro tassello all’immane lavoro e all’opera polimorfa di Alberto Laiseca, a quello che si potrebbe considerare a tutti gli effetti non una trilogia, ma un iper-libro.


[1] NdR. Genere qui non è da intendersi come “contenitore”, ma stricto sensu come “generazione” dell’atto creativo che è proprio della scrittura. Interpretazione che, se ben vagliata, libererebbe spazio tra tutte le pedisseque e ridondanti “scritture creative” et Scholae proximae.

[2] Poiché ogni scrittura nasce postuma (tanto per usare un genere-contenitore noto) anche questa lettura prova a farsi forza proprio sul suo essere ulteriore rispetto all’opera in questione.

[3] Volgarmente questa operazione si chiamerebbe “metaletteratura” e avvicinerebbe pericolosamente Borges a Laiseca. Meglio dirlo solo in nota.

[4] Si veda ad esempio Vernant per l’interpretazione della cultura greca antica

[5] Grazie a Loris Tassi de “Gli eccentrici” per la citazione da Los Sorias.