Incipit.

Sono nata maledetta. Dalla vagina di mia madre alla cassa in cui ora riposo. Un’aura di merda mi accompagna, uno stronzo piazzato al centro della testa, come il mezzo melone dei matti di un famoso tango, ma più fetido, meno poetico.

La Storia, le storie.

Il Mapocho che dà il titolo al romanzo di Nona Fernández è il fiume cileno sulle cui rive sorse Santiago, la capitale.
C’è la storia di una sorella e un fratello, la Bionda e l’Indio, portati via dal Cile, durante la dittatura militare di Augusto Pinochet, da una madre i cui dilanianti sensi di colpa rappresentano anche il senso di colpa della patria per i morti e i dasaparecidos. Poi c’è la storia del padre che è costretto a scrivere volumi di Storia del Cile epurati e modificati: lo storico di regime vede i fantasmi, e qui c’è il senso di colpa per la missione infame: la falsificazione della Storia.
La Storia (si narrano/favoleggiano anche le origini della capitale) e le storie sono legate tra loro, di un legame indissolubile come quello della Bionda e dell’Indio: non è un caso che lui dipinga ombelichi, a partire dall’ombelico della sorella dalla quale la madre lo separa. Anche l’ombelico è un simbolo che comunica con evidenza: c’è il legame con la Patria, un legame che resta, nonostante tutto.
Al centro del romanzo, si è capito, c’è la memoria del Cile, in particolare la memoria di un “regime”, cito Maurizio Stefanini in «Limes», “il cui bilancio in diritti umani è di circa 3216 morti, 1200 desaparecidos, 30 mila torturati e 200 mila esuli”, regime sul quale i cileni restano divisi al punto che la stessa parola “dittatura”.
Non ha dubbi, invece, sulla “dittatura” di Pinochet, l’autrice: Mapocho è un romanzo che gronda sangue, un romanzo di incubi e ossessioni, di fantasmi, di morti.

Fantasmi, sangue e teste mozze.

I fantasmi innanzitutto, e sui fantasmi basta poco per orientarsi. C’è un modello, in Sud America, onnipresente. Un modello citato tante di quelle volte che citarlo qui conferma l’abbassamento dello stesso a luogo comune: Pedro Páramo di Juan Rulfo, una storia di fantasmi che paralizza e inquieta il lettore senza essere una storia d’orrore. L’opprimente fatalismo del romanzo di Rulfo lo si subodora anche in Mapocho, depotenziato, però, dall’eccentrico eccesso di immagini e di narrazioni che lo compongono. I fantasmi sono generati dalla malattia della memoria collettiva/individuale (la Storia e le storie, lo ripetiamo, sono intrecciate).
Il sangue. Non c’è Storia senza sangue, sicché un flusso di sangue attraversa l’intero romanzo. Nei quaderni di Roberto Bazlen c’è un breve appunto sul Sud America in cui leggiamo: “Civiltà precolombiane: sangue, là dove ‛altrimenti’ è lo spirito” e “Avevano la testa nel sangue” (Scritti, Adelphi, 2008, p. 198).
Dal sangue alla testa mozza, dunque: immagine/tema ricorrente nella narrativa sudamericana. Mister Taylor, protagonista dell’omonimo racconto dello scrittore guatemalteco Augusto Monterroso (in Opere complete e altri racconti, Omero, 2013), è un cacciatore di teste rimpicciolite provenienti dalla foresta amazzonica, un chiaro riferimento al mercato delle tsantsas, “oggetti potenti” che col tempo, tra le stesse tribù amazzoniche, “persero la valenza spirituale e divennero prodotti commerciali” (cito da Frances Larson, Teste mozze, UTET, 2016, p. 35; a p. 34: “la creazione delle teste rimpicciolite rientrava nei complessi riti culturali praticati per imbrigliare lo straordinario potere che secondo gli shuar aveva ogni anima dopo la morte”).
C’è una scena, in Mapocho, in cui don Pedro de Valdivia, il conquistador spagnolo che fondò Santiago, sta per possedere il suo fedele paggio mapuche, Lautaro:

Si dice che gli leccò il collo e inspirò profondamente cercando di assaporare tutto l’odore, tutte le idee, tutti i misteri di quella testa. Si dice che volesse mangiarlo. La bocca succhiava il cranio del mapuche.
(p. 43)

Il potere della testa, misteriosa ed erogena, torna.
Il conquistador viene sconfitto dai mapuche guidati proprio da Lautaro: la sua testa viene mozzata e gli indios ci giocano a palín. Lautaro, in seguito, viene tradito da un indio: gli spagnoli lo catturano e gli mozzano la testa, testa che viene fatta rotolare nel fiume Mapocho. Il disprezzo degli spagnoli verso la testa del mapuche genera un fantasma (e qui il cerchio si chiude): un cavaliere senza testa, Lautaro decollato, infesta Santiago, e il fantasma non avrà pace “finché non ritroverà la sua testa” (p. 50).

fernandez-mapochoNona Fernández
Mapocho (2002)
Traduzione di Stefania Marinoni
Gran Vía, Narni (TR), 2017
pp. 212