L’unica cosa di rilievo fatta da mio padre fu andare nello spazio.
Quando tornò dallo spazio io ero piccolissimo e non avevo fatto in tempo a capire che era cambiato. Però lo sapevo, lo sapevo perché mamma diceva sempre che da quando papà era tornato dallo spazio era cambiato.
Di mio padre dopo lo spazio mi ricordo i lunghi silenzi; a volte guardava il cielo per ore, come se attendesse qualcosa, come potrebbero fare un cane o un cervo.
Mi ricordo che a volte di nascosto montavo sul tetto, certe notti che l’aria era gelida e le stelle sembravano esplodere e vedevo il buio riempirsi di luce e guardavo mio padre fuori, al liminare del campo verde, proprio dove il colore si diradava e cominciava a scintillare del giallo del grano.
Mio padre usciva con le mutande e la canottiera, poi si spogliava nudo, e camminava come se qualcosa gli mostrasse la strada, si esibiva in spasmi strani, come certi zombie nei film di zombie dove gli zombie però ormai corrono, oppure come certi insetti, specialmente prima di morire, specialmente con le ali strappate o con un veleno che ha già contaminato tutto il corpo e bruciato il tessuto nervoso.
Le articolazioni di mio padre, quelle notti che lui usciva sotto le stelle e un senso di terrore e di vertigine e di indicibile attrazione non mi permettevano di smettere di guardare, sembravano come rotte, vuote, sembrava che dentro fosse lui stesso vuoto, sembrava che dentro di lui ci fosse un insetto che ha mangiato tutte le ossa e si muove contro ogni regola per cui qualcosa si dovrebbe muovere.
Poi iniziava a fare quei rumori: i rumori sembravano cose che avrebbe prodotto forse un animale, ma un animale immaginario immaginato in un mondo immaginario, un mondo dove la luce non è ancora arrivata e dove si muovono solo creature giganti, esseri che parlano a schiocchi, creature nate male mentre provano a nascere bene, forme senza regole, un caos strisciante e caotico che ti riempie la bocca di cose che brulicano di buio e di vermi.
Non so se mia madre lo sapesse, so che il giorno dopo rimaneva in silenzio, guardava basso e parlava poco anche lei; mi ricordo il rumore della forchetta che sbatte dentro al piatto, il tintinnare dei bicchieri, il suono della televisione.
So che forse faceva finta di niente quindi aveva visto o almeno percepito o almeno pensato di aver capito.

Mio padre non ho mica capito che faceva.
So però che un giorno mi ha visto.
So che una di quelle notti si è voltato e invece delle stelle sul tetto ha visto me. So che i suoi occhi non sembravano occhi, sembravano cose fonde e bianche, cose dove ci si perde come in un bosco, cose fatte per guardare lo spazio e il buio e forse il niente, bulbi fatti per perdersi in un nulla caotico e agghiacciante che nessuno dovrebbe mai vedere, occhi che guardano in un modo in cui nessuno dovrebbe mai guardare.
Mi ricordo che il suo corpo ha fatto uno scatto e il mio cuore è sobbalzato, colto da un terrore che non so come spiegare, come se di colpo ti trovassi davanti a qualcosa che non dovrebbe mai essere stata lì, come se di colpo ogni cosa precipitasse velocissima da ogni galassia di insetti piovuti da ogni universo che solo una mente deviata e malata corrotta da gradi infiniti di una febbre esotica potrebbe immaginare.
Ricordo che per un istante è sembrato che volesse corrermi incontro, arrampicarsi come un ragno con arti lunghissimi e gialli, salire su e stringermi o mangiarmi o semplicemente sfiorarmi.
So che poi si è voltato, so che i suoi occhi vuoti e enormi mi sono sembrati come gli occhi di una bambina dopo che ha pianto o mentre piange o nell’istante in cui sta per piangere e la disperazione più immensa e implacabile le sale per la gola. So anche che poi è scattato nella direzione opposta, perdendosi per i campi, superando la linea tra il verde e il giallo e la notte, perdendosi in una corsa furiosa a quattro zampe, cadendo a terra, sbattendo la faccia, rialzandosi come un insetto a cui si è strappata una zampa solo per divertimento, solo per vederlo soffrire.
So che poi l’ho sentito urlare, un urlo che sembrava un po’ più umano o di qualcosa che fa finta di essere umano o che prova a sembrare umano.
Un urlo disperato che ancora oggi sento quando ripenso a mio padre, un urlo che sento o mi sembra di sentire o che io stesso emetto quando poi penso allo spazio, a cosa ha visto mio padre nello spazio, quando si è perso nello spazio, quando è tornato dallo spazio e si è messo a urlare alle stelle.