Era il cane di Giulia, un meticcio senza valore. Gliel’avevo regalato per il nostro secondo anniversario, aveva deciso di chiamarlo Napoleone come quello degli Aristogatti. Io l’ho sempre chiamato Napo. Quando glielo portai a casa, Franco non fu contento: ma a lui non piacevo proprio io, diceva che ero un perdente senza obiettivi, inadatto a sua figlia. Che di me non ci si poteva fidare. Gliel’ho dimostrato, invece, col tempo e coi sacrifici, di che pasta sono. Ho fatto tutto per lei, solo per lei. Per lei che m’ha raccolto dalla strada quando ero solo immondizia da bruciare.
Grazie a lei ho smesso di farmi e di frequentare quel giro di tossici che chiamavo amici. Grazie a lei mi sono trovato un lavoro – tanti lavori a dire il vero, alcuni degradanti, altri disumani.

Quando ci siamo trasferiti nel nostro appartamento – un affitto stracciato, veramente – ero al settimo cielo.
Che bella era Giulia: quando rientravo la sera stanco morto la trovavo china sul libro di chimica inorganica o anatomia, una mano sulla testa di Napo, l’altra sulla fronte. Concentratissima, non mi sentiva neanche arrivare. Allora posavo una rosa sul libro, lei alzava la testa, mi sorrideva con gli occhi verdi, m’abbracciava, mi baciava. E non importava che puzzassi di fritto del Mc, di olio per motori, di benzina. Ero sempre il suo Dado. Napo ci scodinzolava addosso, quel bastardino che era come un figlio per noi, e che proprio a un figlio ci stava facendo pensare. Giovani, felici, desiderosi di essere genitori: così eravamo.

Non lo so proprio che cristo è successo poi. S’è laureata con lode – quel giorno col tailleur e l’alloro, io non avevo capito un cazzo alla discussione, ma lei… lei era bellissima. Ma già nei discorsi coi suoi nuovi amici lo capivo che ero fuori posto. Come un paio di scarpe scamosciate nello scaffale della Nike. Come Dado a un aperitivo vegano a piazza di Spagna.
Quante notti di merda ho trascorso in solitudine durante il tuo tirocinio, io e Napo a vedere la TV. Pediatria avevi scelto: amavi i bambini, amavi vederli sorridere. Ma del mio e del tuo – del nostro – non se ne parlava più da un po’.
La cena per il tuo primo stipendio da medico fu orribile. Quando misi piede in quel ristorante scicchettoso con tutti quei fronzoli di merda mi vergognai come mai in vita mia: avevo fatto chiusura a Foot Locker, voi eravate già coi primi davanti. Ridevi con Luana, specializzanda in oncologia; scherzavi con Federico, figlio del tuo primario. Ero lì muto, la barba incolta.
Improvvisamente Franco aveva ragione: il tuo Dado era un perdente. Vedevi di me solo la rozzezza di un commesso, non più gli sforzi che ho fatto per essere degno di te: ho chiuso con la coca e le scommesse, rinunciato agli amici, mi sono spaccato le mani, ho perso la dignità, ho preso quello stupido cane, e ora mi dici che basta, devo andarmene, devo sparire dalla tua vita, che valgo meno di uno stronzo finito sotto le suole, che ti servono i soldi per farti una famiglia con lui. Ho fatto tutto per te, solo per te. E ora mi ritrovo senza niente, neanche quel maledetto cane hai voluto farmi tenere.

Sono tornato a casa dai miei perché non avevo mai avuto un piano B. Niente è cambiato: papà e i suoi giri del bar, mamma e il suo alcol. La stanza m’aspettava coi poster di Vasco e la vecchia Play.
Ho fatto un enorme scatolone con la tua roba – c’ho messo i CD di Dido e dei Cranberries, i peluche, le lettere, i fiori essiccati, le foto al mare.
Dopo quasi due mesi sono rientrato nel nostro appartamento e ho lasciato tutto sul tavolo in cucina. Tu eri al lavoro, ma già tutto era invaso da pacchi per l’imminente trasloco. Stavo per andarmene quando Napo è arrivato scodinzolante a leccarmi la faccia e a sbavarmi tutto. Era un botto che non lo vedevo, l’ho trovato bene. Il pelo curato, l’occhietto tornato sano. Il collare nuovo, la medaglietta a forma d’osso. E sotto la medaglietta la scritta “Pluto”.

Chi cazzo è Pluto, eh, lurida troia? Quello era Napoleone, il nostro cane speciale. Non Pluto, il vostro cane merdoso. Come ti sei permessa? Stronza, puttana, maledetta ingrata, ho dato tutto per te, ho perso tutto per te, gli amici, il lavoro, la casa, anche questo fottuto cane ti sei portata via. E gli hai pure cambiato nome. A tal punto t’ho rovinato la vita?
Io non conosco nessun Pluto. Mi fa schifo Pluto. Pluto non deve esistere!
Ho staccato le tende del salottino, gliele ho avvolte intorno al collo. Lui non ha capito, continuava a scodinzolare. Mi leccava la faccia, mi leccava le lacrime. Era felice e ignaro come solo una bestia sa esserlo. Ha capito soltanto quando l’ho issato sul lampadario. L’ho sentito strozzarsi e guaire. L’ho visto scuotersi in preda alle convulsioni. L’ho fissato negli occhi fino all’ultimo spasmo. Gli ho carezzato la testa per qualche secondo, poi sono uscito dal nostro appartamento e ho gettato le chiavi nel tombino.
Addio Giulia. Troverai il tuo Pluto stecchito appeso in cucina. Sii felice con Federico, il figlio del primario.