Qui parlo di come un giorno Berto “Palla di cannone” Polonelli – anni dodici, carnagione chiara, capelli neri a porcospino tenuti su col gel, occhi neri piccoli sotto sopracciglia nere spesse, testa a sfera con tanto di gote rosee e carnose facili alla torsione con dita, dai quattro ai cinque livelli di adipe in sequenza, come salvagenti – sparì e di cosa ne fu di lui.

Domenica 24 giugno, in calendario San Giovanni Battista, Berto “Palla di cannone” Polonelli uscì di casa alle ore 9.30 per recarsi alla vicina scogliera (vicina nel senso di raggiungibile a piedi dopo circa venti minuti di cammino a passo adagio). Prima di varcare la soglia tra casa e mondo, udì a stento la madre intimargli di non muoversi perché il 24 giugno giorno di San Giovanni, come è noto, non si deve andare a mare, pena la possibilità di incorrere in eventi tragici. Ciò fu espresso dalla madre in idioma locale e tono urlato, ma essendo la casa un appartamento al secondo piano di un palazzo di quattro piani, dunque non troppo al di sopra del livello della terra, ed essendo quello l’orario e il giorno della settimana in cui sono soliti passare, strepitanti, i fedeli in tenuta bicolore per questua/penitenza, ne sortì uno scontro di voci che creò interferenza nel messaggio, sicché Berto udì a stento e male e fu impossibilitato a decodificare correttamente quanto la madre proferì.
Alle 10.20 Berto “Palla di cannone” Polonelli era giunto alla scogliera, nel luogo preciso in cui i suoi amici e coetanei erano riuniti per dilettarsi in ciò che preferivano: tuffi. C’è uno scarto, tra le 9.30 e le 10.20, di trenta minuti rispetto ai soli circa venti necessari a raggiungere la scogliera. Dalle macchie di cioccolato intorno alle labbra e dal gelato a metà (l’altra metà era già stata ingurgitata) tenuto in mano da Berto, si deduce che lo scarto fu riempito da sosta al bar per colazione consistente presumibilmente in cornetto al cioccolato che va, dal punto di vista quantitativo intestinale, unita alla colazione a casa consistente in latte al cioccolato con biscotti per un totale di due colazioni più gelato.
Alle 10.25 circa, nel silenzio costernato di amici e altri sopraggiunti (silenzio seguito poco dopo da panico e soccorsi), Berto “Palla di cannone” Polonelli era sparito. Nei fatti Berto, ingurgitato rapidamente il resto del gelato al gusto di cioccolato e nocciola e in forma artigianale, immediatamente si era spogliato della canotta bianca smanicata e dei sandali di gomma dai colori tropicali, era corso da zona di terra e pietre verso gli scogli ne aveva rapidamente superati cinque con le punte dei piedi per tuffarsi in stile “palla di cannone” (lo stile consiste nel portare le ginocchia alla pancia e stringerle con l’aiuto delle braccia col risultato di formare la figura di una palla). Ne seguì uno splash fragoroso e un sollevarsi di estemporanei flutti verso gli scogli, l’acqua colse amici e altri bagnanti, lamenti di disappunto e rabbia in tono medio e alto, frammezzati da risate. Poi le acque tornarono ad appiattirsi, calme, brillanti per il sole. Le voci si sopirono e fu attesa. Berto non riemerse.
Dopo un tempo, Berto “Palla di cannone” Polonelli riaprì gli occhi. Questi per un po’ lacrimarono causa il mare salato, poi cessarono. Un senso di gelo più dei peggiori inverni della sua vita dai piedi salì fino alla punta sempre ritta del più lungo dei capelli. Sentì alle orecchie una forte oppressione come se la testa fosse sul punto di scoppiargli. Lo spaesamento a un tempo gli fece girare la testa e creò un vuoto nello stomaco. Era tutto buio. Poi le sue sensazioni subirono una metamorfosi radicale. Al gelo seguì il caldo, al buio un lucore tra il giallo e il verde, allo spaesamento una improvvisa e tutta nuova lucidità; nessun rumore, le orecchie erano libere dall’oppressione. Udì qualcosa, uno spostamento di acque, ma dall’esterno, non era il consueto rumore attutito di acque in immersione. Spostò il capo leggermente sulla destra e fu orrore. Poco distante da lui si avvicinava un essere enorme, della grandezza di un tir, con la testa a punta e diversi tentacoli in coda, di colore rosso con sfumature scure, che riconobbe per averlo mangiato più volte ma in dimensione poco più lungo della sua mano: era un calamaro. L’impressione fu tale che dovette aprire bocca per dare sfogo allo stupore/orrore, istintivamente portò le mani alle labbra per non ingoiare acqua ma constatò di poter respirare. In pochi istanti nella sua testa si susseguirono diversi ragionamenti in una forma più limpida ed elaborata rispetto al solito. Nonostante l’età, prese a chiedersi dove si trovasse, come potesse esistere un calamaro di tali dimensioni, come mai in quell’ambiente non fosse già naturalmente morto. Non trovò risposta a nessuna di quelle domande. Intanto il calamaro gigante si dirigeva verso di lui. E la paura cresceva proporzionalmente.
