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Nella perfida terra di Dio di Omar Di Monopoli è un romanzo viscerale, scorticato e fragile, la cui materia narrativa è ridotta all’osso e impregnata di sangue.
La storia di Tore della Cucchiara, che ritorna nella sua terra per rimettere le cose a posto, si svolge in un microcosmo, il paese di Rocca Bardata, rappresentato come un universo nel quale ogni elemento tende all’assoluto e sprofonda nell’abisso, talmente chiuso in se stesso che ogni intromissione esterna (la trasmissione “Occhio alla notizia”, l’intervento della polizia) appare superficiale e sminuente.

Combatti, figlio mio, vinci la subdola pervicacia della sua tirannide, lo spronò ebbra di furore mentre l’idiota tornava a nerbarsi la schiena: si frustava lacerando brandelli di pelle che ricadevano ai suoi piedi simili a trucioli appena usciti da una pialla. Così, piccolo mio, così. Devi punirti per mettere a tacere il Malvagio una volta per tutte.

Sentimenti e azioni assumono caratteri tanto estremi da abbattere i limiti della ragione; ne consegue una vicenda che da sola alimenta il suo fuoco e si brucia, sprigionando un aroma di fatalità che i personaggi non riconoscono ma sentono vibrare nelle viscere, attraverso dinamiche di azione e reazione dal sapore di tragedia greca, laddove l’odio si mescola all’amore e si trasmette di generazione in generazione, senza filtri, cambiando solo l’oggetto a cui si rivolge.

Nella perfida terra di Dio è scritto in una lingua animalesca e aulica, epica ed esplosiva, in perfetta coerenza con i fatti; ci troviamo al cospetto di uno stile che, a prescindere dal genere, si situa al di fuori delle classificazioni di basso e alto, proprio in virtù della sua distruttiva vitalità e della purezza delle sue commistioni: ogni elemento concorre a restituire quell’idea di potenza, di durezza, di impermeabilità alle sfumature che trasfigura la brutalità in vigore, riuscendo a farci riconoscere come intimo un sentire (e un vivere) che siamo abituati a classificare come mostruoso, o inferiore, o selvaggio.

L’altro balbettava il suo diniego come un disco rotto. Come faccio? disse. Come cazzo posso fare?
Lei gli rispose con un sorriso amorevole.
Lo hai già fatto, disse in un singhiozzo. Fin dal primo giorno. Ma non è solo tua la colpa. Cìmu rrivati assieme fino a quài. Però una cosa buona io e te l’abbiamo fatta, Tò. È a loro c’àmu a rendere conto.

L’autore fertilizza quella perfida terra mitica composta da figure immense e spietate e di valenza archetipica, che ci affascinano e ci scuotono proprio perché radicalizzano le più cupe e disturbanti verità: il riconoscimento della nostra atavica ferocia e delle nostre pulsioni più basse (e al contempo più pure) si conferma come l’unico punto di partenza di cui disponiamo per poter non solo vivere pienamente, ma anche per riuscire a cambiare direzione, aprendoci al diverso e al suo valore che potrebbe salvarci.
Alla luce di ciò, la timida e riluttante fiducia di Tore verso la legalità, attraverso il contatto con un tutore della legge distante ma comprensivo nei riguardi delle selvagge dinamiche di Rocca Bardata,  diventa significativa, perché permette al mito di oltrepassare i confini del libro, senza privarlo della sua dilaniata potenza ma donando a esso, e al lettore, nuovi margini di immaginazione.

Il romanzo di Di Monopoli non è soltanto una storia ricca e vivificante, ma anche un viaggio attraverso un qualcosa di essenziale e immenso, di così personale e sconosciuto da aver bisogno di essere sempre ribadito; e la tensione etica che anima ogni frase de La perfida terra di Dio entra nel cuore e nella testa e vi rimane, al contempo fresca e antica.

Omar Di Monopoli
Nella perfida terra di Dio (2017)
Milano, Adelphi, 2017
pp. 205