Successe poi qualcos’altro di difficilmente spiegabile. Preso dalla paura, Berto cercò di muoversi invano perché non aveva familiarità con quel tipo di ambiente. Il panico prese il sopravvento: Berto chiamò a sé tutte le sue forze e finalmente il corpo prese a muoversi, ma nel movimento il costume, un pantaloncino nero che era solito tenere quasi nel mezzo della pancia ovale, si abbassò e un vortice impetuoso smosse in maniera assai significativa le acque. Il vortice si generò dall’ombelico liberato dal costume, e il calamaro gigante, in un attimo, fu risucchiato da quel piccolo e sottovalutato buco. Berto, in panico crescente per quanto accadeva, tentò di coprire l’ombelico con le mani senza risultati effettivi, nel frattempo sfilarono sotto i suoi occhi esseri che aveva visto in passato in piccole dimensioni e che ora si susseguivano in dimensioni gigantesche: crostacei di diverso tipo grandi quanto cani, pesci palla più grandi di lui, altre specie di pesci, polipi come piovre, tartarughe come automobili, aguglie e altri strani animali marini. Ci mise un po’ prima di compiere un gesto che lo riportasse alla situazione antecedente il vortice: riportò il costume a metà pancia e le acque si placarono.
Ritornato in sé, Berto “Palla di cannone” Polonelli ragionò su quanto stava accadendo. Si trovava in qualche parte del mare, in questa parte del mare percepiva coi sensi come fosse all’esterno, gli esseri che popolavano questa parte del mare erano di dimensioni inimmaginabili, e poi c’era il suo ombelico, una sorta di buco nero – così lo vedeva: piccolo e scurissimo – che tutto risucchiava.
Nel bel mezzo della riflessione si palesarono due sirene, le riconobbe dalla coda e poi dal viso bello di donne più vecchie di lui ma molto meno vecchie della madre. Gli sorrisero, e Berto sorrise a sua volta. Aprirono bocca e non emisero suoni, ma lo fecero in un modo tale che Berto udì per la prima volta una musica tanto gradevole quanto nemmeno neomelodici vari. Berto aprì bocca e si accorse di poter parlare mentre chiedeva loro dove fossero e che ci facesse lui lì. Le sirene mossero le labbra e nessuna risposta fu riportata a lui mittente, ma solo un armonioso silenzio. Con le braccia gesticolavano come per invitarlo a seguirle e lui così fece. Percorsero una porzione di spazio indecifrabile con parametri umani poiché lo stesso concetto di tempo era come cessato, e forse per questo il modo di ragionare di Berto era in continuo illimitabile progresso.
I tre fecero ingresso in una conca, e qui, sotto una luce dorata, tra erbe e fiori marini di inedita bellezza e piccoli esseri striscianti e pietre e conchiglie di svariate dimensioni, Berto vide, seduto su una specie di scoglio, un essere che mai aveva visto: aveva la testa simile a quella di un leone, e cioè aveva una chioma abbondante di fittissimi tentacoli e una specie di muso con zanne che spuntavano aguzze; il corpo era una grande palla blu omogenea, di un materiale indefinibile ma che pareva spesso e liscio; tre code di pesce si muovevano ognuna per conto suo. Non era un essere della famiglia delle sirene ma ne aveva caratteristiche simili nel susseguirsi corpo-coda di pesce, la testa pareva un qualcosa di separato e attaccato a forza, sfidava qualsiasi concetto di coerenza e di armonia delle forme possibile, anche nella mostruosità. Berto era tranquillo solo perché le sirene restavano a bocca spalancata a prolungare il magnifico silenzio. L’essere vide Berto e dai suoi occhi vuoti – c’erano i solchi ma non c’erano i bulbi oculari – senza ciglia e sopracciglia non trasparì nulla: quel volto era privo di espressione, e si muoveva come a puntare prima lui e poi le sirene. Queste, prese di mira da quello strano essere, serrarono immediatamente le labbra. Al silenzio seguì il silenzio, ma diverso. L’essere puntò di nuovo il volto a Berto e finalmente dischiuse le fauci. Parlò. E uscirono dalla cavità orale suoni articolati che dovevano essere parole, ma il linguaggio non era comprensibile. Le parole si susseguirono e divennero, d’un tratto, un linguaggio comprensibile. Berto non si sorprese dell’improvvisa capacità di decodificare quella lingua a lui estranea: la sua mente, così pensò, era in continua espansione, e anche la sua percezione.
«Tu resti qui. Si è deciso dai tempi del niente» disse l’essere, e con una delle tre code – non spuntavano braccia dal corpo a palla – pareva indicasse la sua pancia.
Berto “Palla di cannone” Polonelli assentì come se avesse capito più di tutto.
«Resto qui» rispose nella lingua dell’essere, «in fondo/io sono/l’ombelico/del mondo».
Dopodiché si volse alle sirene, dischiuse le labbra e sorrise. Fu quello il silenzio più bello mai esistito negli abissi.

In copertina: Yves Klein, Bleu sans titre (coulée), 1957.